L’affaire Evgenij Viktorovič Prigožin è chiuso. Sia che si tratti di un incidente aereo, a cui del resto nessuno è disposto a credere; sia che si tratti di un fuoco amico diventato nemico dopo il tentativo di colpo di Stato di due mesi fa; sia che si tratti di fuoco nemico per davvero, quello ucraino.
Ipotesi anche quest’ultima molto improbabile, visto che dalla sopravvivenza del leader della Wagner il governo di Kiev poteva sperare di trarre qualche elemento di destabilizzazione nei confronti di Mosca.
Sia quel che sia, l’affaire è chiuso. La commissione di inchiesta che è stata istituita arriverà alla conclusione che tutti già conosciamo: l’aereo, che da Mosca si dirigeva a Pietroburgo, è precipitato dopo solo quindici minuti di volo, con il trasponder acceso, con un precipitare verticale che non lascia molto adito a dubbi. E’ stato colpito da terra. Adesso si potrà anche dare adito a tutta una rappresentazione della crudeltà putiniana come moderna nemesi dei rapporti tra criminali dello stesso stampo.
Ha cominciato per primo Joe Biden, che ha liquidato il tutto come un regolamento dei conti interno alla Russia, dopo aver fatto dire ai suoi nei giorni scorsi che Washington proprio non c’entrava niente con i cinque droni che hanno sorvolato Mosca e hanno provato ad attaccarne i palazzi più importanti.
Lo spettro dell’escalation della guerra è sempre dietro l’angolo, nonostante il ristagno della stessa, da mesi e mesi, su un fronte meridionale in cui vengono ora ammassate centinaia di migliaia di truppe in vista della campagna autunnale.
La controffensiva ucraina è fallita miseramente: lo dice il Pentagono, lo ammette la NATO, lo fanno trasparire persino dalle parti del governo di Kiev. Nonostante tutti gli armamenti dati a Zelens’kyj, lo sfondamento verso Melitopol e l’apertura di un canale di penetrazione nella Crimea non hanno trovato la loro strada necessaria. L’affaire Prigožin aveva lasciato intendere che nel regime putiniano si mostrassero le prime crepe di un potere che si andava logorando di pari passo con la guerra.
Ed invece non è stato così. Si vocifera – perché siamo su questo piano decisamente inclinato di voci, sussurri, sentito dire… – che a spingere Putin ad un regolamento dei conti con Prigožin siano stati gli uomini a lui più vicini ed a capo dei servizi di sicurezza. Ma potrebbe anche essere stata una decisione partita dallo stesso presidente russo. Oppure no.
Ci troviamo nell’iperuranio delle ipotesi, senza alternativa alcuna che possa indirizzarci su qualche certezza. Gli elementi per poter avere una chiara analisi di quello che è accaduto in questi mesi in Russia li avremo, con ogni probabilità, quando si potrà studiare la guerra perché sarà finita e quindi il distacco dalle ipotesi sarà determinato dall’emersione di fatti che non nuoceranno più né all’una né all’altra parte.
Sul jet privato su cui viaggiava il fondatore della Wagner si trovavano anche il capo militare della stessa compagnia, Dmitrij Utkin e altri comandanti. Se non siamo in presenza di una epurazione, di uno smembramento e di una smobilitazione non dichiarata della milizia privata al servizio del putinismo per decenni, poco ci manca davvero. La testa è stata recisa e il corpo rimane in balia di sé stesso.
L’intrappolamento dei militari che avevano seguito il loro capo nella rivolta, del resto, era già stato messo in pratica con il loro collocamento in Bielorussa, sotto l’ala protettrice del “mediatore” Lukašėnka.
La destinazione di altri reparti alle faccende africane, sempre molto complesse e rese tali anche dalla presenza della Wagner in teatri di spietatissima guerra fratricida (dalla Libia alla Repubblica centrafricana, per fare alcuni esempi), pareva aver riportato la compagnia alla sua originaria missione: quella del disbrigo delle faccende più sporche, per interposto comando.
Ma i conti con i rivoltosi del 23 luglio non erano ancora chiusi. Il sollevamento dal comando del generale Sergej Surovikin, avvenuto appena due giorni fa, accusato di essere in combutta con Prigožin ed Utkin, è stato un altro tassello del piano di contenimento del dissenso in seno alle forze armate che non è una particolarità degli alti comandi russi.
Anche sul fronte ucraino i problemi ai vertici dell’esercito non mancano: si parla più che altro di arresti per corruzione e, negli uffici di reclutamento di uguali grane che riguarderebbero file di renitenti pronti ad espatriare piuttosto che andare patriotticamente a combattere. E mentre la guerra ristagna e si avvolge su sé stessa in un corto circuito da cui non si esce, gli Stati Uniti e la NATO lanciano indirettamente messaggi di un passaggio ad una fase diplomatica del conflitto.
L’Europa, invece, ogni volta che gli ucraini incontrano delle difficoltà più che palesi nella disastrosa controffensiva di una primavera-estate in cui sono stati conquistati solo pochi chilometri quadrati attorno alla martoriata Bakmut, si muove in direzione del riarmo senza alcuno scrupolo.
La tanto ventilata fornitura dei caccia F16, sbandierata da Zelens’kyj con numeri che si avvicinavano al centinaio di unità (che sarebbero dovute arrivare da Olanda e Danimarca nel giro di poco tempo), si ridurrà a sei aerei con altrettanti piloti ucraini addestrati nei prossimi otto mesi.
La guerra, quindi, continuerà a lungo e, se da un lato Putin mostra la sua intransigenza nella decimazione del vertice della Wagner, restando saldamente a capo tanto del governo quanto della guerra contro l’Ucraina (e la NATO), dall’altro è il fronte dei paesi occidentali e dell’Alleanza a dare i primi segnali di cedimento. Non si può non interpretare diversamente la stanchezza politica e la consunzione economica che il conflitto ha provocato dentro e fuori gli Stati Uniti.
Le presidenziali americane si avvicinano sempre di più e l’opinione comune è che questa sia una guerra lontana, di cui ci si può anche disinteressare e che sta nuocendo all’amministrazione Biden; mentre Trump, nonostante tutti i suoi guai giudiziari, resta saldamente in testa nei sondaggi per le primarie repubblicane con oltre il 60% dei consensi.
La rivolta della Wagner, a questo punto è lecito chiederselo, ha indebolito o piuttosto rafforzato il regime di Putin? Di certo, se avesse avuto anche un risvolto positivo nel suo intento, cioè quello di rovesciare il presidente o di indurlo a cambiare la linea tattico-strategica della guerra licenziando comandanti come Gerasimov o lo stesso ministro della difesa Šojgu, non si sarebbe spinta nella direzione di una risoluzione pacifica del conflitto.
Adesso quali sono quindi le ipotesi in campo, dopo la fine dei capi della Wagner? Una certamente è che Mosca provi a prendere il controllo totale della compagnia mercenaria, riconducendola entro l’istituzionalità dell’esercito russo e, pertanto, sotto il diretto comando del Ministero della Difesa.
Un’altra è che venga definitivamente sciolta e i suoi membri congedati con più o meno disonore. Terza ipotesi è che ne venga fatta una sorta di “legione straniera” permanente che vada ad occuparsi – come del resto ha sempre fatto – delle guerre che scoppiano negli altri continenti facendo gli interessi del Cremlino.
Qualunque sia la sorte possibile della Wagner, non è affatto detto che sia stata messa la parola fine alla storia di questo enorme, potente gruppo mercenario che, oltre ogni ragionevole dubbio, con la morte di Prigožin subisce un durissimo colpo proprio nel mezzo di una guerra che interessa direttamente la Russia ed in pieno svolgimento.
Molto difficile, tuttavia, poter preconizzare quali saranno le conseguenze che direttamente potrebbero riversarsi sul conflitto. La cedevolezza occidentale lascia intuire che gli USA e la NATO abbiano davanti a sé una Russia tutt’altro che indebolita dai pacchetti delle sanzioni. La riunione recente dei BRICS è, del resto, ha affrontato il tema della guerra non senza divisioni di poco conto; tuttavia Cina, India, Sudafrica e Brasile intendono rinsaldare una cooperazione che apra un altro fronte. Questa volta direttamente economico.
Quello che dovrebbe iniziare a breve come un processo di “de-dollarizzazione” mondiale, è un enorme mutamento nei rapporti multilaterali tra i singoli Stati e tra i blocchi di alleanze che si vanno costruendo da alcuni decenni a questa parte. E’ il “sud del mondo” che affronta l’arroganza dell’imperialismo nordamericano-europeo ed anche nipponico.
Quella stessa arroganza che non guarda in faccia il mutamento climatico, l’impoverimento delle risorse naturali comuni e l’inquinamento devastante del pianeta e che, mettendo il tutto sotto la molto poco consolatoria tollerabilità delle radiazioni di scorie che starebbero “sopra la norma” e non andrebbero oltre un livello di allarme, sversa nell’oceano le acque inquinate della tragedia di Fukushima.
E’ sempre più difficile separare la guerra in Ucraina dalle altre guerre, dalle speculazioni ambientali e dallo sfruttamento a tutto tondo delle materie prime in ogni parte del mondo. E’ sempre più difficile dare torto a quelli che vengono descritti qui, nell’occidente a capitalismo ipersonicamente liberista, come “stati canaglia”, paesi che avrebbero l’esclusivo monopolio dell’attitudine dittatoriale.
L’America di Biden non si è distinta per una grande differenza nei confronti della precedente presidenza trumpiana… E senza un riequilibrio sociale di una larghissima fetta della popolazione mondiale, sarà difficile frenare l’istinto privatistico, ipersfruttatore e neocolonialista delle potenze che gravitano attorno agli USA.
Nessuno, a parte poche nazioni, si salva dalla facile, eppure realistica, accusa di imperialismo: Russia, Cina, Stati Uniti… Sono i tre fattori che determinano oggi le differenti sfaccettature di una medesima realtà. Eppure vi sono delle particolarità cui prestare attenzione. Non di poco conto.
Una lotta anticapitalista vera non piace a nessuno di questi blocchi di interessi stratificati e sedimentatisi sulla pelle di centinaia di milioni di individui. Ed è per questo che, se un’equidistanza proprio va ricercata, la si deve misurare molto attentamente, perché pur somigliandosi molto, non sono per forza in tutto e per tutto uguali.
MARCO SFERINI
24 agosto 2023
foto: screenshot tv