Piuttosto complessa la valutazione delle prerogative magistratuali sul sottoponimento di ciò che, dopo la sentenza 192 del 2024 della Corte Costituzionale, rimaneva della Legge Calderoli sull’autonomia differenziata a referendum popolare abrogativo. Chi dice che toccasse alla Corte di Cassazione soltanto entrare nel merito. Chi, invece, sostiene che la Consulta avesse – come del resto ha mostrato di poter avere – voce in capitolo e, a quanto pare, l’ultima voce.
Sta di fatto che la consultazione non si farà. Può sembrare una pessima notizia ma, a ben vedere, non fa che confermare il fatto che l’impianto della Legge calderoliana sia stato pressoché smontato dai rilievi della sentenza citata poco sopra e che, quindi, il quesito proposto avrebbe riguardato una scatola vuota.
Una scatola che il governo, pure in mezzo a tante contraddittorietà tecniche e ad obiezioni politiche (ormai celebre la polemica di Forza Italia nei confronti della Lega), intende nuovamente riempire per non rimanere azzoppato nella furibonda voglia di controriforme altamente incostituzionali che propone dal suo insediamento, ormai datato settembre 2022.
In tutto questo tempo, piuttosto che dirimere i problemi sociali che attanagliano l’Italia dell’economia di guerra e della sudditanza al nuovo corso trumpiano della Repubblica a stelle e strisce, il governo Meloni ha pensato bene di orchestrare, nel complesso gioco della tenuta della sua stessa maggioranza, un trivio riformistico-istituzionale per contentarsi vicendevolmente.
La riforma della giustizia per omaggiare anche la figura del presidente eterno di Forza Italia, Silvio Berlusconi; quella dell’autonomia differenziata per compiacere la Lega e i governatorati del Nord che vuole essere ancora più ricco e benestante a scapito della metà meridionale della Repubblica; il premierato per soddisfare vecchi appetiti presidenzialissimi di Fratelli d’Italia, eredità del missinismo d’antan.
Però, si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. E, a volte, nel guardare troppo il buco si finisce con lo smarrire ciò che gli sta intorno e non avere una chiara visione di insieme dei grandi problemi del Paese. Il tentativo di riportare un po’ di equilibrio sociale in uno scenario fortemente connaturato all’imprenditoria come unico centro di sviluppo nazionale, oggi è, con la bocciatura del referendum sull’autonomia differenziata, il vero nodo da risolvere che riguarda i quesiti rimanenti proposti dalla CGIL e dalla UIL per quanto riguarda la precarietà e la sicurezza del lavoro.
Non meno importante è, senza dubbio, il referendum sul dimezzamento degli anni necessari oggi al conseguimento del diritto di cittadinanza da parte dei migranti e di coloro che vivono in Italia da lungo tempo e che non si vedono riconosciuti le garanzie fondamentali per una partecipazione piena alla comunità tanto locale quanto nazionale. Indubbiamente il quesito sull’autonomia differenziata avrebbe fatto da trascinatore del quorum anche per questi interrogativi posti al popolo. Non sarà così.
Ciò induce a due riflessioni: la prima riguarda la lotta contro la riforma di Calderoli. Siccome non viene meno il pericolo di una riscrittura della Legge in chiave sempre e soltanto esclusivista e per niente solidale sul piano della condivisione dei diritti e dei doveri delle Regioni in relazione all’interità del Paese, non è smobilitabile il comitato referendario che si era costituito e che, anzi, deve essere il punto fulcrale attorno a cui ricostruire una tensione partecipativa che, in poco tempo, aveva permesso di raccogliere online le firme necessarie per la presentazione del quesito.
Di più ancora, proprio perché invece gli altri referendum sono stati ammessi, ed hanno un potenziale di vera opposizione sociale e civile rispetto alle politiche scellerate del governo Meloni in materia di lavoro, precarietà, sicurezza e cittadinanza, l’impegno che avremmo messo nel portare avanti la lotta per mettere la parola “fine” alla controriforma leghista sul finto regionalismo discriminatorio, va oggi convertito in una maggiorazione dell’impegno per vincere sul terreno della rivendicazione popolare di diritti che oggi sono rubricati quasi come capricci esistenziali.
Mentre l’autonomia differenziata è una scelta, una richiesta che le Regioni possono fare allo Stato, quanto si chiede nei quesiti proposti dal sindacato è invece un complesso di diritti che spettano alle lavoratrici e ai lavoratori, ai cittadini tutti senza distinzione di sorta. Quindi, la materia su cui ci troveremo a votare nella prossima primavera, alle soglie della stagione estiva, riguarda qualcosa di imprescindibile per tutte e tutti noi.
Non siamo in presenza di una riforma, ma di decisioni prese e messe in pratica che hanno diminuito le facoltà del mondo del lavoro di essere adeguatamente considerato, quanto meno al pari di quello delle imprese, come elemento discriminante per la ricchezza nazionale e per il sostentamento, anzitutto, della parte più debole, fragile e discriminata del Paese. Coloro che oggi patiscono i rovesci della crisi economica più globale si trovano esattamente in quella posizione (anti)sociale.
L’autonomia differenziata era, e nelle intenzioni del governo Meloni rimane, un presupposto discriminatorio tra ceti sociali, tra regioni virtuose e meno virtuose, tra Italia ricca e Italia povera: la teorizzazione dei diritti uguali per tutti soltanto se si può accedervi mediante una considerazione censitaria è la conseguenza di un neoclassismo che a destra trova il terreno fertilissmo della comprimarietà con un centro che non ha mai mollato il liberismo come trait d’union tra l’economia di mercato e lo Stato.
La bocciatura dell’autonomia differenziata mediante referendum, unitamente al successo dei quesiti proposti da CGIL e UIL, avrebbe costretto l’esecutivo ad una retromarcia davvero imponente sui temi concernenti le dinamiche del lavoro e dei rapporti con i diritti civili costantemente sotto attacco. Possiamo anche batterci il petto e ritenere che questa lotta sia stata, in una certa misura, depotenziata (ed in effetti è così), ma solo se facciamo riferimento ad un aspetto più che altro tecnico.
Se l’autonomia differenziata è stata azzoppata dalla Corte Costituzionale, perché oggettivamente incostituzionale, la vittoria dei quesiti referendari rimasti è strategica nella proposta complessiva di un rilancio dell’opposizione sociale in questo disgraziato nostro povero Paese. Se attorno ai temi del lavoro e della cittadinanza si riuscisse ad implementare un sentimento collettivo, una rivalsa della grande cultura nazionale della solidarietà, espressione prima della Carta del 1948, un passo avanti verso l’alternativa alle destre sarebbe compiuto.
Siamo consapevoli che il fronte delle opposizioni non è graniticamente unito nel merito e nella proposta dei quesiti: poiché uno di essi, senza infingimento alcuno, dispone – se accolto dalle elettrici e dagli elettori – l’abrogazione del famigerato Jobs Act, è del tutto evidente che, almeno dalle parti del centro e dei moderati, non vi sarà in tal senso un riscontro di approvazione. Per questo la sinistra di alternativa e quella riformista devono unire le loro capacità di sintesi in questi frangenti.
E devono farlo con tutto un fronte progressista che si deve mettere alla testa della lotta per una nuova declinazione moderna dei diritti del mondo del lavoro, della precarietà, del disagio sociale, degli ambiti di una società che non è incapace di esprimersi ma che, viste le conseguenze cui andrebbe incontro (espulsioni, discriminazioni, ecc…) osserva una cautela prudenziale che le è, sostanzialmente, di nocumento tanto su un breve quanto su un più lungo periodo.
Il governo Meloni ha agito non per favorire la democrazia nei luoghi di lavoro, nei rapporti tra le parti sociali e nelle relazioni tra queste e lo Stato. Ha portato avanti politiche in favore del confindustrialismo, del padronato a tutto tondo, del privilegio, quindi del favorire il privato rispetto al pubblico ponendo quest’ultimo sotto l’egida del primo.
Non è sorprendente, visto che le connotazioni filoindustriali e filomercatiste delle destre moderne erano già sufficientemente palesi da decenni di berlusconismo e di tecnocrazia che ne è successivamente derivata. Ma deve essere il presupposto per mostrare ai nuovi sfruttati, decine di milioni di cittadini che arrivano a fatica a fine mese e che non hanno nemmeno più le minime garanzie di un salario minimo, sociale, di aiuti e di sostegni davvero poco pesanti nell’economia complessiva della nazione, il carattere di classe di queste destre.
E, quindi, una volta per tutte, recuperare al progressismo italiano il ruolo che gli spetta e gli tocca. Quello della rappresentanza del mondo del lavoro e della disoccupazione, della fragilità di una classe atomizzata, resa egoisticamente impotente davanti ad un capitalismo vorace e divoratore delle ultime risorse destinate alla salvaguardia dalla miseria più nera di milioni di italiani.
Cinque SÌ, dunque:
– per l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act (cancellare le norme sui licenziamenti, che consentono alle imprese di non reintegrare una lavoratrice o un lavoratore licenziato in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015);
– la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese (quindi innalzare le tutele per chi lavora in aziende con meno di quindici dipendenti, cancellando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato);
– per l’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine;
– contro l’esclusione della responsabilità solidale di committente, appaltante e subappaltante negli infortuni sul lavoro (quindi eliminare le misure che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante);
ed infine il quinto referendum, quello sulla cittadinanza: come si faceva cenno all’inizio di queste righe, punta al dimezzamento da dieci a cinque anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario ai fini della presentazione della domanda di concessione della cittadinanza da parte dei maggiorenni.
Si tratta, come è evidente, di una grande opportunità dal duplice valore: civile e politico. Ristabilire un minimo di giustizia sociale, nell’era meloniana (il che vale già il doppio della portata stessa dei quesiti proposti e accettati dalla Consulta), nel contesto di un’Italia che, naturalmente, per sua espressa natura costituzionale, si metta di traverso rispetto alla prepotenza leghista che vorrebbe imporre alla nazione un regime di diseguaglianza istituzionalizzata.
Se stiamo dalla parte dei diritti uguali per tutte e per tutti, cinque SÌ sono ovvi, istintivi, congeniti nel DNA dell’Italia repubblicana, laica, solidale, civile, sociale.
MARCO SFERINI
23 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria