Per una nuova maturità politica di Rifondazione Comunista

A ridosso della vittoria del campo progressista, o centrosinistra che dir si voglia, in quel di Genova e Ravenna, il governo di destra-destra sta per far approvare, ad un...

A ridosso della vittoria del campo progressista, o centrosinistra che dir si voglia, in quel di Genova e Ravenna, il governo di destra-destra sta per far approvare, ad un Parlamento inebetito e reso praticamente il cavalier servente dell’esecutivo con ben 89 voti di fiducia richiesti in meno di tre anni…, il famigerato provvedimento sulla sicurezza. Una legge che ci porterà, come ha molto opportunamente notato qualche esperto della materia, al passaggio dallo “Stato di diritto” allo “Stato di prevenzione“.

Siamo in prossimità di un passaggio veramente di spessore, di grave nocumento per una democrazia traballante e, tuttavia, ancora garantita da un impianto costituzionale rigido e di difficile modifica. Ma questo del “decreto sicurezza” è qualcosa forse di più di un tentativo di scardinamento degli articoli della Carta del 1948: è un colpo di mano che potrà essere fermato soltanto con un referendum abrogativo di cui si è già annunciata la presentazione non appena sarà approvata e pubblicata la legge sulla Gazzetta Ufficiale.

Lo hanno chiamato “decreto fascistissimo” non per nulla: è una stretta repressiva tale da impedire tutta una serie di manifestazioni del dissenso e della libera espressione fisica dello stesso come mai si era visto nella storia dell’Italia repubblicana. Vengono aumentate le sanzioni e le pene detentive per chi protesta con blocchi stradali, contro le grandi opere, per chi occupa case sfitte, mentre si danno alle forze di polizia e ai servizi segreti garanzie maggiori per poter evitare le maglie della giustizia nel caso qualche cittadino finisca sotto le gragnuole di colpi nei cortei e poi denunci.

Tutto in una unica direzione: a tutela del potere che reprime, a discapito della libertà di espressione, di critica, di contestazione del governo e dei suoi provvedimenti. Mentre tutto questo avviene e procede speditamente verso gli ultimi passaggi parlamentari, le elezioni amministrative da poco svoltesi mandano un segnale differente che viene interpretato con ovvie distinzioni dettate da punti di vista anche diametralmente opposti. Comprensibile lo sconcerto della destra che perde quella che era divenuta la città simbolo di questo voto per la tenuta di coalizione: Genova.

Meno comprensibile che a sinistra, in particolare tra le micro-forze di quella di alternativa, si guardi a questo cambio di amministrazione come ad un passaggio di consegne tra uguali, nemmeno tra “simili“. Per alcuni comunisti duri e puri, che si intestano così la primogenitura di un ritrovato percorso rivoluzionario nel trittico PCI-Rifondazione Comunista-Sinistra anticapitalista (e precedentemente alle regionali ultime con Potere al Popolo!), l’1,3% dei consensi (pari a 2954 voti) è evidentemente, nella sua insufficienza ormai cronica, un dato da preservare come base di una ripartenza che non riparte però mai.

Il confronto è impietoso: soltanto tre anni fa, alle elezioni comunali genovesi aveva preso parte non il 51,9% di oggi ma uno striminzito 44,17% di elettorato. La destra cavalcava ancora l’onda dell’incedente melonismo e, poi, venne il ciclone totiano a sconvolgere un po’ le carte in tavola e, anche a seguito di ciò, oggi il quadro nel capoluogo regionale ligure è molto cambiato. Eppure, per i nostri comunisti duri e puri nulla sembra essere sostanzialmente mutato: se la Superba passa dalla destra al campo progressista (allargato fino ai riformisti-liberisti calendiani e renziani…) si fa finta che tutto sia uguale e che i programmi, sostanzialmente, siano gli stessi.

Certo è che le grandi opere sono un tema trasversale, su cui la sinistra interna a questo nuovo centrosinistra dovrà fare la voce grossa, insieme ai Cinquestelle, per scongiurare che avanzino e si mangino parti sostanziali di territorio, ledendo i diritti di intere comunità; certo è anche che, su temi come guerra e riarmo (che pure non sono propri di una campagna tanto per le regionali quanto per le comunali, se non come linea di solido principio), le contraddizioni interne sono parecchie. Ma sul governo della città, sul miglioramento delle condizioni di quotidiana esistenza di tutti i cittadini, vi sarà o no una differenza?

Non c’è dubbio nemmeno sul fatto che il PD sia attraversato da correnti che spingono in direzioni uguali e contrarie: per fare un esempio contingente, ai referendum dei prossimi 8 e 9 giugno su lavoro e cittadinanza Schlein voterà cinque sì e Bonaccini invece, coerente con la sua area riformista, dirà tre no ai quesiti che superano il Jobs act e due sì restanti. Al netto di tutte queste evidenziabilissime contraddizioni per un partito che è tornato a dichiararsi “partito del lavoro” (dopo essere stato per molti anni il contrario), possiamo noi comuniste e comunisti, donne e uomini di una sinistra di alternativa, convintamente anticapitalisti e antiliberisti, affermare che non c’è spazio per alcun dialogo?

Quando si muove questa o altre obiezioni simili, ci si sente candidamente obiettare che sono gli altri a non volere l’abboccamento con noi, con Rifondazione Comunista sostanzialmente. Gli altri partiti, come già detto e scritto, sono patetiche riedizioni della grande storia del vero e unico Partito Comunista Italiano o, purtroppo (lo dico davvero con amarezza, perché ho grande simpatia luxemburghiana per le compagne e i compagni di Sinistra anticapitalista), micro particelle subatomiche che hanno un ruolo di testimonianza e niente di più.

Il centrosinistra come lo abbiamo conosciuto da Prodi in avanti non esiste più. Ed è un bene che sia così. Come non esistono più tutte le altre proposte politiche alternative così come le avevamo imparate a conoscere dalla fine della “prima repubblica“: da quelle di estrema destra minoritarie, che infatti oggi sono maggioritarie (ma non maggioranza nel Paese), a quelle della sinistra un tempo cosiddetta “radicale“: a partire proprio da Rifondazione Comunista. Sono cambiate le basi strutturali di una società in cui la vittoria capitalistico-liberista si è fatta sentire nel lungo processo di involuzione dei diritti sociali dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.

In questa ristrutturazione globale e locale, planetaria, europea e nazionale oggi ci troviamo a fare i conti con un sistema che si sente garantito solo attraverso l’imposizione e la repressione, perché si rende perfettamente conto che la povertà delle risorse terrestri, le crisi ambientali e la sovrapopolazione sono elementi di destabilizzazione tali da consentire un recupero della coscienza critica da parte di intere masse di popoli che, sull’onda dell’indigenza crescente, monterebbero le proteste e si organizzerebbero per contrastare tutto ciò e far valere i propri diritti.

Così, la risposta politica di destra, dall’Italia a molti paesi europei, dall’Argentina agli Stati Uniti, diviene la peggiore torsione politica che il liberismo pretende di sostanziare e radicare, illudendo populisticamente la gente che solo con la fermezza dell’uomo o della donna soli al comando si può oltrepassare le incertezze, gli incespicamenti di processi democratici troppo complicati, lunghi e, alla fine, inconcludenti. I nuovi esperimenti autocratici e autoritari sono iniziati così e stanno così continuando a foraggiarsi di malcontento e a riversarne i frutti avvelenati soprattutto sul mondo del lavoro e della scuola.

Non c’è il minimo dubbio sul fatto che qualunque centrosinistra, o campo progressista che lo voglia chiamare, sia un luogo di compromesso anche alto. La sinistra di alternativa, però, deve decidere se giocare un ruolo in questa partita o accontentarsi di vivere dall’esterno delle istituzioni, della Repubblica propriamente detta e intesa, il tutto e entrare in un circolo vizioso di attendismo, illudendosi di poter convincere le masse ad essere maggiormente critiche dando un buonissimo esempio di virtù, di etica della politica stessa, proclamando – indubbiamente a ragione – che “noi siamo diversi da tutti gli altri“.

Lo siamo, ma non è sufficiente ad avere in qualunque votazione sperimentata fino ad ora delle percentuali (e quindi un reale consenso in voti) che permettano di incidere nei processi decisionali, anche dall’opposizione. Da quanto manchiamo dai banchi del Parlamento? Da quanto manchiamo da quelli regionali e, in moltissimi casi, provinciali e comunali?  Ci basta l’1,3% per dire che, comunque, tremila persone hanno sostenuto la lista della “Sinistra alternativa” a Genova e che, quindi, si riparte da lì? Così come si è ripartiti tre anni fa e si è arrivati a prendere ben seicento voti in meno oggi con, in pratica, la stessa lista (soltanto col nome leggermente differente)?

Per quanto tempo ancora fingerete, compagne e compagni che sostenete questa linea, che fuori da noi tutto è uguale da combattere in eguale maniera e che solo in noi c’è la speranza e la salvezza rivoluzionaria? Sembra davvero un atteggiamento messianico che, francamente, non mi è mai appartenuto perché di una supponenza tale da negare i princìpi fondamentali della critica dialettica alla società che vorremmo provare a cambiare. Per farlo, però, bisogna stare dentro i processi sociali e istituzionali, al tempo stesso. Non si può più separare questi livelli.

Forze politiche come Alleanza Verdi e Sinistra ed il Movimento 5 Stelle sono e possono essere interlocutori validi per costruire una sinistra plurale dentro una più vasta alleanza progressista che lotti per impedire, ad esempio, insieme ai sindacati e alle associazioni sociali, civili e culturali, che il decreto sicurezza prosegua il suo cammino. Non importa se i miei compagni di strada sono anche quei radicali che si definisco “liberisti“, oltre che libertari e liberali e che sono filo-israeliani e pro NATO. Io continuerò ad essere un comunista libertario, filo-palestinese e antiatlantico.

Ma insieme potremo fare, su quel punto, una lotta comune. Come mai non riusciamo ad imparare la lezione di una ricerca di accordi (che sono molto differenti dalle alleanze) che ci rimetta in gioco come forza politica utile alla gente che intendiamo rappresentare: dai precari ai disoccupati, dal mondo del lavoro nel suo insieme a quello della scuola e del disagio sociale diffuso? Perché ci ostiniamo a pensare di avere ragione sempre e comunque e non ci critichiamo anche più del dovuto per vedere dove stiamo sbagliando?

Se continuiamo, nonostante le nostre ragioni laicamente sacrosante, a prendere percentuali da prefisso telefonico, noi potremo anche dire quello che sappiamo, ossia che il gioco è truccato dalle leggi elettorali farlocche, dalla stampa, dalla tv e dalle radio che non ci intervistano e ci snobbano piacevolmente, ma cosa facciamo per imporre una nostra presenza, per fare in modo che siano costretti a darci in qualche modo un certo tipo di ascolto? Noi ci lamentiamo e ci lagniamo, ogni volta che non riusciamo nemmeno ad eleggere un consigliere regionale o un deputato ci diciamo che calimeramente che sono gli altri a non capire. Non noi.

Ma non facciamo un passo in avanti, così. Ne facciamo sempre e soltanto due indietro. Celebriamo la nostra storia, ci piacciamo perché siamo coerenti col passato che abbiamo imparato a criticare e riformare (non revisionare) nella forma storica. Siamo riusciti, con grandi sforzi, a superare lo stalinismo d’antan, ma non siamo ancora riusciti a venire fuori dalla sconfitta epocale della sinistra nella fase neoliberista attuale, dopo trent’anni di preparazione di una alternativa che, tuttavia, non è mai stata inutile.

Ma ora serve un cambio netto, deciso e non più procrastinabile. Bisogna che Rifondazione Comunista riprenda il suo spirito originario e, certa delle sue ragioni e della sua identità politica e culturale, si rimetta in gioco non abbandonando la coerenza, ma provandone la tenuta proprio nell’approccio con partiti e coalizioni che le sono stati per lungo tempo estranei. Se la nostra voce e il nostro impegno sono davvero importanti, e di questo dobbiamo esserne convinti, non possiamo perseverare nell’errore. Non possiamo ritenere che, prima o poi, le masse ci comprenderanno e arriveranno a sostenerci.

Noi dobbiamo sostenerle e dobbiamo farlo facendoci percepire per quello che vogliamo essere: utili a loro e non solo al nostro ego politico di indefessa, imperturbabile, infantile e patetica finta coerenza del tutto autoreferenziale e settaria. Questo minoritarismo psico-politico che ci ha portati all’irrilevanza e alla permanenza nell’irrilevanza stessa. Essere comuniste e comunisti oggi non può voler dire questo e non deve essere questo. Per lo meno non per me, ma credo anche per molte compagne e molti compagni che hanno, a volte, il timore di dire realmente come la pensano per non essere additati con la solita, stanca, stantia categoria del “riformista traditore“.

MARCO SFERINI

27 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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