L’immagine nella storia del pensiero filosofico (occidentale) è un elemento piuttosto controverso di indagine, non fosse altro perché nel corso dei secoli sono cambiati soprattutto i metodi di raffigurazione della realtà e, quindi, di rappresentazione della stessa che, da semplice riproduzione mimetica (nel senso proprio del termine greco μίμησις (mìmesis) ossia “imitazione“), è passata all’immortalare con la fotografia prima e i filmati poi tanto i singoli istanti di vita quanto vere e proprie porzioni della stessa. Dalle lunghe interviste alle celebrità del Novecento e dei nostri tempi, fino a meravigliosi piani sequenza di vaste regioni del pianeta che diventano memoria di qualcosa di davvero spettacolare.
Noi oggi sappiamo con esatta precisione quali visi, quali tratti somatici, quali posture e corpi avevano ad esempio Giuseppe Garibaldi, il conte di Cavour, Vittorio Emanuele II e Giuseppe Mazzini. Questo grazie alla fotografia e, non di meno, alla meticolosa precisione dei pittori che li hanno anzitempo ritratti. Ma non sapremo mai quale timbro di voce avevano. Di Federico il Grande di Prussia, di Napoleone, così come di Oliver Cromwell e di Caterina II di Russia ci rimangono i ritratti ma nessuna fotografia. A mano a mano che andiamo indietro nel tempo la raffigurazione precisa ed aderente alla realtà dei protagonisti della Storia si fa sempre meno chiara e indiscutibile.
La fotografia non mente. O, per meglio dire, può mentire, perché è arte anch’essa e, se la proponessimo anche oggi a Platone, il grande filosofo del mondo delle idee obietterebbe, una volta capito di cosa si tratta, che si rimane pur sempre nella raffigurazione e che quindi si resta nel perimetro ingannevole della mìmesis, dell’imitazione, che allontana dalla realtà proprio da un punto di vista meramente gnoseologico. Il sospetto filosofico riguardo la deformazione del reale da parte dell’arte come rappresentazione del reale non è poi così astruso e campato in aria, poiché ciò che è lo è di per sé e qualunque interpretazione o mediazione, anche visiva, finisce col mostrare ma non può fino in fondo rendere nella sua essenza.
Tuttavia Platone stesso stabilisce una connessione non di secondaria importanza tra εἶδος (eidos, ossia la “forma” in quanto “aspetto“) ed εἴδωλον (eidolon, il cui significato è propriamente “figura“, “immagine“): l’apparenza non è fine a sé stessa ma, in qualche modo, con un certo apriorismo (che il filosofo chiamerebbe “innatismo“), è espressione dell’essenza, della materialità che si traduce così nel “vedere” compiutamente ciò che ci è innanzi e che è la riproduzione terrena dell'”idea” iperuranica. Non vi è, quindi, una netta distinzione tra forma dell’immagine e immagine medesima, cosicché il presupposto del concetto di una cosa non si separa dalla sua raffigurazione mentale.
Se chiudiamo gli occhi e poniamo una cesura tra noi e ciò che ci circonda, almeno in qualche modo molto formale ma pure reale, nel buio è possibile vedere anche se, apparentemente, non c’è nulla da vedere. Questo perché con gli occhi della mente si vede meglio nel momento in cui il resto della realtà ci è, per così dire, “invisibile“. Siamo costretti ad immaginare, a recuperare dai ricordi che abbiamo, frutto dell’esperienza sensibile (proprio di tutti i nostri cinque sensi), tanto l’eidos quanto l’eidolon: la forma e la figura. La prima dà alla seconda i contorni e la seconda ne è la disvelazione immateriale più prossima alla realtà che è rimasta nel profondo di noi stessi.
Diverso, ovviamente, è il rapporto che possiamo avere con le immagini frutto di quella che chiamiamo “fantasia” e che ha la sua origine etimologica nel termine greco ϕαντασία (si legge così come citata poc’anzi tra le virgolette alte) che, a sua volta, proviene dal verbo ϕαίνω (faino) che significa “mostrare“. Se dovessimo definirla in quanto tale, potremmo dire che per fantasia si intende una capacità magari non del tutto animalmente umana (visto che non sappiamo se gli animali non umani siano capaci di svilupparla ugualmente o similmente a noi) ma certamente associabile alla coscienza tanto dell’esistente in senso lato quanto di ogni sua particolare espressione.
Questo perché la fantasia è una disposizione mentale in cui ci poniamo oltre il sensibile e, magari traendovi spunto, quindi “immaginando” (ecco che ritorna l’eidolon ma alla radice della sua origine, quindi il verbo ἰδεῖν (idein, ossia “vedere“), riusciamo a sincretizzare ciò che è con ciò che non è. Proprio la grande vastità della letteratura mitologica greca ci offre degli esempi notevoli in tal senso. L’immaginazione come cura quasi psicologica ante litteram per tutta una serie di complicanze esistenziali che fanno parte del rapporto tra il nostro intimo essere e il resto che ci è al di fuori.
Le immagini create dalla fantasia non hanno la ipotetica presunzione, al pari di un dipinto o di una fotografia di essere collocate in una presupposta scala valoriale di rappresentazione più o meno aderente alla realtà fattuale, ma possono ispirare comunque una deformazione del reale che subisce così, senza per questo essere oggetto di artefazione malevola, una modificazione magari intuitiva, un differente punto di vista, una certa espressione soggettiva di chi non tiene per sé le immagini fantastiche ma decide, ad esempio, di tradurle su tela, in impressione fotografica, in scultura o, più modernamente parlando, nella trattazione cinematografica.
A questo proposito, non si può non citare un testo di Massimo Recalcati (“Il miracolo della forma. Per una estetica psicoanaltica“, Castelvecchi, 2024; precedentemente Bruno Mondadori) tutt’altro che di facile lettura, ma molto interessante e inerente quello di cui si sta scrivendo qui, riguardo proprio la “soggettivizzazione” dell’immagine nell’opera d’arte e la lettura che la psicoanalisi ha dato di questo fenomeno per lungo tempo. Riprendendo Lacan, si propone l’esame accurato, ad esempio, delle immagini poetiche, per l’appunto mentalmente visibili durante il corso della lettura, e si scorge in questo una sorta di sublimazione della forma d’arte, dell’interpretazione.
La forma dell’espressione poetica è il luogo in cui si esprime il non dicibile nel contesto del semplice, dell’osservazione quasi fine a sé stessa. La poesia, come l’immaginazione sfugge non alla realtà ma al suo divenire realtà di sé stessa e, quindi, per essere e rimanere tale ha bisogno di essere una protesi proprio del soggetto-poeta che, in questo modo, ci mostra parte della sua inafferrabilità, molto spesso espressione di un rapporto tutt’altro che lineare, logico e tremendamente razionale con l’esistente in cui si trova e in cui è, suo malgrado, costretto a rimanere. Quando, per fare un esempio, Recalcati parla di un artista piuttosto noto a tutte e a tutti, Vincent Van Gogh, nota che attraverso la creazione artistica del quadro l’autore può ancora in qualche modo gestire le «onde sismiche fortissime» di un’esistenza tortuosamente travagliata.
Che cos’è dunque la rappresentazione? Non un metodo unico di trasposizione di sé stessi al di fuori di sé medesimi, pure con fini molto differenti fra loro o diametralmente opposti. Nemmeno un tentativo di eternizzare nella realtà catturata dalla traduzione mentale, calligrafica del poeta o artistica del pittore, oppure fotografica o visiva, qualcosa che comunque, in sé e per sé, rimane unico soltanto nella realtà che gli coincide e gli corrisponde. Semmai è un tentativo simbolistico, un’astrazione dal contesto che si verifica nell’istante in cui si prende come a prestito la presunta verità dell’oggettivo per sottrarla alla corrosione del tempo e regalarle una veridicità un po’ più lunga.
L’angoscia dell’esistenza si traduce in un’arte delle immagini che è a volte autoconsolatoria ma che, come nel caso di Van Gogh, è anche una lettura critica e tutt’altro che mistificatrice del presente che sfugge, del passato che non ritorna e del futuro che rimane nell’impossibile impalpabilità dell’incoscienza umana, tutta disposta a concretarsi nelle dinamiche di un qui ed ora in cui si sta brevemente e in cui si cerca di soffrire il meno possibile. L’altra forma di rappresentazione delle immagini è quella del culto. Tanto anticamente quanto molto più vicina ai tempi nostri. Basterebbe molto banalmente fare riferimento a sogni neocesaristi di differenti leader politici divenuti da presidenti per più lustri.
Vladimir Putin da un lato, Donald Trump dall’altro. Paradossalmente, oggi, sono molto più iconiche e iconograficamente inflazionate le immagini di presidenti di repubbliche, più o meno democratiche, rispetto ai sovrani di paesi in cui, invece, il parlamentarismo e i princìpi liberali hanno un certo valore, una certa considerazione, sempre e comunque nel contesto del liberismo capitalistico e, quindi, delle anarchicheggianti regole del mercato. Trump, in soli cento giorni di nuova, ritrovata presidenza, ha fatto di sé stesso un emblema vivente di culto quasi religioso: prima delle riunioni governative si invoca la benedizione divina su di lui e, nella vita di tutti i giorni, la carta per ottenere la cittadinanza non porta l’effige stilizzata di qualche monumento, ma proprio il suo viso e la sua fisicità quasi tuta intera.
In una molto accurata biografia di Augusto (edita da Salerno editrice nel 2015), Arnaldo Marcone distingue tra culto ed iconografia imperiale. Il giovane Ottaviano, infatti, riconosce quasi subito all’immagine pubblica di sé stesso un valore che prescinde dal carattere laico delle istituzioni che, peraltro, nella Roma repubblicana non necessitavano di una distinzione netta come la intendiamo oggi: non esiste, infatti, una “chiesa” romana in quel tempo ma si parla già allora di “provvidenza divina” nell’aver concesso all’Urbe e all’impero un uomo come Augusto.
Il culto dell’imperatore diventa così non un sostitutivo del politeismo in vigore, ma una implementazione dello stesso e si attribuisce alla vita dei Cesari un che di messianico, di predestinato ad essere tale proprio perché non nella disponibilità del volontarismo, dell’azione tanto del singolo quanto delle masse o delle istituzioni che le governano. Qui l’immagine è quindi ritualità, espressione di un assolutismo che deve divenire il nuovo regime monarchico apparendo sempre in forma di repubblicanesimo. Poiché a Roma nessuno poteva essere re. Tuttavia Augusto non incentiva il culto di sé stesso, perché teme un distacco proprio dalla tradizione assembleare del potere.
Ma non ostacola il Senato nell’attribuirgli tutta una serie di onorificenze che fanno grande scalpore e creano sensazionalismo in tutti i territori amministrati da Roma. Dai resoconti storici si ottiene un vero e proprio riscontro del mutamento radicale dell’immagine tanto del potere dello Stato quanto dell’uomo che lo detiene e del Senato che lo amministra per parte propria e, comunque, sempre e soltanto sotto l’egida del figlio adottivo di Giulio Cesare. L’apparenza finisce col lasciare il passo ad una sostanza dell’immagine che, effettivamente, corrisponde al nuovo status politico.
Qui la rappresentazione non è la riproduzione formale di una realtà, ma il tentativo di significarla nella sua essenza: forma e figura si fondono e diventano indistinguibili. La venerazione impedisce di scorgere in Augusto le fattezze umane. Lo si trasforma in un dio e, nel solco dell’antropomorfismo religioso ellenico, l’imperatore non stona per niente. I suoi successori si faranno erigere statue trionfanti come dei Giove tonanti o, più modestamente (se così si può dire), come eroi mitologici erculei e titanici. La storia dell’immagine è, quindi, mutevole tanto quanto lo sono i soggetti che rappresenta soprattutto artisticamente.
Viviamo in un mondo moderno fatto in larga parte di immagini e di immaginazione: forse percentualmente persino eccedenti il rapporto che dovremmo avere con la realtà. L’introduzione dell’Intelligenza artificiale fa fare un salto di (?) qualità nel merito. Ma questo è capitolo ancora tutto da scoprire e quindi, per lo meno, toccherà ad altri storicizzarlo e darne un qualche giudizio.
MARCO SFERINI
11 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria