Due giorni fa, il 27 aprile, come ogni anno associazioni, sindacati e partiti della sinistra si sono recati a commemorare Antonio Gramsci davanti all’urna cineraria nel cimitero acattolico di Roma. Vi riposano poeti come Keats e Shelley, scrittori come Gadda e Camilleri, poliedrici autori letterari al pari di Bellezza ed intellettuali politicamente schierati, che della loro vita hanno fatto un insieme complesso di sincretismi che hanno unito mente e azione, desiderio e volontà, intelletto e pratica.
Tra questi, appunto, il nome di Gramsci è quello certamente più illustre. Due giorni fa, il 27 aprile, la direttrice del cimitero acattolico (che è una istituzione privata) ha criticato l’ingresso di una bandiera rossa, con sopra alcune citazioni poetiche pasoliniane dedicate al deputato e segretario del Partito Comunista d’Italia: avrebbe avuto un significato divisivo e offensivo per tutti coloro che si riconoscono in altre fedi, tanto religiose quanto più prettamente politiche.
Polemica social, botte e risposte in una sequela senza soluzione di continuità e tutto sembra, poi, rimanere come prima. Ma invece no. Negli anni scorsi le bandiere, anche di partito, sono sempre entrate e si sono sempre inchinate alla memoria di Gramsci racchiusa plasticamente ed idealmente nella sua ultima dimora terrena. Perché quest’anno, invece, il rosso della bandiera è stigmatizzato e bandito? A pensar male si fa peccato, diceva qualcuno, ed aggiungeva che però ci si azzecca quasi sempre.
Il sospetto, quindi, è che, radicalizzandosi la politica del governo Meloni nella riscrittura della Storia tanto d’Italia, a cominciare dalle SS di via Rasella diventate una banda goliardica di vecchi camerati armati solo di strumenti musicali (sic!), molti funzionari anche non statali si mettano nel viatico della condiscendenza. Seguano, quindi, per così dire, il fiume che scorre e la sua corrente nuova e vecchia al tempo stesso. La percezione è questa, sapendo che mutatis mutandis, se cambiano i governi a volte cambiano anche i presupposti morali su cui questi pretendono di reggersi.
Sono, in fondo, gli stessi presupposti che vengono indicati alla popolazione per essere dei retti, bravi cittadini: l’uniformarsi alle nuove narrazioni diviene, azione politica dopo azione politica, una regola non scritta che supera persino il concetto di legge, di diritto in quanto tale. Dove la massa o la maggioranza va, si dirigono anche coloro che, tendenzialmente, trascurano (più o meno consapevolmente) di avere un’opinione sui fatti del mondo, del Vecchio continente e dell’Italia. Si chiama “qualunquismo” e la destra se ne serve da sempre.
La bandiera rossa, con o senza falce e martello, è un pluricentenario simbolo di lotta sociale, di emancipazione del mondo del lavoro e di tutte e tutti, degli sfruttati che si sono riconosciuti sotto i simboli contadini ed operai per unirsi contro un sistema economico che si è modernizzato soltanto nella capacità di attrarre in numero sempre maggiore risorse prodotte da chiunque, espropriandoli della possibilità di goderne il frutto finale.
Gramsci e la bandiera rossa sono, quindi, la medesima cosa: sono sinonimi politici, sociali, civili, morali e culturali. Una cinquina che tocca citare e ripetere spesso perché tutto si lega e nulla può veramente essere distinto tanto da dirsi indipendente dal resto dello sviluppo della comunità in cui si vive (o si sopravvive). Sembra che la direttrice si sia, con tono molto civile, affrettata ad affermare che in uguale modo avrebbe riservato quelle critiche anche a bandiere e camicie nere.
Considerato che il nero non è un colore di esclusiva proprietà dei fascisti e che, quindi, ben prima dell’avvento del mussolinismo erano gli anarchici a fregiarsi dei colori più scuri, magari unendoli anche al rosso e creando bellissimi drappi diagonalmente bicolori, non si pone nemmeno l’equiparazione tra il rosso e il nero. L’eco piuttosto vicina della classica obiezione sui totalitarismi da bandire senza se e senza ma, la si sente tempestivamente presente ogni volta che si parla di fascismo per provare ad indurre chi ancora non l’ha fatto, a venire a patti con la propria coscienza.
Tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare. Ma, sinceramente, non è possibile mettere sullo stesso piano il comunismo italiano con il fascismo italiano. Gramsci come Mussolini? Longo come Pavolini? Terracini come Starace? Se vogliamo prenderci gioco della Storia e fare dello spicciolissimo revisionismo, accomodiamoci pure nella fiera delle iperboli surrealistissime e ingannevoli all’ennesima potenza, ma rimangono i fatti a determinare poi i giudizi finali su questo o quel regime. L’Unione Sovietica come l’Italia fascista o la Germania nazista?
Si possono tentare tutti i paragoni possibili per provare a ridimensionare e minimizzare la portata storica della lotta dei comunisti nella resistenza antifascista che – teniamolo bene a mente – inizia nel momento in cui il fascismo esclude dalla vita politica e sociale del Paese tutti coloro che non la pensano (e non la vogliono pensare) come Mussolini e la sua cerchia di autoritari servitori di uno Stato che, da liberale quale era, passerà presto ad essere l’immagine specchiata del regime.
La bandiera rossa, issata sulle fabbriche durante le rivolte operaie nel “biennio rosso“, riproposta nei medesimi luoghi negli scioperi del 1943 e, infine, portata insieme al tricolore nelle tante lotte partigiane durante il più buio periodo dell’involuzione bellica e della divisione proditoria dell’Italia in due Stati in lotta fra loro e col resto del mondo, quella bandiera rossa è stata ed è ancora oggi un messaggio di libertà assoluta, nonostante il tradimento dei suoi valori subito con la strutturazione burocratica stalinista.
