Se contano solo competizione, violenza e successo…

Quando ero ragazzo, se caso mai mi accadeva di pigliare una nota a scuola, i miei genitori aprivano il libretto, firmavano la nota un po’ accigliati e poi mi...

Quando ero ragazzo, se caso mai mi accadeva di pigliare una nota a scuola, i miei genitori aprivano il libretto, firmavano la nota un po’ accigliati e poi mi chiedevano il perché avessi preso quel rimprovero da parte dell’insegnante, cosa mai avessi fatto? Ero io, lo studente che, giustamente, dovevo dare una spiegazione non ad una controparte della scuola rappresentata dalla mia famiglia, ma ad un giudice non proprio terzo che, però, aveva tutta l’autorità morale per redarguirmi e, semmai, indicarmi l’errore, caso mai non fossi stato in grado di accorgermi da solo dell’inciampo in cui ero caduto.

Il processo di apprendimento di un’etica comune, di un comportarsi correttamente verso gli altri e, quindi, anche verso sé stessi, prevedeva una consapevolezza anzitutto mia ma non disgiunta dal contesto: scuola, famiglia e studente erano coinvolti in un cammino comune che non li vedeva come soggetti antagonisti, ma compartecipativi. Questo piano di interazione oggi è entrato abbondantemente in crisi ed insegnanti, presidi e personale scolastico sono messi in molti casi sotto accusa da una genitorialità che pretende per i figli non la correttezza della formazione, ma l’accondiscendenza sempre e comunque.

Il tutto appare come un capovolgimento tanto dei ruoli sociali quanto delle dinamiche che li riguardano entro le mura degli istituti così come quelle di casa. Pare di vivere in compartimenti stagni e che lo studente (o l’individuo in quanto tale, per usare un termine più antro-sociologico) sia un diafanico, intangibile soggetto che non può essere giudicato negativamente: non tanto perché se ne lederebbe l’autostima in potenza, quanto semmai perché non si può dire di NO, ma si deve sempre acconsentire e, tutt’al più, minimizzare il cattivo comportamento.

Qualche giorno fa un ragazzo ha preso una di queste famose note scolastiche. La madre ha letto la stessa su quello che oggi è il registro elettronico (altro che libretto cartaceo…), quindi sul telefonino, e si è precipitata a scuola non per sapere cosa avesse fatto il figlio ma per inveire contro tutto e tutti. Pare che la signora, ed anche il figlio, non avessero mai dato adito a poter essere intesi come dei violenti tanto verbalmente quanto materialmente parlando. Eppure, mentre il preside tentava di calmarla (le frasi della donna ad un certo punto hanno toccato l’apice della minaccia: «Faccio una strage!»), dopo aver chiamato le forze dell’ordine, un gancio destro lo ha colpito in pieno volto.

KO del dirigente scolastico, finito proprio a terra, come un su un ring. Qui si trattava dello spazio antistante la scuola e dalle finestre molte ragazze e molti ragazzi hanno assistito alla scena: i loro commenti, ripresi dai giornali, sono ovviamente tutti negativi e di biasimo verso la signora in questione. Ma poi qualcuno ammette a denti stretti che il dirigente scolastico effettivamente è un po’ troppo severo. Ha ridotto il numero delle gite, ha diminuito a sei le assenze giustificate in un semestre e così via… A quell’età, non c’è dubbio, interventi di questo tipo paiono delle punizioni quasi corporali e, quindi, enormi.

Ma, per lo meno, non c’è nessuno che giustifichi il comportamento aggressivo e violento della madre del loro compagno di scuola. Già questo è un punto di partenza e non affatto scontato. Viviamo in una società in cui la competizione sembra essere la cifra su cui valutare l’integrità morale, l’intelligenza, il successo di ognuno di noi. Chi prende una nota e viene quindi stigmatizzato nei suoi comportamenti, appare come inferiore agli altri, escluso dal novero dei potenziali fenomeni del domani. Si fa vivere ai figli questo regime competitivo ben oltre ogni misura. Non è soltanto più una questione di violenza nei videogiochi o nei film (e ce n’è comunque tantissima, troppa…).

Uomini che uccidono le donne praticamente ogni giorno perché non si sottomettono al loro volere, al loro possesso, al loro amore finto e tossico. Ragazzi che bullizzano altri ragazzi, più deboli fisicamente, magari mentalmente differenti, con disagi di varia natura, pure con oggettivi handicap. L’empatia viene progressivamente meno nel momento in cui prevale la certezza a tutto tondo, quando il dubbio è ingombrante e fa star male. Molto meglio essere tutti d’un pezzo, incapaci ogni tanto di piangere se non quando ci si trova palesemente nei guai e si scopre la fragilità che prima si occultava dietro la fierezza della spavalderia.

Che cosa ha insegnato ai giovani del nuovo millennio questo capitalismo competitivo all’ennesima potenza? Non la solidarietà tra comuni e tra diversi, non la comprensione delle fragilità e il sostegno reciproco, ma la necessità spietata del rivaleggiare per primeggiare. Solo la competizione vale come metodo di valutazione delle proprie capacità: non c’è tempo per riflettere un attimo, per fermarsi ad approfondire ciò che si prova. Si agisce d’istinto e, il più delle volte, questo istinto è impeto violento, per dare un taglio feroce ai problemi, per non sentirsi sotto la lente d’ingradimento dell’autoconsapevolezza e della propria coscienza.

Di questo processo involutivo fa parte una retrocessione culturale ad ampio spettro che, come è evidente, riguarda anche la scuola della Repubblica ridotta ad essere una variabile dipendente del mercato, delle imprese: alternanza scuola-lavoro la definiscono, facendone un binomio di successo. Perché il sapere per il sapere è da intellettualoidi, da secchioni inconcludenti. Si studia non per conoscere meglio ciò che esiste e ciò che noi stessi siamo, ma per poter ottenere quei crediti che conducano oltre la scuola dell’obbligo, in atenei dove il livello di competitività si alza ulteriormente.

Concepita così, entro i contorni del liberismo egoistico ed autoreferenziale, l’istruzione è solo un mezzo come un altro per accedere ad un successo che non è sinonimo di capacità messe in pratica. La meritocrazia non mi ha mai del tutto convinto come piano di valutazione delle capacità del singolo: però non è in discussione il fatto che non ci si può completamente affidare alla prepotenza degli stratagemmi, all’evitamento delle note scolastiche, come ai voti negativi o alle disposizioni disciplinari. La scuola pubblica, al pari delle istituzioni che la regolano, si è allontanata dalla sua originaria missione.

Questa consisteva nella formazione critica dei futuri uomini, delle future donne, di chiunque era destinato ad essere un cittadino in uno Stato democratico, libero e laico dopo un ventennio di dittatura fascista e una guerra mondiale devastante e annichilitrice di città, popoli, coscienze. Il recupero del senso minimo dell’esistenza aveva trovato la sua ragione d’essere proprio nella condivisione del grande dramma epocale vissuto: la solidarietà era nata spontaneamente dalla volontà di superare quella fase di buio collettivo altrettanto collettivamente, partendo dalla piena consapevolezza che una società più giusta era possibile.

Oggi non si ragiona in termini collettivi ma piuttosto individuali. Soprattutto ci stiamo colpevolmente abituando a ritenere ciò che diciamo come insindacabile: aprite le pagine dei social. Chiunque può leggere i commenti di odio che li pervadono e la voglia di fare del male che c’è nelle tante parole espresse con saccenza, presupponenza, senza mai mettersi in discussione, senza mai dirsi: «Magari sono io che sbaglio». Oppure, più modestamente: «E se avesse ragione Tizio e non io?». Dal dare data per scontata una moltitudine di diritti umani, civili e sociali dal dopoguerra ad oggi, siamo passati al dare per scontato il nostro sapere.

Un sapere inteso come opinione che va oltre l’opinione stessa e che, quindi, diventa qualcosa di molto simile ad un laico dogma del singolo che si va a scontrare con altrettanti simili. A questa attitudine di prepotenza fintamente nascosta dietro il rispetto formale dei diritti dell’uomo e del cittadino moderno, ha contribuito non da poco un insegnamento televisivo fatto di programmi in cui ci si dà addosso senza esclusione di colpi: programmi che parlano di amici e di uomini e donne sono tra i più banali esempi di un processo di decostruzione dell’io pensante, del cosciente, del sognatore che rimane anche pragmatico.

I sentimenti vengono sottoposti ad un caudinuco passaggio sotto nuove forche: audience, successo, riconoscibilità. Si finge per essere e si finisce con lo smarrire proprio la più intima essenza di ognuno di noi. La televisione in un certo modo, ma soprattutto i social, ci hanno spersonalizzato, seducendo il nostro più recondito lato edonistico, compiacendoci tramite il poterci mostrare a tutte e tutti, urbi et orbi, per avere come contropartita le lusinghe dei “likes” e, non guasta certo nella società del guadagno facile per il successo facile, anche remunerazioni in merito dalle piattaforme più disparate.

Ma un mezzo rimane sempre un mezzo: per cui è l’utilizzo che se ne fa che ne determina la bontà o la nocivissima pericolosità. La scuola non è da meno: se la si intende come un punto di riferimento sociale, culturale, tanto singolo quanto collettivo, le si permette di espletare il suo potenziale più genuino nella formazione critica delle persone. Se, invece, la si vive e la si fa vivere come una stazione di passaggio nel Monopoli di un’esistenza dove conta solo gareggiare e primeggiare, il ruolo formativo è mortificato, vilipeso e ridotto ad una mera, insignificante formalità.

Puntualizziamo: un insegnante può anche sbagliare a mettere una nota. Ma la reazione del genitore non può essere quella di recarsi a scuola e difendere senza se e senza ma il figlio, prescindendo da un dialogo con il personale, con il preside stesso. La violenza, poi, non è mai una risposta. Semmai è una affermazione aprioristica, pregiudiziale: ho ragione io e tu hai torto e per fartelo capire ti metto le mani addosso e ti impongo con la forza la mia verità, il mio volere.

Ciò che conta è comprendere appieno che questo tipo di problematiche non sono mai del tutto del singolo così come non sono completamente ascrivibili alla “Società“. C’è un concorso di responsabilità che va evidenziato e capito, interiorizzato proprio come si farebbe con una presa di coscienza di un nostro “lato oscuro” che ci ostiniamo a non voler far emergere. In psicoanalisi si dice “vedere il disagio“. Noi dobbiamo fare proprio questo: non accorgercene soltanto, ma vedere le problematiche che ci attraversano sapendo che, anche se non ci riguardano direttamente, ci includono comunque.

Era un altro contesto, ma vale comunque la strofa della “Canzone del maggio“: «Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti». Se lo fossimo volontariamente e non costretti ad esserlo, sarebbe certo molto, ma molto meglio.

MARCO SFERINI

16 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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