Un pizzico di vera indignazione è sempre utile a mantenere viva quella criticità che rischia, a volte, di assumere un piglio disincantato di disillusione tale da trasformarsi in un dogmatico uguale e contrario a quanto intende contrapporsi e quindi scadere nell’apriorismo, nella presupponenza che pretende di avere sempre ragione, partendo dal fatto che le proprie convinzioni sono a prescindere giuste.
Non ci si deve indignare tanto per indignarsi, ma farlo anche sapendo che è scontato in certi casi e, date queste premesse, non illudersi ma non dare nemmeno per assodato che, siccome Giorgia Meloni e le destre estreme sono al governo, è naturale che determinate (contro)riforme e misure vengano prese e abbiano una forza di legge che pretenderebbe di scavalcare qualunque altra fonte del diritto.
Così, nel momento in cui la Corte Costituzionale sentenzia sul fatto che due donne che hanno deciso di formare una famiglia e di avere un figlio con la procreazione medicalmente assistita (PMA) possono essere entrambe riconosciute come genitrici e madri, si può anche affermare che era evidente ma si deve comunque tenere bene a mente che, sic stantibus rebus, la legge Varchi potrebbe oggi essere ancora indefessamente granitica nel suo strampalato impianto.
Invece non è così e, pur essendo spesso certi delle nostre certezze, dovrebbero mandare a mente che la complessità costituzionale, per quanto possa essere sotto un costante attacco proprio da parte della maggioranza parlamentare e degli esponenti di governo con leggi, decreti che intendono limitare i diritti universali, dell’uomo, del cittadino, sociali, civili, morali e culturali, qualche volta riesce a farsi largo in questo istinto autoritario e a ripristinare l’indipendenza dei poteri dello Stato.
Nessuna disillusione a tutto tondo, ma una sorpresa piacevole che non fa scemare quell’indignazione di cui si scriveva all’inizio e che deve comunque restare vigile, pacifica, democratica sentinella di uno spirito critico singolo e collettivo per cui niente è dato per scontato, tutto è dato per modificabile nonostante la maggioranza faccia qualunque cosa per apparire solida, granitica e imperturbabile. Non è così.
Se c’è qualcosa di veramente instabile in questo disgraziato nostro Paese, ebbene questo è proprio il governo Meloni che sguazza nelle contraddizioni più eclatanti tra dire e fare, tra promesse elettorali e contingenze oggettive. La Legge Varchi e la Legge 40 del 2004 sono quindi in contrasto con una doppia sentenzialità della Corte Costituzionale che mette avanti a tutto il benessere del bambino: due madri possono essere entrambe riconosciute come tali, prescindendo dal vincolo biologico.
La Corte pone l’accento sulla “responsabilità” dei genitori e sull’impegno che assumono nel momento in cui decidono di dare seguito alla formazione di un nucleo familiare proprio con la presenza di un figlio. Il fantomatico “reato universale” di cui va cianciando la destra ipercattolica e pro vita da immemore tempo è una invenzione di sana pianta al pari del premierato di governo. In quanto a creazionismo strampalato, le destre non sono seconde a nessuno: da un lato un diritto nazionale che pretende di imporsi su quello degli altri Stati e su norme più generali del diritto internazionale.
Dall’altro la figura, unica al mondo, di un premier creato ad arte per tentare di arginare le future instabilità di coalizione e i rapporti tutti interni ad una maggioranza che qualche scricchiolio inizia a sentirlo e che, solo in mancanza di una vera alternativa di governo, riesce ancora ad avere un consenso sondaggistico tale da potersi dire stabile dopo quasi tre anni di disgraziata amministrazione e produzione pseudo-politica di normative tutte tese a restringere e comprimere i diritti sociali e a trattare quelli civili come delle stranezze e non delle opportunità.
Frustrante è il fatto che questa politica non sia per niente in grado, anche sul piano meramente tecnico, di gestire passaggi in cui davvero è necessaria una commistione tra idee e prassi, pensieri e azione, ideologie e concretezze quotidiane. Indigna ma non stupisce il fatto che il governo, ad esempio, tagli quasi due miliardi di euro di fondi per il miglioramento delle strade provinciali e, al contempo, aumenti la spesa militare per compiacere la NATO nella sua opera imperialista di espansionismo ad est.
Molto di ciò che questo governo propone, nell’istante in cui deve passare l’esame di diritto costituzionale, viene sonoramente bocciato. La ragione è abbastanza semplice: è l’esecutivo stesso, formato da forze politiche apertamente lontane dai princìpi e dai valori egualitari, antifascisti e laici della Repubblica, ad essere una contraddizione evidente ed imbarazzante nel confronto con l’impianto della Carta del 1948.
Uno governo di per sé, sebbene nominato seguendo i dettami previsti, dopo un voto democratico (per quanto molto vi sarebbe da dire sempre sul tema dell’eterogenesi dei fini delle leggi elettorali…) e dopo aver soprattutto giurato fedeltà alla Repubblica, dovrebbe seguirne tutti i crismi, tutte le pietre angolari che si ritrovano nel perimetro della tutela dei diritti tutti, di una ispirazione egualitaria che mette avanti a tutto il primato del pubblico e non del privato. Ma sappiamo che non è così.
La prossimità tra i più disparati valori e la politica istituzionale non è di per sé un male, anzi. Ma lo diviene nell’attimo in cui i programmi delle forze politiche non si riconoscono nel perimetro costituzionale e lo trascendono perché, provenienti da una storia altra rispetto a quella della formazione della Repubblica medesima e della democrazia. Il problema, quindi, non è l’organismo governo in quanto tale, ma lo sono quei partiti che lo utilizzano per controvertere il significato dell’istituzione, la sua natura nell’ambito dell’equipollenza dei poteri.