Mentre il fascismo è sempre e soltanto stato autoritarismo, dittatura, repressione, compiacimento nei confronti del padronato e finzione sociale, il comunismo ha avuto tante declinazioni che non possono essere ridotte ad una soltanto. Possiamo inventarci qualunque cosa se intendiamo prescindere dai fatto storici, ma allora dovremmo asserire che Rosa Luxemburg era uguale a Lavrentij Pavlovič Berija, oppure che tra il genio di Vladimir Vladimirovič Majakovskij e la rozzezza di Stalin non vi era alcuna politicamente valida differenza…
Cosa ci si può, del resto, aspettare da alti esponenti di partiti postfascisti, che fascisti sono stati tutta la vita e continuano intimamente ad esserlo, se non dichiarazioni “sobrie” sulle commemorazioni in quel di Dongo per i gerarchi mussoliniani fucilati dai partigiani durante la fuga del duce verso il confine svizzero e travestito da militare tedesco? Dichiarazioni come questa: «Facevano bene, facevano male, è il loro lodo di esprimere questo sentimento ma grazie a Dio non c’era odio e non c’era violenza. A me basterebbe che non ci fosse in nessuno né odio né violenza e del resto possiamo discutere».
L’indubbia abilità dialettica del presidente del Senato non esime dal considerare quelle commemorazioni non come tali ma come un momento per esprimere vera e propria apologia del fascismo. Di contro, noi non negheremmo mai fare dell’apologia della Resistenza, di esaltarla come elemento cardine di rifondazione dell’Italia sulla base di princìpi democratici, laici, nettamente repubblicani e non più repubblichini. Ogni volta che ricordiamo i partigiani e le partigiane, i resistenti nella loro grande espressione energica di volontà e di sacrificio, noi facciamo apologia.
Nel senso più concreto e vero del termine: απολογία (apologhìa), quindi un discorso, una orazione in difesa di chi si è battuto per la libertà dell’Italia dalla dittatura dei fascisti e dall’occupazione nazista. La bandiera rossa stava dalla parte giusta: dalla parte che ha contribuito, insieme a tutte le altre formazioni antifasciste, a scrivere la Carta costituzionale su cui anche il governo Meloni ha giurato ma che, senza alcun infingimento, intende superare in ampie parti dei titoli.
Gramsci muore in quel 27 aprile 1937, pochi giorni dopo che le misure detentive cui era sottoposto, anche nella clinica Quisisana di Roma, vennero meno. Mussolini non aveva smesso di avere paura di quel cervello cui i fascisti avrebbero voluto vietare di pensare per oltre vent’anni. Ma si era reso conto che ormai il tempo per il dirigente comunista era al termine, viste proprio le sue gravissime condizioni di salute. Pasolini scrive dolcissime e tenere parole per Nino che riposa nel cimitero acattolico romano.
Della lunga poesia “Le ceneri di Gramsci” (1954), si possono citare tanti frammenti. Uno in particolare parla del rosso, anzi di varie tonalità di rosso…:
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi.
Il timore che oggi quel rosso, della bandiera di Gramsci e del partito dei comunisti, possa essere una sorta di offesa alle altre genti che riposano nella stessa terra, è un esercizio più che alto retorico in cui trova espressione il tentativo di giustificare un atteggiamento che va incontro al nuovo corso politico e che, povero di qualunque sostanza culturale, storica e anche attuale, si riduce alla condiscendenza, alla compiacenza, e mortifica anzitutto la vita di un uomo che è stato segretato e ucciso dal fascismo.
Un uomo che fisicamente era minuto e malfermo, ma che mentalmente e volontariamente era per davvero un gigante. Qualità che gli sono state riconosciute anche da avversari tutt’altro che annoverabili anche soltanto parzialmente nel campo del progressismo italiano di vecchia e moderna data. Il punto oggi, tutto questo considerato, è fino a dove potrà spingersi la compiacenza verso il potere. Fino a quando la paura di non essere politicamente allineati al nuovo corso farà il suo corso scavando nel fondo delle (in)coscienze.
Alcuni punti fermi non possono venire meno. Non abbiamo più l’alibi di oltre ottanta anni fa, quando si poteva in una certa misura affermare di non ritenere possibile che fascismo e nazismo potessero diventare due dittature spietate, olocaustiche e capaci di fare decine di milioni di morti nel nome della supremazia razziale e dell’imperialismo di nuovo romano conio. Oggi, come nel recente ieri, sappiamo a cosa si può andare incontro se si tollera, se si minimizzano frasi, comportamenti e proposte di legge.
La crisi strutturale, ambientale, economica, bellica, porta nella direzione che ci include già pericolosamente: la via dei nazionalismi e delle differenze esaltate come stigmi per altre differenze. Superiorità e inferiorità sostituiscono concetti come solidarietà e condivisione. Una bandiera rossa che viene esclusa dall’ingresso di un cimitero, anche non fosse quello acattolico che ospita Gramsci, e che non viene portata all’ultimo saluto di qualunque socialista, comunista, libertario, è un segnale.
Uno dei tanti. Ma è e rimane un segnale di cedevolezza rispetto al volere del governo di estrema destra. Si temono ritorsioni in varie forme e modalità e, per questo, ognuno corre ai ripari per salvarsi dalla furia degli elementi istituzionali. I sillogismi sono sempre un po’ pericolosi, ma non è difficile in questo caso premettere maggiormente che ogni manifestazione di antifascismo oggi è criticata dal potere; che Gramsci era antifascista, che la bandiera rossa è antifascista e che, quindi, in conclusione anche il colore di Nino lo si vorrebbe sotto quello scacco.
MARCO SFERINI
29 aprile 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria