C’è un piccolo (?) campanellino d’allarme che suona, oltre che Roma, anche dalle parti di alcune vecchie capitali italiane preunitarie. Si tratta di Venezia e di Napoli. Due grandi città in cui si riassumono i caratteri di un regionalismo che va ben oltre i confini delle regioni stesse di cui sono capoluogo. Triveneto da un lato, Mezzogiorno dall’altro: si tratta di qualcosa di più di una porzione del Paese. In questi contesti ampi e così connaturati da culture molto, molto differenti fra loro, nell’epoca moderna dell’autonomismo conclamatamente ricercato su basi “differenziate“, sembra che un po’ tutti pretendano di poter fare a modo loro.
Si intende: nel nome del benessere comune, delle loro realtà che abbisognano di particolari cure che, a quanto pare, solo dei presidenti di regione dai supermandati quasi eterni potrebbero garantire. Il fatto che si oltrepassi la Legge, facendo altre leggi ad acta, nello specifico per prolungare le proprie amministrazioni tanto da somigliare a delle satrapie di vecchia provenienza persiana, è di per sé un sintomo o, forse, già un prodotto di tempi ampiamente deteriorati sul terreno squisitamente democratico e costituzionale.
Si consumano così gli ultimi atti di una sequela di messe in scena che, alla fine, per fortuna risultano tali visto che tocca sempre alla magistratura porre rimedio a quelle che, eufemisticamente, si possono definire come delle eccentricità di una politica che, dal centrodestra o dal centrosinistra che sia, ha delle pretese sul gioco democratico e finisce con il tradire quei presupposti di mera liberalità che dovrebbe conservare in un ambito anche moderno e continentale in cui, a rigor di trattati internazionali e comunitari, vale più della qualità del potere la sua quantificazione in senso temporale.
La risposta al perché tutto questo riesca a trovare spazio in regimi repubblicani, lì dove è primo il principio della turnazione degli incarichi, delle sostituzioni sulla base delle deleghe affidate dal popolo ai delegati secondo un dato lasso di anni di legislatura, probabilmente ha un suo riscontro negli interessi economici che un dato territorio esprime e che una altrettanto data amministrazione intende tutelare per garantirsi una solida certezza di conservazione di sé stessa.
Una correlazione diretta tra struttura economica locale e sovrastruttura amministrativa che ricalca quella nazionale, ma che sul piano meramente più regionale può acuirsi. Questo perché le specificità territoriali sono molto più direttamente connesse con problematiche di tipo gestionale da parte di una politica che è conoscibile e riconoscibile nell’immediatezza: per vicinanza tanto geografica quanto per conoscenza non mediata da attori terzi che cercano una comprimarietà come nel caso dei palazzi romani.
Intendiamoci: non scopriamo certo oggi i perversi rapporti tra politica ed affari, tra pubblico e privato nell’interesse quasi esclusivamente del secondo e a tutto (o quasi) discapito del primo. Dai tempi del Pentapartito si era molto ben consci del fatto che le lottizzazioni di questi o quei settori istituzionali, così come delle aziende pubbliche (a cominciare da quelle radiotelevisive), erano uno dei piani su cui la spartizione del potere avveniva nel – si fa per dire – rispetto della dialettica tra maggioranza ed opposizione. Formalmente la democrazia si reggeva su questo compromesso permanente.
Dal 1945 in poi, riscontrabile come fenomeno di caratura continentale europea (e non solo), i regimi parlamentari e semipresidenziali si consolidavano grazie ad un equilibrio stabilito nella commistione tra crescita economica pubblica e privata, seguendo il principio della prevalenza della prima e, quindi, dell’interesse generale come presupposto per lo, sviluppo complessivo della società. Se lo stato sociale è un felice prodotto dell’Est europeo, non si può negare che, pure in forme differenti, lo sia divenuto anche in quella parte del Vecchio continente che era sotto l’egida del capitalismo.
La democrazia italiana è stata ispirata proprio a questa riduzione della dicotomia tra mondo del lavoro e mondo delle imprese nel nome di una convivenza che, pure, si sapeva non avrebbe potuto rappresentare la fine del conflitto di classe: insito endemicamente nelle contraddizioni ancestrali del capitale. Soprattutto di quello più competitivamente moderno. Se non era auspicabile, e quindi era irraggiungibile, una sorta di “pace sociale“, ciò che governi e amministrazioni locali tendevano a preferire era la minore conflittualità possibile.
Per quanto questo volesse dire rinunciare, almeno in linea di principio, ad eventi rivoluzionari, considerando la Costituzione una buona base di partenza neoriformistica per una evoluzione sempre maggiore dei diritti sociali, civili e della complessa cultura dell’Italia postfascista e democratica, non è mai venuta meno, almeno da sinistra e almeno fino alla fine dei grandi partiti di massa con gli stravolgimenti del 1989-1991, la tensione riguardante la consapevolezza della rappresentanza esclusiva del mondo proletario, di quello agrario (conteso con la DC soprattutto al sud).
L’opposizione alla fine della grande esperienza del Partito Comunista Italiano aveva un certo sapore di non arrendevolezza, di rifiuto della rassegnazione rispetto ad un acriticismo e ad una attitudine pedissequa a seguire ormai la corrente di un liberismo che sta creando interessanti preconcetti ideologici alternativi all’alternativa stessa: primo fra tutti il concetto di un “governismo” senza cui era impossibile dirsi ed essere una vera “sinistra moderna“.
Non si trattava solamente di cambiare il nome ad un grande partito comunista occidentale, ma di farlo perché era necessario scivolare dalla rivendicazione sociale consapevolmente riformista nella pratica e altrettanto consapevolmente ancora rivoluzionaria negli intenti e nelle passioni che suscitava, alla condiscendenza nei confronti delle compatibilità di un sistema che aveva già in sé i presupposti della negazione del primato del pubblico rispetto al privato.
Chi ha assentito alla mutazione dal PCI al Partito Democratico della Sinistra ha, sostanzialmente, seppure a volte inconsapevole del vero portato della “Svolta della Bolognina” e, per questo, non meno responsabile del corso preso dagli eventi, dato adito alla mutazione antropologica di una politica sociale che stava diventando politica per la politica, con il solo scopo di ritrovare nel governo del Paese l’unico momento di cambiamento dei rapporti di forza, dimenticando quell’importante ruolo di opposizione avuto fino ad allora.
Da Palazzo Chigi tu puoi cambiare le sorti della povera gente se hai dalla tua parte un contesto non solo nazionale che sostiene questo mutamento radicale. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi, puoi scongiurare governi populisti, conservatori e neonazionalisti come quello che dal settembre del 2022 regge le sorti di una Italia scivolata pericolosamente sulla china di un individualismo esasperato, di un mercatismo altrettanto tale. Il tutto, frutto non soltanto delle capacità – ben poche – di una nuova classe dirigente di destra estrema; semmai di un lungo processo di rovesciamento dei valori partito da lontano.
Almeno da quando si decise che la legge elettorale proporzionale andava superata nel nome, per l’appunto, della “governabilità” e della stabilità degli esecutivi rispetto alle importanti dinamiche parlamentari. La personalizzazione della lotta politica che ne derivò fu una conseguenza ma anche una ulteriore premessa per una esasperazione dei campi di coalizione riuniti attorno ad una figura di unico conducator che sintetizzava nella sua figura tutto ciò che era il contrario del suo avversario.
Si sono perse, così, via via le tante importanti sfumature tra politiche sociali e politiche antisociali e le commistioni, le indistinguibilità tra i poli, soprattutto riguardo le importanti materie economiche, si sono sempre più fatte tratto comune di una normalità che è andata negando, fin nel profondo, il vero carattere dialettico tra maggioranze ed opposizioni, artefacendo il processo dialettico proprio del parlamentarismo e trattando, quindi, le Camere come due apparati di mera ratifica para-amministrativa delle funzioni di governo.
La super-personalizzazione della politica ha, dunque, radici purtroppo molto addentro ad una mutazione sostanziale dell’Italia del dopo-Guerra fredda. Tutti i danni che sono stati fatti fino ad oggi da questa impostazione egotica della rappresentanza istituzionale su delega popolare, quindi nel nome della democrazia sempre più formale rispetto a quella veramente sostanziale, non sono serviti a far cambiare idea sull’utilità di un ritorno alla legge elettorale proporzionale, ad una fine delle liste bloccate, ad un mandato presidenziale che rimane il cuore del voto locale.
Non si pensa, quando si elegge un consiglio regionale, alla composizione dell’assemblea legislativa: lo scontro, soprattutto quello massmediatico, è tra i candidati presidenti in campo in una logica tutta americana della competizione tra le parti. E nemmno poi tutti hanno accesso alle tribune elettorali, alle pagine dei giornali: si ascoltano le opinioni soltanto di quelli che realmente possono avere una possibilità di diventare presidenti.
Gli altri conservano solamente il diritto di tribuna che gli è concesso dalla Legge: qualche spazio sulle televisioni pubbliche, solamente perché c’è un obbligo di finta par condicio. In uno stato di così umiliante deprivazione della democrazia mediante gli strumenti della democrazia medesima, alcuni presidenti di regione hanno avuto l’arroganza di fare delle leggi quasi ad personam per poter essere rieletti per un terzo, incostituzionale, mandato. Ci ha pensato la magistratura a questo proposito.
Ma è di per sé gravissimo che questo sia potuto avvenire e che un consiglio regionale abbia approvato una tale norma, un vero e proprio schiaffo al minimo sindacale delle regole democratiche per evitare di trasformare le comunità locali, per l’appunto, in satrapie moderne. Quando ci riferiamo al governo Meloni come se fosse l’unico problema di tenuta della democrazia repubblicana, portando ad esempio tutti i danni e i disastri che stanno facendo le destre all’impianto sociale, civile e morale del Paese, non dobbiamo dimenticare che i pericoli in questo senso non stanno solo in quel settore.
Non solo a destra, ma anche nel centrosinistra. Opportuna la sconfessione da parte del PD nazionale dei tentativi di satrapizzare la politica amministrativa regionale di una vasta porzione dell’Italia di oggi. Ma basterà a scongiurare nuovi tentativi in questo senso? Difficile poterne essere certi. Il dubbio, è abbastanza evidente, sia permesso: ultima risorsa critica davanti ad un tramonto sempre più durevole degli architravi che tenevano alto il valore unitario tra politica e società, tra rappresentati e rappresentanti. Pur con tutte le contraddizioni della cosiddetta “prima repubblica”…
MARCO SFERINI
18 aprile 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria