Il mutamento dei tempi è un lento passare incessante di avvenimenti che paiono sovente distaccati tra loro, magari accomunati da una pallida sensazione di somiglianza, con tratti comuni spesso molto poco individuabili e per questo trascurati anche dai migliori analisti. Bisogna avere tanto il corto vedere di una spalla quanto la lunga prospettiva del mirare Selene per elaborare una compiuta sintesi di distanze tanto temporali quanto geopolitiche (e, quindi, necessariamente anche antropologiche e sociologiche) così da realizzare che, sì, ci si trova in quel preciso istante che è un contesto dato.
Ora, l’individuazione del contesto in questione è quanto di più difficile si possa concretizzare nel momento in cui si è nel mezzo di una fase di passaggio tra epoche che non conoscono una soluzione di continuità, bensì una dialettica incessante che appanna le singolarità e rende indistinto quello che è molto particolare in ciò che, invece, è piuttosto universale. La globalizzazione neoliberista di questi ultimi decenni ha esattamente prodotto tutto ciò: nell’illusione di vivere in un mondo completamente interagente, ha trascurato da un lato e coccolato dall’altro i peggiori neonazionalismi che potessero risorgere dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Fatto salvo il dato acquisito che ogni società fino ad ora esistita ha avuto la sua parte nella lotta fra le classi e che, quindi, il processo di confronto-scontro fra le stesse ha determinato il progresso o la rovina di certi contesti sociali, civili e culturali, non vi è dubbio possibile in merito all’accelerazione indomita che hanno registrato gli ultimi secoli nel porre una alternanza quasi ciclica tra nazionalismi da un lato e progetti più transnazionali dall’altro. Sul finire dell’Ottocento, infatti, dopo un mezzo secolo e più di ricomposizione delle vecchie, storiche appartenenze locali fondate vieppiù sulla comunanza linguistica e culturale, le due guerre mondiali hanno disarticolato i processi dati e i riflessi tremendi del colonialismo.
L’atomizzazione di queste certezze induceva, nell’intercapedine cronologica tra i conflitti, la borghesia ad una piena espansione e, non per la prima volta ma certamente con un alto tasso di novità se si guarda ai conflitti del passato, ad approfittare delle tensioni tra gli Stati per accrescere il proprio dominio come classe dirigente su scala planetaria. I populismi moderni trovavano così una loro premessa storica nelle dittature totalitarie che si andavano erigendo non sulle rovine del padronato nel nome di chissà quale rivoluzione sociale e nazionale, ma proprio grazie al sostegno di questo, la cui mira era il sempre più granitico consolidamento del privilegio acquisito.
Nel corso del secondo dopoguerra, la catastrofe intervenuta aveva storditi i gruppi dirigenti tanto economico-finanziari quanto politici, preda entrambi di un processo di rimodulazione globale dei rispettivi ambiti di intervento: tra il 1945 e il 1970 si andava quindi formando un nuovo assetto generale del capitale e i nazionalismi, tanto di destra quanto quelli più moderati di centrodestra, dovevano fare i conti con una voglia popolare di lasciarsi alle spalle le omicidiarie tribolazioni legate alle teorizzazioni suprematiste di questo o quel condottiero. Si guardava al futuro che prometteva, nel bipolarismo Occidente-Oriente, USA-URSS, un confronto serrato ma anche una nuova impostazione dialettica che, senza dimenticare le identità nazionali, lasciava ampio posto alle nuove aggregazioni sovranazionali.
Ecco, quindi, che l’altalenante onda dei corsi e ricorsi storici determinava un cambiamento logico, figlio di una tragedia che aveva devastato mezzo pianeta e che non aveva avuto altra conseguenza se non quella, da parte delle élite nazionali di considerare inaffidabili (ed indifendibili) le torsioni autoritarie novecentesche, incapaci di separare le loro pulsioni iperidentitarie dal ruolo di corifei del capitalismo in rapida espansione sull’intero globo terracqueo. Le guerre, tuttavia, erano rimaste ben impresse nell’armamentario ideologico delle classi dominanti: avevano dimostrato di essere uno spazza tutto, un rimedio cinicamente barbaro ma utile per superare anche delle crisi verticali di produzione, di domanda e di offerta. Se ne sarebbero potute servire ancora e infatti sarà esattamente quello che faranno nei decenni a venire.
Qui si inserisce il tema di un libro di appena centocinquantadue pagine ma che è piuttosto utile nel regalarci uno spunto di riflessione sui populismi modernissimi, di oggi, coevi a queste considerazioni che, essendo divenute per metà storiche, sono affidate alla valutazione più articolata del raffronto tra ciò che si è svolto e ciò che, invece, si deve ancora svolgere. Le influenze del passato sul presente sono adottate da Stefano Feltri nel suo “Populismo sovrano” (Einaudi, 2018) per discernere la fisiognomica dei nazionalismi andati con quelli invece riemersi nella nuova stagione del liberismo a tutto spiano e del mutamento provocato su scala generale dalla tellurica dei neoautoritarismi: dalle cosiddette “democrature” (le democrazie autoritarie) ai regimi propriamente intesi come tali.
Considerata la premessa del libro, il proposito quindi della sincretizzazione tra populismo e sovranità, nella duplice accezione data da una interdipendenza ormai del tutto storicamente e attualisticamente evidente, l’indagine sulla reciproca influenza è il cuore di un tema molto più vasto che indaga le ragioni anzitutto di una evo-involuzione della destra che, dai tratti palesemente neofascisti del secondo dopoguerra, muta esteriormente in rispettabile (o quanto meno pretende di essere tale) forza di governo. Non è un tentativo di recupero del fallimento del passato novecentesco: non c’è nessuna volontà di rimarginare la ferita con il tradimento degli originari princìpi sociali mussoliniani o del nazional-socialismo hitleriano. I nostalgismi restano, vengono esibiti come tratto inculturale, come incrostazione dell’animosità permanente.
Ma poi si guarda molto di più al compromesso, alla compromissorietà come elemento cardine di un neostrutturalismo che osserva i popoli sottostanti, li guarda dall’alto in basso, fa credere loro di essere la speranza risolutrice dei tanti drammi (anti)sociali dell’oggi con proposte di cambiamento che individuano sempre nel rafforzamento dei poteri la specialità della casa: delle libertà o meno, poco conta. I populismi prendono la via del sovranismo come antidoto ad una crisi locale e sovranazionale in cui l’identità patriotticamente intesa è sbandierata alla stregua del perimetro delle possibilità concrete, del fattibile a tutti i costi: sia che si tratti di diritti umani, sia che riguardi quelli civili e sociali. Le pericolosissime pantomime governative sulle migrazioni lo dimostrano più che ampiamente. Ha ragione Stefano Feltri quando sostiene che c’è molto poco di nazionale nel sovranismo.
Questo perché, essenzialmente, la complessità delle democrazie è fatta, in particolare oggi, nel rimescolamento multipolare del pianeta, per essere intersezionalizzata con le altre sovrastrutture statali: sia che si tratti di paesi comunitari e confinanti, sia che ci si trovi innanzi a nuove potenze emergenti che rimettono in discussione gli assi portanti dell’economia e della politica del passato. E, con tutto ciò, quindi, anche quelli delle migrazioni se non di interi, certamente di ampi settori di popoli sempre meno garantiti nei loro diritti più elementari. La frammentazione di una politica priva di legami con una visione di lungo termine, con quelle che un tempo si sarebbero potute definire comodamente “ideologie” (senza nessuna accezione stigmatizzante), ha favorito un pullulare di forze politiche super-personali.
La leaderizzazione nella politica degli ultimi quarant’anni, a far data almeno dal craxismo, antesignano del berlusconismo che aveva imparato da più di un maestro pentapartitico, ha aperto vaste praterie al ritorno della proposta dell’uomo o della donna capaci di trarre in salvo la nazione con ricette e pensieri magici: irrealizzabili non soltanto perché ampiamente contraddittori rispetto alle dinamiche internazionali (e non solo quelle che concernono la politica estera, ma soprattutto i flussi di soldi che viaggiano da una borsa all’altra…); ma in particolare perché – come rileva Feltri – il sovranismo è fondamentalmente incompatibile con interessi propriamente nazionali in un contesto ormai sovradimensionato rispetto alle “piccole patrie” del passato. La governabilità dei processi è qualcosa che trascende il ristretto ambito patriottico dalle Alpi ai due mari.
L’Italia esiste, intendiamoci, ma la sua identità non è garantita meglio dalle destre oggi al governo rispetto alle sinistre all’opposizione. Il punto oggi non riguarda, purtroppo, i programmi dell’una o dell’altra parte (che spesso e volentieri nelle voci riguardanti i progetti economici si somigliano e non poco…), ma il tipo di condiscendenza che la politica intende avere nei confronti del capitale e delle sue classi bislaccamente dirigenti e che, nonostante tutto, detengono quelle che Feltri chiama “le leve del potere” che non sono in mano ai governi nazionali. La sovranità non è qualcosa di effimero, nemmeno oggi che è in profonda crisi se la si intende proprio come quintessenza dell’identità di un concetto molto più giacobino di “nazione” (in quanto popolo e non in quanto potere di un esecutivo su un popolo). Ma è tarlata dalle grandi centrali del capitale globale.
Va preso atto di un rapporto squilibrato tra nazionalismi moderni e multipolarismo planetario. Sarebbe come voler affrontare la questione tremenda del cambiamento climatico solamente entro i confini italiani, prescindendo dal resto del mondo. È ovviamente una sciocchezza, così come lo sono le impuntature neosovraniste di un populismo che ingrassa di voti ma è sempre meno ricco di proposte davvero utili al benessere comune. La lettura di questo libriccino di Stefano Feltri è un buon modo di affrontare tutte queste intricate dinamiche della complessità moderna che, per molti aspetti, odora mefiticamente di un passato che non passa.
POPULISMO SOVRANO
STEFANO FELTRI
EINAUDI, 2018
€ 12,00
MARCO SFERINI
23 luglio 2025
foto:
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