Segregate, discriminate, penalizzate. La condizione lavorativa delle donne in Italia è regredita. Nonostante per la prima volta a capo dell’esecutivo ci sia una donna, Giorgia Meloni, e a dispetto dell’esultanza della stessa sui presunti record nell’occupazione. Ma niente è più interpretabile dei dati. E così quando la premier, che ama definirsi «donna, madre e cristiana», parla di risultati bisogna chiedere per chi sono arrivati, chi ne giova e chi, invece, è escluso da questo computo di successi.
«La categoria che rimane fuori è quella delle donne», spiega Lara Ghiglione, segretaria nazionale della Cgil. E lo stesso spiegano le ricercatrici del sito di analisi Ingenere. «A guardare bene i dati le cose migliorano per il sistema economico nel suo complesso ma non migliorano in uguale misura per le donne», ha scritto sul portale Barbara Martini, che insegna modelli statistici per l’economia di genere e inclusione all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ed è la stessa Istat a spiegarlo nella relazione che accompagna i dati: «Dal 2008 al 2024 l’incremento del tasso di occupazione delle donne è di 6,4 punti. Una crescita dovuta soprattutto al segmento delle ultracinquantenni: mentre l’aumento per le over50 raggiunge i 20 punti, per le 25-34enni si ferma a 1,4 punti».
Nel dettaglio il tasso di occupazione tra le donne tra 20 e 49 anni con almeno un figlio con meno di 6 anni, nel 2023 era del 55,3% (la media europea si attesta al 69,3%, secondo Eurostat), mentre per i giovani padri è al 90,7%. Facile dedurre che i posti di lavoro che si sono creati siano stati occupati da uomini. Sono aumentati i contratti a tempo indeterminato ma le donne rimangono inchiodate al part time involontario, e quanto ai salari, nel 2022 le donne laureate hanno guadagnato in media il 16,6% in meno rispetto ai colleghi. Questo comporta che il rischio di povertà per le donne sia superiore di almeno due/tre punti a quello degli uomini (secondo il Gender Equality Index degli ultimi anni).
Sono a rischio povertà le pensionate, che a causa delle carriera discontinua e dei guadagni inferiori, percepiscono un assegno insufficiente così come le neet (che sono il 18,6% in più degli coetanei maschi), cioè le giovani che non studiano e non lavorano e che vengono infilate in questo elenco perché hanno smesso di cercare un’occupazione, soprattutto dopo la nascita del primo figlio. Sono una su cinque le donne che fuoriescono dal mercato del lavoro a seguito della maternità in Italia e questo è dovuto anche al mancato accesso a servizi per l’infanzia. Non è un caso che le città con il record negativo di lavoro femminile si trovino al Sud, dove è più scarsa l’offerta di asili nido statali e comunali.
Per questo l’investimento sugli asili nido è considerato cruciale: può invertire la tendenza dell’occupazione. Il Pnrr aveva stanziato dei fondi appositi ma i progetti sono stati rivisti al ribasso nel corso degli ultimi due anni e l’obiettivo previsto del Next Generation Eu appare ora lontanissimo. E anche la parte che riguardava la percentuale di posti di lavoro da assegnare alle donne è naufragata tra le deroghe. «Di fronte a questo quadro allarmante il governo ha risposto con bonus e interventi spot, quando invece sono necessarie misure strutturali, che intervengono sulla precarietà che impedisce di progettare una famiglia», aggiunge Ghiglione.
Quanto alle donne che hanno un’occupazione è sempre l’Istat a dire che «quasi un quarto delle donne che lavora presenta uno o più elementi di vulnerabilità (dipendente a tempo determinato, part time involontario, ecc.), contro il 13,8% gli uomini. Risultano più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani (38,7%), residenti nel Sud (31,2%), con bassa istruzione (31,7%) e straniere (36,5%)». Questo perché, secondo la Cgil, non ci sono stati interventi per prevenire la segregazione occupazione che per le donne è duplice: «Esiste – spiega ancora la segretaria nazionale Cgil – una segregazione orizzontale e una verticale: le donne lavorano in settori meno retribuiti e fanno meno carriera dei colleghi maschi a parità di titoli e competenze».
Oltre ai bollini sulla parità di genere di cui si vantano le imprese e che si basano su criteri molto deboli, occorrerebbero misure strutturali come il reddito di base, come chiede il sindacato Clap e il congedo di paternità obbligatorio per i padri. E invertire la tendenza, promossa dai governi di destra in tutto il mondo, a considerare la donna sono come elemento riproduttivo della società e non come elemento produttivo.
Paradossale che in Italia questa regressione sia portata avanti da tre donne: la premier, la ministra per il Lavoro Marina Calderone e quella per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità (in ultimo nella dicitura, come ha voluto il governo), Eugenia Roccella. «È in atto un disinvestimento nell’intelligenza delle donne, supportato dal manifesto politico della destra che vuole le vuole far tornare al focolare”, denuncia la Cgil. Il tutto con misure spot che rispondono alle esigenze di una “mamma” ideale e che opprimono le donne che lavorano reali.
LUCIANA CIMINO
Foto di EqualStock IN