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Marco Sferini

Quegli scheletri viventi e morenti negli stermini pianificati…

La colonna vertebrale fuoriesce da quel poco di tessuti che sono rimasti sulla schiena di un bambino palestinese di Gaza. È l’immagine davvero rappresentativa di una tragedia a cui inizia a non bastare più nemmeno il termine “genocidio” per poter essere inquadrata attualisticamente in una prospettiva comunque storica. Sarà forse proprio la Storia con la esse maiuscola a parlarne in termini più appropriati, perché stando alla propaganda israeliana, quel bambino non esiste, visto che la carestia di massa denunciata dalle agenzie dell’ONU e dalle ONG presenti nell’inferno della Striscia sarebbe solamente una furbata di Hamas per denigrare il democratico Stato ebraico.

Secondo quanto si riesce a sapere, i bambini morti per fame sarebbero oltre cento. Gli aiuti umanitari, se arrivano, sono distribuiti con il rischio oggettivo che l’IDF spari sulla folla e faccia, ogni maledetto giorno, decine e decine di morti. Da prima di subito questa guerra è diventata quello che il governo criminale di Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir volevano che divenisse: una risposta alla questione palestinese in tutto e per tutto. Quindi un progetto di annientamento della presenza dei gazawi nella Striscia e un pretesto utile per allargare i confini dell’imperialismo sotto la stella di Davide.

Dopo il 7 ottobre 2023, non è esistito più alcun neppure minimo rapporto tra il diritto internazionale, il rispetto delle risoluzioni dell’ONU (peraltro quasi sempre disattese da Tel Aviv) e quello che si è definito come “gabinetto di guerra“. Torna e ritorna la domanda che poco viene fatta nei dibattiti televisivi, proprio perché altamente imbarazzante visto che rimane senza una risposta che giustifichi tutta questa carneficina: uno Stato armato fino ai denti come Israele, capace di mandare i droni a colpire nelle singole stanze delle abitazioni i comandanti iraniani, non è stato in grado in oltre settecento giorni di farla finita con i terroristi di Hamas? La Striscia di Gaza è un fazzolettino di terra, è impossibile che Hamas riesca a sfuggire a Tsahal.

Eppure, Netanyahu ed Erzog continuano ad affermare che le trattative con l’organizzazione jihadista sono aperte. Quindi Hamas sarebbe tutt’ora viva e vegeta: anche dopo l’eliminazione fisica dei suoi diretti capi politici e militari. Questa rigenerazione avrebbe dovuto essere impedita e per farlo non sarebbe occorso sganciare su Gaza tonnellate e tonnellate di bombe radendo praticamente al suolo ogni paesaggio urbano senza alcuna distinzione. Si calcola che siano state utilizzate dalla Heyl Ha’Avir (l’aviazione militare di Israele) circa 25.000 tonnellate di munizioni e che la loro discesa omicidiaria al suolo abbia causato qualcosa come 40.000 dei 56.000 morti ad oggi conteggiati.

Di questi, 13.000 sono bambini. Le vendette aeree forse fanno anche accelerare il corso delle guerre (si pensi ad Hiroshima e Nagasaki), ma sono un’onta per chi le compie, soprattutto se si ritiene che sia dalla parte giusta della storia, contro dittature, tirannie, oppressioni. Qui è uno Stato criminale che colpisce, oltre ad altri criminali, un intero popolo destinato, se non si interverrà risolutamente sul piano internazionale con durissime sanzioni e un isolamento nei confronti di Israele, all’esilio forzato dopo un’epurazione genocidiaria, una pulizia etnica degna dei peggiori totalitarismo che hanno attraversato i secoli. Guardando la schiena scheletrica di quel bambino di Gaza, a cosa si può far somigliare Israele oggi? Ad una democrazia che esporta democrazia così come gli americani…

Ma non certo ad una democrazia che si difende dal terrorismo con attacchi mirati proprio contro i terroristi. Il governo di Netanyahu non è un esecutivo di emergenza nazionale ma un vero e proprio governo di guerra che è divenuto lo strumento dello Stato israeliano per salvare dai guai giudiziari il suo primo ministro, per realizzare i sogni di onnipotenza del sionismo iper-religioso e fanatico delle estreme destre suprematiste di Smotrich e Ben-Gvir e, quindi, per sacrificare a tutto questo la presenza palestinese tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. La storia dell’Olocausto novecentesco, l’assassinio spietato di oltre sei milioni di ebrei, non può essere cinicamente trasformata in un alibi storico per potersi consentire tutto.

Proprio nel momento in cui Netanyahu e la sua cricca criminale si avventano contro i palestinesi, li sterminano con le bombe e ora anche con l’arma peggiore, la fame, compiono quelle stesse atrocità compiute dai nazisti nei loro confronti tra il 1933 e il 1945. Comodo argomento quello di denunciare come antisemiti tutti coloro che esprimono critiche nei confronti di questa politica genocidiaria e di pulizia etnica moderna. Peccato che funzioni ormai ben poco: anche i commentatori più risolutamente schierati con lo Stato ebraico, oggi riconoscono l’enormità della tragedia di Gaza, perché le immagini e le cronache – grazie anche agli oltre duecento giornalisti uccisi sempre dalle armate israeliane – parlano chiaramente.

I bambini di Gaza, dice Francesca Albanese (relatrice speciale delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato), mangiano terra, sassi… Non c’è più cibo, non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono medicine. I malati di cancro non hanno nessuna speranza di potersi curare. Provano a trovare qualche pertugio di normalità 1.500 studenti che fanno l’esame di maturità nei locali di un bar… Ma per il resto il buio della morte avvolge Gaza, mentre i ministri israeliani postano video sui social, fatti con l’intelligenza artificiale, in cui si magnifica una ricostruzione in stile occidentale: grattacieli trumpiani, fast food pieni di hamburger e patatine, turisti sulle spiagge che bevono cocktails multicolori… Non è solo propaganda becera, è uno sfregio, una cattiveria molesta nei confronti di un popolo che muore.

Non c’è differenza alcuna tra il barbaro cinismo novecentesco delle più crudeli dittature sanguinarie e l’atteggiamento spavaldo e criminale del governo di Israele. Sebbene, con tutta l’ipocrisia possibile, i governi occidentali si siano prodigati (forse il verbo è un po’ forte…) per una soluzione che legasse agli sviluppi della guerra un piano di uscita diplomatica, le smentite al riguardo sono sempre arrivate a stretto giro di posta da Netanyahu che è legato ad un patto proprio con le destre più inveteratamente nazionaliste sognanti il “Grande Israele” caldeggiato fin dal 1947 da formazioni terroriste come l’Irgun e l’Hagānāh. Smotrich e Ben-Gvir ne sono i diarchi. Del perché l’opinione pubblica israeliana non si sia ancora rivoltata in massa contro la pulizia etnica di Gaza, si può trovarne qualche spunto di risposta proprio nello shock del 7 ottobre.

Il processo di pacificazione è franato, dagli anni Novanta del Novecento in poi, per molteplici colpe: anzitutto israeliane, ma anche qualche responsabilità la hanno le dirigenze palestinesi. Tuttavia nulla ha mai giustificato il regime di apartheid imposto tanto in Cisgiordania quanto nella Striscia di Gaza, divenuta quella che un po’ universalmente era definita una “prigione a cielo aperto“. Nel 2024, sull’onda di un consenso di massa per l’azione di guerra contro Hamas, la Knesset ha approvato una risoluzione in cui si afferma che lo Stato palestinese non esiste e non esisterà mai. Il punto qui è semmai, per capire come si muova la società israeliana oggi in rapporto alla guerra, quale sia il punto di caduta della coesione sociale e politica del paese.

Il ruolo dell’IDF è preponderante, unitamente a quello di un governo che si affida alle forze armate come mezzo risolutivo di qualunque conflitto e che apre fronti in tutto il Medio Oriente per risolvere una volta per tutte le mezze guerre lasciate aperte, guerreggiate o meno, con Hezbollah, Iran, Houthi e, nemmeno a dirlo, con i palestinesi. Non siamo innanzi al “Grande Israele” nei fatti, ma il progetto di ridefinizione dei contorni dell’area mediorientale a guida dello Stato ebraico è oggi sufficientemente ben chiaro e netto. La partita siriana, apparentemente semplificatasi dopo la caduta di Bashar al-Assad, è oggi giocata a nord dalla Turchia e a sud da Tel Aviv ma non è sottovalutabile per niente l’influenza americana in tutta questa storia ginepraica. Antiche inimicizie possono trasformarsi in tiepidi abboccamenti.

I destini dei popoli vengono così barattati in nome di un neocolonialismo imperiale che è sognato da quelli che sono stati, con grande obiettività, definiti come gli unici tra Stati del Medio Oriente: tali per conformazione storica, per militarizzazione delle loro società, per strutturazione economica comunque non esclusivamente nazionale e per un sentimento nazionale che, ad esempio, gli Stati arabi non hanno. Anzi: tutte e tre, Israele, Turchia ed Iran, sono se non acerrimi nemici, comunque fieri avversari delle presenze statuali nella penisola arabica. Ma, nel mentre i giochi della geopolitica sono tutti aperti, rimane il grande dramma del popolo palestinese che non vede una via d’uscita dal conflitto.

Quand’è che una guerra termina? Quando il nemico è sconfitto. E quando il nemico è sconfitto? Quando le sue forze o sono notevolmente ridimensionate, tanto da rendere inutile la lotta, o letteralmente annientate. Osserviamo i numeri, ancora una volta: gli effettivi in campo sono stati e sono circa 40.000 combattenti di Hamas contro oltre mezzo milione di truppe israeliane. Al 29 giugno 2025 queste le perdite: 56.153 morti da parte palestinese e 1.600 morti da parte israeliana. I morti civili palestinesi sono la stragrande maggioranza del numero appena scritto. I morti civili israeliani sono mille. Ribadiamo ennesimamente che non è da un raffronto di questo tipo che si evince la ragione o il torto in una guerra.

Non sempre chi vince è nel giusto. Ed Israele è rimasto nel giusto solo poche ore, dopo il 7 ottobre. Poi è nuovamente passato dalla parte del torto, proprio come Hamas. I feriti sono più di 150.000 da parte palestinese e circa 6.500 da parte israeliana. I profughi-sfollati sono 1.900.000 da Gaza e circa 200.000 da Israele. La catastrofe umanitaria in corso è resa molto bene da queste cifre che hanno qualcosa di apocalittico se riportate entro i confini ristretti tanto di Israele quanto di Gaza e Cisgiordania. Non sappiamo se la fame sarà l’ultima arma usata da Netanyahu per spingere i palestinesi a dirigersi altrove. Le deportazioni cominceranno nel momento in cui si smetterà di sparare, di bombardare, di uccidere su vasta scala.

Ha ammonito Moni Ovadia: sarà quello l’attimo più tremendo, atroce, quello su cui soffermarsi e non indugiare nel condannare l’esilio forzato di un popolo. La solidarietà internazionalista non può mancare. Né oggi, né domani, né mai. Non possiamo dire non sapere. Non possiamo dire di non aver visto e di non aver letto quello che sta accadendo. Non ci dobbiamo schierare per non avere sensi di colpa domani, ma per avere oggi giustizia, terra e libertà per tutti i palestinesi: hanno il sacrosanto diritto di vivere lì, in Palestina e non di morire nell’inedia lontano, nuovamente stranieri tra altri, trattati come i reietti peggiori di questa terra…

MARCO SFERINI

24 luglio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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