Ricostruire la sinistra dalla “tolleranza” o dalla “solidarietà”?

Opinioni a confronto: Franco Astengo e Marco Sferini sul concetto di “tolleranza” 14 luglio: la tolleranza alla base della ricostruzione della sinistra Stiamo vivendo una fase di crisi del...
Eugène Delacroix, "La Libertà che guida il popolo", 1830, Parigi, Museo del Louvre

Opinioni a confronto: Franco Astengo e Marco Sferini sul concetto di “tolleranza”

14 luglio: la tolleranza alla base della ricostruzione della sinistra

Stiamo vivendo una fase di crisi del liberalismo messo nuovamente sotto attacco dalla marea populista e dalla ripresa di una sorta di vocazione di massa al “nazionalismo autoritario”.

Si sta discutendo molto, proprio in questi giorni, di questa crisi attribuendone le cause all’abbandono delle idee di uguaglianza sociale che hanno caratterizzato il post – caduta del Muro dal 1989 in avanti mentre si stava segnando una affermazione egemonica dell’individualismo, della separatezza delle istanze politica da quelle sociali, dal riaffermarsi di logiche di potenza in una visione di “comando” nella governabilità (le cosiddette “democrazie illiberali”), della subalternità della politica alle logiche della tecnica e dell’economia finanziarizzata.

All’interno di questo quadro cade l’anniversario (il 230°) del 14 luglio: presa della Bastiglia, momento simbolico assunto come punto d’inizio della grande rivoluzione borghese.

Proprio in questo momento vale la pena ricordare i principi di fondo che ispirarono le azioni di quel tempo, a compimento della stagione dell’Illuminismo.

Vale ancora la pena farlo, anche soltanto per ripassare alcuni punti di principio validi anche per chi, nonostante il fallimento degli inveramenti statuali tentati nel ‘900, considera ancora la logica marxista della centralità delle contraddizioni sociali un punto di avanzamento radicale nelle istanze stesse che si erano espresse nel frangente del 1789.

Vale la pena ricordare: Liberté, Égalité, Fraternité – Libertà, Uguaglianza, e ancora la Tolérance, la tolleranza (quest’ultima merce rara in questi tempi cupi).

Non vi è stato tentativo di far nascere l’Uomo Nuovo senza l’interiorizzazione di questa quaterna figlia di uno dei momenti più alti e intensi della storia d’Europa, della nostra storia. Se la libertà è la condizione necessaria e imprescindibile per un agire umano dignitoso – essa è, ricordiamo, la caratteristica fondamentale che distingue il servo dal cittadino, il membro della comunità da colui che ne è escluso – è la tolleranza che, con l’Illuminismo, viene ad assumere un significato nuovo e rivoluzionario nella storia del pensiero umano.

Il concetto di tolleranza assume una connotazione ben più alta della semplice sopportazione, concetto latino dal quale primariamente derivava, giacché l’azione paziente che deriva dall’esercizio della tolleranza riconosce che le idee dell’altro hanno lo stesso diritto di esistere delle nostre (mentre la sopportazione implicava una necessaria superiorità del sopportante rispetto al sopportato).

Assieme alle idee il concetto di comprensione deve allargarsi a quello di diversità. La tolleranza è, quindi, il punto di partenza e di arrivo del percorso ideale illuminista. Se le idee dell’altro hanno lo stesso diritto di esistere delle nostre allora anch’egli ha lo stesso diritto di esistere di noi.

La tolleranza, quindi, implica l’uguaglianza. «Siamo tutti cittadini!» dicevano sovente i rivoluzionari parigini: ebbene, siamo cittadini in virtù della nostra uguaglianza in dignità, diritti e doveri gli uni gli altri. È grazie a questa uguaglianza che siamo cives, che siamo cittadini, che possiamo vivere in società ed essere parte attiva della medesima comunità.

Il concetto di uguaglianza non può che richiamare quello dello sfruttamento: ed è attraverso il filtro del permanere di giganteschi meccanismi di sfruttamento non soltanto economico che dobbiamo leggere il quadro complesso delle contraddizioni sociali.

Dall’uguaglianza deriva la fratellanza, il cui punto di espressione pratica non può che essere considerato quello della solidarietà.

Ed ecco che siamo tornati alla tolleranza, il punto di partenza, perché il considerarsi tutti come fratelli la rafforza, e le permette di mettere radici profonde nella società.

L’Illuminismo coi suoi valori di libertà, uguaglianza, fratellanza e tolleranza, è stato sicuramente parte rilevante del patrimonio culturale della sinistra italiana in tutto il ‘900 e nelle sue diverse espressioni: vale la pena rammentare questo dato proprio oggi, ricordando il 14 luglio, mentre sarebbe necessario profondere il nostro impegno in un’azione di vera e propria ricostruzione di soggettività.

FRANCO ASTENGO

14 luglio 2019


14 luglio: la solidarietà e l’uguaglianza alla base delle ricostruzione della sinistra

Ciò che scrive Franco Astengo stimola il dibattito perché è indubbiamente accattivante come ricostruzione del percorso evolutivo del concetto di “tolleranza“: un concetto che sicuramente ottiene dei miglioramenti nel corso del cammino umano e che dal primigenio significato latino arriva, proprio grazie all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, ad essere avvicinato, ad essere reso quasi, ed impropriamente, sinonimo di “solidarietà” e “uguaglianza“.

Per partenogenesi più ideale che linguistica, la “tolleranza” assume su di sé una positività di intenti che invece finisce col continuare a non avere, trascinandosi dietro l’equivoco (cercato da molti, incontrato per caso da moltissimi, compreso da pochissimi) d’essere un concetto positivo, da esaltare, da prendere a modello come genitore di tutta una serie di sviluppi anche politici in senso progressista.

Invece, la tolleranza è uno dei più perfidi inganni linguistico-social-politici che la storia conosca e ancora oggi, anzi soprattutto oggi, viene utilizzata per mostrare sempre più la “sopportazione” latina come virtù umana da rimarcare invece che come sopportazione della sopportazione stessa.

Molti farebbero a meno di essere “tolleranti“: lo sono diventi nel tempo spinti da quella che in allora era la cultura ispirata dalle influenze progressiste inserite nella Costituzione che ponevano sullo stesso piano chiunque fosse “cittadino” della Repubblica e quindi era disdicevole estraniarsi dal patto del 1948, dirsi apertamente “intollerante“, magari anche razzista e xenofobo.

Molti conservatori, bigotti, reazionari di vario stampo hanno adoperato pelosamente il concetto di “tolleranza” per figurarsi come ottime persone, osservanti dei princìpi costituzionali, pienamente inseriti nel nuovo corso repubblicano varato nel dopoguerra e quindi, pur proponendo una società fondata sulla diseguaglianza sociale e la contrapposizione tra le classi, a tutto vantaggio della classe dominante dei padroni, della “borghesia“, hanno sovente proposto di sé stessi l’immagine della comprensione dei disagi, quindi della propensione volontaria a mitigarli attraverso anche una “tolleranza economica“, quindi l’addivenire al dialogo con posizioni “intransigenti“.

Proprio su questa dialettica tra capitale e lavoro, tra padroni e lavoratori, tra borghesi e proletari, Gramsci interviene risolutamente:

“Intransigenza è il non permettere che si adoperino – per il raggiungimento di un fine – mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine.

L’intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l’unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l’intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia stato pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi.

Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio. Non basta: bisogna che della razionalità del fine siano persuasi tutti i singoli componenti l’organismo, perché nessuno possa rifiutare l’osservanza della disciplina, perché quelli che vogliono far osservare la disciplina possano domandare questa osservanza come compimento di un obbligo liberamente contratto, anzi di un obbligo a fissare il quale lo stesso recalcitrante ha contribuito.

Da queste prime osservazioni risulta come l’intransigenza nell’azione abbia per suo presupposto naturale e necessario la tolleranza nella discussione che precede la deliberazione.”.

[Antonio Gramsci, “Intransigenza – tolleranza. Intolleranza – transigenza”, Il Grido del Popolo, 8 dicembre 1917]

C’è un piano di uguaglianza che Gramsci porta alla luce accanto alla “tolleranza“, ma lo fa sempre tenendo nei pressi quell'”intransigenza” che è necessaria e mutuata, scambiata con il falso mito positivo delle “tolleranza“: essa serve soltanto a mitigare la durezza, a farla apparire meno granitica e più malleabile per il confronto, pur sempre nello scontro, per arrivare ad un accordo tra parti che stanno discutendo animatamente in un determinato contesto sociale o politico.

Dunque, essere tolleranti vuol continuare a dire essere dediti alla sopportazione e non all’accettazione completa dell’altro rispetto a noi: sia che si parli di semplici contraddittori di natura ideale e politica sia che ci si riferisca ad un ben più concreto piano di rapporti umani.

Se la “tolleranza” è accettabile come mediatrice tra due “intransigenze“, quindi come elemento morale di una discussione, è molto più complesso poterla assumere come fondamento etico personale nella considerazione di una espressione egualitaristica sociale.

La “tolleranza” non potrà mai essere positivamente concepita se chi tollera rimane un “tollerante“: se non fosse altro che per mera contrapposizione dialettico-filosofica, ad un “tollerante” deve per forza corrispondere un “tollerato“. E tutto ciò è molto lontano dal poter essere considerato un “piano egualitario” tra diversi.

La diversità non è un polo neutro che attrae un positivo e un negativo: la diversità rimarrà per l’uno un valore e per l’altro uno stigma. Il “solidale” considererà l’uguaglianza come un pilastro della società da costruire sulle macerie del capitalismo; il “tollerante” reputerà sempre l’uguaglianza una tendenza cui rivolgersi senza mai consentirle di prevalere pienamente e permettere, quindi, il rovesciamento del sistema economico dominante.

Per questo la “tolleranza” non può essere e non può diventare la base per la ricostruzione della sinistra, perché finirebbe col viziare questa riedificazione di una comunità che invece deve potersi fondare sulla “solidarietà” che pone tutti sullo stesso piano e non inizia da un vizio originario come invece fa la “tolleranza” che non elimina mai del tutto la sua genesi dalla “sopportazione” e dall'”accettazione“.

Infatti, il “tollerante” sopporta e accetta ma non condivide, non smette mai di eliminare un pregiudizio che mette solo in letargo perché costretto dalle circostanze: proprio come quelle proposte e diffuse nel popolo italiano dopo il 1946 con i fondamenti costituzionali di una Repubblica arrivata tardi, troppo tardi, ma forse anche prematura se avesse avuto i natali all’epoca di Mazzini.

MARCO SFERINI

14 luglio 2019

foto tratta da Pixabay

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