Fitta nebbia, omissioni e non detti circondano le trattative per la pace tra Russia e Ucraina, tanto quelle tra i protagonisti principali quanto quelle con gli aspiranti attori in cerca di un proprio ruolo. Di qui la maniacale attenzione a indizi e dettagli prevalentemente insignificanti.
In tanta incertezza intorno al percorso e ai possibili esiti converrà dunque attenersi alle poche certezze disponibili.
La prima è che l’Ucraina versa in una condizione di evidente dipendenza. Senza il sostegno massiccio e permanente dei paesi occidentali, Stati uniti compresi, non potrebbe reggere a lungo l’urto degli invasori. La Russia si trova al contrario in una condizione di indipendenza, almeno per quanto questa resti possibile all’interno delle interconnessioni globali. Non deve insomma rendere conto a nessuno dei suoi alleati e fornitori delle proprie mosse e dei propri obiettivi. Su questa evidente asimmetria poggia l’intero castello negoziale.
Inoltre i poteri da cui Zelensky dipende non rappresentano il massimo dell’affidabilità. Donald Trump è notoriamente volubile tranne che su un punto: il suo tornaconto come presidente degli Stati uniti e come affarista. Tra le condizioni che Kiev deve rispettare c’è in primo luogo questa, a partire dalla cessione delle risorse minerarie.
L’Europa, almeno a parole, si presenta meno esosa, ma il fatto che venga costantemente citata come un soggetto politico unitario travisa palesemente la realtà. Alla Casa bianca a confrontarsi con Trump e Zelensky non c’era l’Europa e neppure la Ue, malgrado Ursula von der Leyen si illuda spesso di essere un capo di stato come gli altri, ma solo alcuni leader europei (Merz, Macron, Meloni, Stubb) più il fuoriuscito britannico Starmer. I cosiddetti “volenterosi” non sono l’Europa e anche tra loro, pur giurando tutti sull’appoggio incondizionato all’Ucraina, le differenze, quanto a forme e misure di questo sostegno, non sono affatto irrilevanti.
L’Europa ha da tempo voltato le spalle all’idea di trasformarsi in un soggetto politico federale con una Costituzione, una base politica comune e una voce unica, almeno sulle grandi questioni globali. Semmai, negli ultimi anni hanno riguadagnato terreno prerogative e preferenze nazionali, quell’orrore chiamato «Europa delle nazioni». Dunque dissensi, divergenze e frequenti devianze dai principi democratici e dal rispetto dei diritti umani. Nella Ue abbiamo paesi decisamente filorussi come Ungheria e Slovacchia e altri, come i Baltici che auspicano una specie di stato di guerra permanente nei confronti della Russia.
Secondo alcuni ciò che non era riuscito attraverso una costruzione politica condivisa e razionale avrebbe potuto realizzarsi attraverso una emergenza. La pandemia si offriva come una simile occasione. Ma l’emergenza sanitaria ebbe come soli effetti l’acquisto comune dei vaccini con modalità opache e l’allentamento temporaneo delle rigide regole finanziarie sui fondi europei, che in quel contesto avrebbero strangolato l’economia del Vecchio continente. Ci voleva un altro cavaliere dell’Apocalisse per smuovere la Ue e sarebbe presto arrivato con l’invasione russa dell’Ucraina. Ma come per l’economia così anche sulla guerra il cielo europeo si è subito diviso tra falchi e colombe.
La minaccia comune, debitamente enfatizzata, chiamava al riarmo. Il quale, però, più che una forza comune di difesa, quella di un esercito europeo per esempio, avrebbe ben presto preso la via di una somma di riarmi nazionali, tra i quali la Germania si è subito proposta di primeggiare. Infrangendo così un tabu e il senso comune in vigore dal 1945 e derogando da quel rigore finanziario che nessuna crisi di altra natura era mai riuscita a scalfire. Mentre Francia e Gran Bretagna gonfiano il petto, offrendo la modesta protezione degli arsenali nucleari nazionali di loro esclusiva competenza.
Il riarmo non rappresenta dunque in alcun modo un fattore di coesione tra i paesi europei ma di competizione e, nell’incertezza degli sviluppi storici, un possibile pericolo per la pace. Per giunta la trasformazione dei paesi europei in significative potenze militari richiederà sacrifici pesanti e tempi lunghi, mentre la partita in Ucraina si sta giocando ora e qui.
Questa sarebbe l’Europa che vuole partecipare alla pari ai negoziati sul futuro dell’Ucraina, fronteggiando soggetti politici statali che dispongono di tutte le prerogative della sovranità e di una potenza militare storicamente sviluppata. E qui, nella differenza sostanziale tra l’Unione europea e gli altri protagonisti dei negoziati risiede la seconda asimmetria che grava sulla crisi ucraina.
La quale, a sua volta, genera un’ulteriore dipendenza: quella dell’Europa, o meglio quella dei singoli paesi che la compongono, dagli Stati uniti. Una dipendenza che si traduce nello scaricare sugli europei i costi presenti e futuri della sicurezza dell’Ucraina, perché in fondo in prima linea ci sono loro. L’America appoggia e sorveglia da lontano se le cose dovessero mettersi troppo male. Per i suoi interessi.
MARCO BASCETTA
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