Vinse il concorso di ammissione alla Normale di Pisa nel 1935. Aveva da poco compiuto sedici anni: gli parve di sbarcare in un nuovo mondo. Era provato dal dolore per la morte del padre Francesco Paolo, intervenuta l’anno precedente. Ultimo di quattro figli, Armando Saitta (Sant’Angelo di Brolo, Messina, 15 marzo 1919 – Roma 25 maggio 1991) lasciò la sua Sicilia e la madre Maria Teresa Calderara animato da un gran desiderio di tuffarsi negli studi preferiti.
Aveva bruciato i tempi e conseguito da privatista il diploma di maturità classica. La compiuta monografia che gli dedica Alessandro Guerra, docente di Storia moderna nel Dipartimento di Scienze politiche alla Sapienza di Roma, ripercorre il complicato itinerario di un protagonista sul quale si è accumulata una quantità di riflessioni, ma perlopiù in riviste per addetti ai lavori.
Accanto al saggio su Delio Cantimori di Michaela Valente, è edita in un volume che traccia un aggiornato panorama su confronti e scontri cruciali in fasi determinanti della cultura italiana: A. Guerra, M. Valente, Storici e storie Delio Cantimori e Armando Saitta nella storiografia europea (Carocci «Studi Storici», pp. 132, € 16,00). Su Cantimori si è scritto molto, anche su queste pagine. Mi soffermo solo su Saitta per attenuare il silenzio che ne ha provocato quasi la dimenticanza almeno nei dibattiti rivolti al vasto pubblico.
Le questioni su cui egli si applicò non sono da accantonare e anzi inseriscono feconde tematiche in anni nei quali la storiografia esibisce un’invadenza perfino eccessiva, attraverso i più vari formati. Ricordando (1962) un siciliano polemico quanto lui, Luigi Russo, giunto come docente a Pisa proprio nel ’35, Saitta rovesciò il luogo comune secondo il quale occorre interrogare il passato per capire il presente. «Lo storico – sintetizza Guerra – legge il presente per comprendere il passato».
È da questo moto circolare che scaturiscono sia un’attendibile interpretazione del passato che la scelta della direzione da prendere per il futuro. La ricerca basata su filologia ed erudizione, su accanite visitazioni di archivi doveva serbare una sua autonomia e non farsi strumento di propaganda organica a questo o quel partito, senza però rinunciare a tradursi in organizzazione e in azione. Indiscusso era stato in Normale il dominio di Giovanni Gentile, insediatosi quale direttore nel 1928 e destituito nel ’36, quando il processo di accentuata fascistizzazione rese più ristretto lo spazio di (relativa) libertà concesso.
Saitta si avvicinò alla cellula liberal-socialista sostenuta dalla «logica demistificante» di Guido Calogero, e da «umile studente» ebbe il privilegio di recarsi a Napoli e conoscere di persona Benedetto Croce. Il che gli valse di esser schedato (1936) tra i filocrociani dalla polizia fascista. Essenziali furono i rapporti con Cantimori, prima seguito da allievo, successivamente collega, e con Carlo Morandi.
Una brutta interruzione per malattia costrinse Saitta a laurearsi nel giugno 1940 discutendo una tesi su Andrea Luigi Mazzini (Pescia 1814-Marsiglia 1849) con Calogero e Walter Maturi. Nell’ammirazione per Mazzini risuonava la scelta di un nicodemismo che celava posizioni avverse al regime o allusive tematiche di ricerca.
L’utopista individuato era persuaso che il compimento delle idealità più alte del Risorgimento avrebbe potuto trovare un esito soddisfacente solo in un contesto europeo: «L’Europa tende – si legge in una passaggio inedito nelle carte nel Fondo Saitta depositato in Normale – a una visione armonica che senza confondere le razze e le nazionalità più marcate e originali che riassumono, per così dire, l’espressione caratteristica della famiglia europea, farà dell’Europa intera una vasta federazione di popoli retti sotto una medesima forma politica e sociale, attraverso leggi e istituzioni analoghe».
In una biografia culturale son rari e dosati i momenti che lumeggiano a sprazzi i tratti personali, caratteriali e impetuosi, sofferti nella silenziosa intimità o in amaro distacco. Sul registro dell’Istituto magistrale di San Miniato, dove era vicepreside, è leggibile la sua inconfondibile firma del verbale del 25 luglio 1943 sotto una frase dal sapore crociano: «siate e sentitevi liberi».
È impossibile qui evocare la molteplicità di interessi di Saitta e la sua frenetica capacità di editor in particolare per la «Collezione storica» di Laterza. Al suo nome resta legata per sempre la figura di Filippo Buonarroti (Pisa 1761- Parigi 1837), il rivoluzionario robespierrista che tessé un’estesa rete di cospiratori per rafforzare nel Risorgimento nazionale un potenziale, a suo parere, esito rivoluzionario «in termini egualitario-comunistici».
I due volumi su Buonarroti, usciti tra il 1950 e il 1951 presso le Edizioni di Storia e Letteratura, furono accolti con estremo favore da Georges Lefebvre e Jacques Godechot. «Che altro si poteva dire di più per scatenare interessi attualizzanti e furori ideologici incontenibili?» si chiese l’allievo Adriano Prosperi commemorandolo il 6 marzo 1992 nella sede dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, la sede amatissima per i cui programmi formativi ed editoriali egli aveva speso una quantità incommensurabile di innovatrice energia, fin quando ne divenne presidente nel 1971.
Connettere l’avvio del nostro Risorgimento alla ventata giacobina che agitò il continente e si spense per la normalizzazione dittatoriale napoleonica, significava resuscitare gli spiriti di ribellione di quella lontana svolta.
«L’opera storica di Saitta – ha osservato Vincenzo Criscuolo – non intrattenne nessun legame profondo con il pensiero gramsciano». Tuttavia nel 1953 gli fu affidata, su invito di Giangiacomo Feltrinelli e d’intesa con Togliatti, la direzione della nuova serie di «Movimento operaio», che accettò puntando su un compromesso tra un impianto liberale e ambiti graditi ai comunisti. La sua intenzione di fondo era istituire «l’inscindibile nesso dialettico che passa tra classi subalterne e classi egemoni».
Si trattava di superare la ristrettezza corporativa: «E questa storia delle fabbriche, come degli scioperi, non va forse proiettata entro il tessuto connettivo di tutta la storia italiana e mondiale, se vogliamo veramente superare quel limite ‘corporativo’ che almeno a parole tutti siamo disposti a deplorare?».
La discussione con i giovani ortodossi all’attacco (tra i quali Renzo De Felice e Piero Melograni) fu l’atto finale della rivista, che chiuse i battenti proprio nel drammatico 1956. Saitta lo visse da non iscritto al Pci e si limitò ad abbandonare l’associazione Italia-URSS: «se fossi iscritto al partito comunista – confidò a Cantimori il 16 novembre ’56 –, non mi dimetterei, perché non si risolvono i problemi fuggendo ma stando dentro e lottando per un congresso veramente democratico e risolutivo».
Nel 1955 aveva, tardivamente, ottenuto la cattedra di Storia moderna nella sua Pisa. Negli ultimi anni rimase combattivo, ma si rifugiò negli studi prediletti. Ruppe fraterne amicizie. Perfino quella con lo stesso Cantimori, che non gli perdonò di essersi allineato a coloro che negarono la libera docenza a De Felice. Fondò nel ’62 una sua rivista, «Critica storica», dove continuò a dire la sua. Deprecò il ’68 non cogliendone gli accenti antagonistici al conservatorismo che lui aveva combattuto. Promosse il lungimirante progetto di un’Associazione degli Storici Europei, aperta a tutti, senza preclusione a quanti risiedevano al di là della cortina di ferro.
La macchina dell’AsE convocò fruttuosi convegni e avanzò coraggiose proposte. Era l’ora di alimentare un rinnovato patriottismo europeo. «È probabile – disse Saitta (1983) – che siamo all’alba del superamento dello stato nazionale, ma si rifletta sul fenomeno regionale dell’Europa occidentale e centrale. Forse qui, in esse e nel loro accordo con lo Stato sovranazionale, sta il segreto dell’avvenire».
L’intuizione era più che giusta. La storia ahimè ha tradito le sue speranze. Non diversamente dal giacobinismo di Buonarroti o dal pacifismo garantito da un’Europa esente da ricorrenti conflitti. La sua storia fu in buona parte storiografia delle idee che avrebbero potuto concretizzarsi e non divennero realtà effettuale. Per questo continua a parlarci.
ROBERTO BARZANTI
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