Non occorre andare molto indietro con la memoria e lo studio per rendersi conto che, in particolare in questa fase di crisi multistrato e multipolare, il ruolo dei parlamenti è stato ridotto, soppiantato dal decisionismo degli esecutivi nel nome dell’emergenza di una economia di guerra che rientra in un più vasto contesto di instabilità sociale dettato proprio dagli squilibri globali: la questione delle migrazioni è stata tanto strumentalizzata da divenire un boomerang proprio per le destre che la enfatizzavano oltre ogni immaginabile misura.
Si è candidamente tentato di far passare, nell’immaginario collettivo, che i barconi provenienti dall’Africa fossero quasi delle flotte di migranti pronti a mettere in pratica la “sostituzione etnica” e, quindi, si è paventato che gli italiani stessero per essere soppiantati dagli africani e che la “stirpe italica“; così come si è provato, nel corso di lunghi decenni, ad invertire la rotta della sempre maggiore espansione culturale in merito ai diritti LGBTQIA+, deridendo gli acronimi, facendo passare il tutto come il frutto della “teoria gender“, dell’altro timore: quello della fine della “famiglia tradizionale”.
Ricorda molto ciò che si diceva, a proposito dell’omosessualità, sul finire del secolo scorso, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta: ossia il ritornello di patetica, a volte voluta, ignoranza per cui se tutti fossimo gay o lesbiche non nascerebbero più bambini e finirebbe l’umanità. A smentire queste ridicolaggini è stato quel galantuomo del Tempo che ha dimostrato come ad una famiglia formata da uomo e donna possa affiancarsi nella vita di tutti i giorni qualunque altra famiglia e che la società cambia strutturalmente non soltanto sotto il peso dell’economia dominante ma influenzata anche dai desideri e dalle passioni.
Per le destre conservatrici, post o neofasciste e iperliberiste le paure, le fobie e i pregiudizi sono essenziali nella misurazione del tasso di mutamento progressista che, di per sé, non significa traduzione in termini politici di voti per la sinistra. Significa soltanto che ci si rende conto, un po’ comunemente, che si può amare senza tradizionalismi asfittici, rispettando qualunque scelta: etero, gay, lesbica, bisex, pansex, transex e via dicendo.
Del resto, si sa, la millenarizzazione dei preconcetti è data dal mantenimento di tutta una serie di convenzioni che preservano uno status quo su cui si fondano soprattutto i presupposti del potere politico e statale che fa il paio, nel caso della Chiesa cattolica, con il potere teocratico che, a sua volta, discende (e ascende…) dall’influenza che ancora può esercitare il timor di Dio da un lato (declinato in rispetto per ottenere una ragione di vita, un senso esistenziale, una serafica calma alle inquietudini interiori) e la riverenza verso l’autorità pontificia dall’altro.
La lotta delle frange estremiste del cattolicesimo contro il “relativismo“, stigmatizzato a suo tempo da Joseph Ratzinger come moderna espressione della molteplicità libera dei concetti, delle associazioni e di uno sviluppo sempre più vasto di decisionismo dal basso, è la stessa di una politica conservatrice che teme la fine dell’identitarismo come elemento cardine di una riconoscibilità quasi etica dell’essere individuale e civile, dell’umano in quanto soggetto con certe, sole caratteristiche assegnategli dalla natura (e quindi da Dio), e del cittadino che le deve tradurre in pratica senza “devianze“.
L’ordine è ciò che conta. Tutto quello che non rientra nei cardini stabiliti da questa sorta di Stato etico (e religiosamente tradizionalistissimo), è dis-ordine e quindi è da perseguire, da limitare quando non si riesce a reprimerlo e da far sembrare sempre e comunque un peccato se si tratta di questioni di fede, un illecito se ci riferisce al diritto naturale, un crimine se invece entra in campo quello penale. Una politica di governo che ragiona in questi termini (e quella del governo Meloni ragiona proprio così), è ben poca cosa e può solo incontrare nella Costituzione una fiera avversaria.
Il governo italiano oltrepassa la Carta fondamentale dello Stato, l’essenza della Repubblica, ogni volta che fa disparità sulla base di un diritto che non tratta come uguali tutti i cittadini, che sono lavoratori, che sono studenti, pensionati… Che sono uomini, donne, ragazze e ragazzi, ma soprattutto sono persone con un loro carattere, una serie di singolari necessità di vario tipo: biologiche, materiali, civili, morali e culturali. Nessuna di queste particolarità ha una prevalenza sulle altre e, se non contrasta con la libertà altrui, ha tutto il diritto di esprimersi in quanto tale.
Per questo tocca alla Corte Costituzionale rimediare ai danni di questo esecutivo che tratta i giudici come un contropotere, un avversario del governo e non li rispetta per quello che sono e continuano ad essere: la coscienza civile della Repubblica che guarda alla sua Carta prima di tutto perché deve, ma perché sa che lì vi è la fonte di un diritto che non disconosce la democrazia ma la rafforza pur con tutti i deficit e le lacune del caso.
Migliore sarà il tempo in cui torneremo ad applaudire anche le azioni di un governo che, rendendosi conto di essere andato apertamente in contrasto con il dettame costituzionale, ledendo così i diritti delle persone, saprà fare autocritica e ridisegnare la legge che non è sua, ma la cui elaborazione spetta in ultima analisi al Parlamento della Repubblica.
MARCO SFERINI
23 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria