Per battere la manifesta antisocialità di un governo arrogante

La normalizzazione del melonismo, ossia del postfascismo dal tratto liberista e nordatlantico al governo dell’Italia ultramoderna di oggi. Ecco cosa ricerca tutto un mondo dell’informazione e della cultura a...

La normalizzazione del melonismo, ossia del postfascismo dal tratto liberista e nordatlantico al governo dell’Italia ultramoderna di oggi. Ecco cosa ricerca tutto un mondo dell’informazione e della cultura a partire da qualche mese a questa. Qualcuno ha scritto che nei confronti di Giorgia Meloni e del suo esecutivo si fanno sempre meno “domande scomode“. Tradotto: meno critiche possibili e più piaggeria: in gran misura, quanta se ne vuole. A volte è davvero imbarazzante ascoltare i giornali radio, i telegiornali o leggere i commenti e anche solo i titoli smargiassi che elogiano, pur volendo apparire equidistanti, le meravigliose sorti e progressive disposte da Palazzo Chigi.

Nelle risposte che ha dato al Parlamento, la Presidente del Consiglio non ha rivelato nessuna controtendenza rispetto all’attitudine già riscontrata nei precedenti anni di governo, fino a datare il tutto al settembre del 2022 quando democraticamente è stata eletta la sua maggioranza a ruolo dirigente del Paese. Dirigente e non proprietario dell’Italia e delle sue istituzioni. Ma fin da subito la nuova pseudo-classe dirigente tripartita dell’estrema destra rinnovata, dopo la fine del trentennio berlusconiano, ha mescolato le carte così bene da non riuscire nemmeno più a trovare i propri assi nella manica e lasciandosi trasportare dall’inevitabile noblesse oblige che il galateo istituzionale impone anche ai più inveterati nostalgici.

Poi quel formalismo del tutto apparente ha avuto, per così dire, la meglio su una presunta coerenza comiziale, del tempo della campagna elettorale, in cui la leader di Fratelli d’Italia giurava e stragiurava, ad esempio, che avrebbe spazzato via le accise sulla benzina, che avrebbe cinto le coste italiane di un blocco navale indomitamente eretto a protezione dal tentativo di “sostituzione etnica“, paventato non di meno dai suoi eccellentissimi ed intelligentissimi ministri e che avrebbe fatto altre millanta cose nel nome di una socialità che voleva recuperare i vecchi istinti della destra di popolo (mai veramente stata tale, almeno nel periodo del MSI) e che, quindi, era pronta a governare su un presupposto compromesso di classe.

Meschina, in quanto sopraffatta dai catastrofici eventi di guerra e pienamente incorsa in chissà quale sfortunata fase congiunturale europea e, non di meno, globale, la premier è stata costretta a virare di bordo e a fare quello che la maggioranza di governo aveva veramente in programma: garantire il capitalismo italiano e tutte le sue risorse entro un contesto di sommovimenti generali che suggerivano a lei e ai partiti che la sostenevano (e la continuano a sostenere) di tralasciare qualunque tentativo di contenimento del neopauperismo incedente, privilegiando i privilegi e mandando alla deriva i diritti sociali, nonché contrastando con grande piacere quelli civili ed umani. I provvedimenti presi da Palazzo Chigi sono lì a dimostrarlo: a partire dall’operazione deportazione dei migranti in Albania e dal suo clamoroso fallimento.

Ora, presentandosi davanti ai senatori e alle senatrici della Repubblica, Giorgia Meloni, al netto delle finte domande dei gruppi parlamentari che la ossequiano e la elogiano come una cesarista di nuovo modello che sa fare tutto e che sa mettere praticamente i conti in ordine e dare all’Italia un futuro di certissima prosperità, quando deve rispondere nel concreto del perché in tre anni non si sia invertita la tendenza marcata e consolidata della diminuzione dei salari, del perché la produzione industriale non sia stata rimessa un po’ in sesto dopo oltre venticinque mesi di progressivo calo; ed ancora del perché i cassintegrati siano aumentati dell’oltre 30% in pochissimi anni, ebbene, quando dovrebbe dare una risposta a tutto ciò, la premier glissa.

Glissa con abilità, ma propone giochi antinomici, si dilunga nella spiegazione delle congiunture attuali facendo il paragone con gli insuccessi passati di Renzi e Conte e, forse unica tra le affermazioni nette che fa, platealmente, con un cipiglio orgogliosamente patriottico e neonazionalista, declama che la spesa militare aumenterà fino al 2% del Prodotto Interno Lordo. Da dove verranno recuperare i miliardi che occorrono a questo fine (alcuni calcoli di corridoio dicono fino a dieci miliardi di euro…) non è dato sapere; tuttavia è facile intuire che proverranno da nuovi tagli alla spesa sociale e quindi avremo ancora più cannoni, carri armati, missili e fucili rispetto ad asili nido, investimenti nella sanità pubblica e sostegni per i milioni di italiani sempre più indigenti.

Vogliamo parlare, anzi scrivere, della contrazione spedita dei consumi? Della borsa della spesa che è sempre più vuota e del fatto che le cittadine e i cittadini che non arrivano quasi a metà del mese con i loro salari e le loro pensioni, dopo aver pagato tasse e affitti, non riescono a curarsi, non possono mandare i figli in gita scolastica e sono costretti a tanti altri sacrifici che non riguardano dei lussi veri e propri, ma magari una pizza insieme una volta la settimana, un giocattolo per i bambini, un pieno in più per moto o auto per fare un giro la domenica fuori porta… Giorgia Meloni dovrebbe scendere ogni tanto nella cruda realtà delle cifre di un bilancio familiare tragicamente “normale“. Si accorgerebbe che molte persone sopravvivono con appena mille euro al mese.

Altre non arrivano nemmeno a quella cifra… Nel 2024 il cosiddetto “rischio di povertà” è arrivato quasi al 20% su tutta la popolazione. Non è forse questo un dato allarmante e agghiacciante al tempo stesso? Venti persone su cento sono quasi al di sotto della soglia di sopravvivenza che, già solo per essere tale, è qualcosa di veramente molto triste da considerare come “decenza“. Ci sono circa cinque milioni di persone che lavorano soltanto venti ore alla settimana. E se lavori solo quelle ore, vuol dire che oggettivamente sei povero, visto che il salario minimo è stato da questo governo scartato come possibilità di recupero di un po’ di dignità e di sostenibilità economica personale e, più ancora, si è messo da parte anche il reddito di cittadinanza.

Lavorare venti ore alla settimana vuol dire, nella migliore delle ipotesi, guadagnare, lordi, 180 euro. Al mese fanno appena 720 euro. Sapete quando guadagna un rider che fa anche sei, sette ore al giorno? Circa 7 euro all’ora. Se va bene ogni tanto arrivi a toccare i 9 euro… Ma quando le aziende che ti gestiscono (e ti lasciano credere di essere un “lavoratore autonomo“…) firmano contratti con sindacati che definire compiacenti è veramente adoperare un eufemismo, i diritti dei lavoratori sono solo scritti sulla carta ma non valgono mai veramente in un regime sociale in cui le trattenute fiscali sono quasi di più del monte salariale che percepisci. I contratti a termine, poi, sono aumentati a dismisura: sono quasi tre milioni secondo i dati forniti sia da ISTAT che dai centri studi della CGIL e di Confindustria.

Le cifre combaciano e, quindi, ogni prevedibile attacco all’ideologismo classista va a farsi benedire ogni volta che viene invocato dagli esponenti postfascisti e neonazionalisti della maggioranza meloniana. I quesiti referendari dell’8 e 9 giugno prossimi insistono proprio su una rimodulazione a tutto spiano di una serie di norme che oggi, eredi del Jobs act di renziana memoria, soffocano tanto i diritti del singolo lavoratore/lavoratrice, sia quelli collettivi che sono, poi, la premessa utile all’applicazione delle tutele più speciciche e particolari. Votare SÌ ai cinque referendum davvero significa costringere questo governo arrogante e padronale, iperliberista e bellicista a fare i conti diversamente, pur sapendo che non verrà convinto dalla volontà popolare a reimpostare nel complesso la sua politica di tutela esclusiva dei ricchi.

Giorgia Meloni ha detto in Senato che «..la libertà ha un prezzo e se fai pagare a un altro la tua sicurezza non sei tu a decidere pienamente del tuo destino. Aumentare la spesa militare non è un favore a Trump, serve un pilastro europeo della Nato». Ma quale libertà? Quella di un Occidente imperialista che si scontra con l’altro imperialismo, quello russo? Quella di un Occidente e di una Europa che sono a brandelli e che rimangono dalla stessa parte sotto il peso del ricatto trumpiano e del vincolo dell’economia di guerra? Il riarmo è solo la libertà delle grandi lobbies militari che vendono e svendono armamenti assorbendo risorse che, altrimenti, andrebbero ad una rete nuova di stato-sociale cui la destra non intende dare adito.

L’intervento di Giorgia Meloni in Parlamento, quindi, non ha cambiato di una virgola la prospettiva politica, di amministrazione e di gestione delle immediate urgenze (e sono ovviamente tante) che l’Italia ha e che continuerà ad avere nei prossimi mesi. Rimane sotto attacco un principio di uguaglianza dei diritti che viene tollerato soltanto quando si tratta di associarlo, in un rapporto di ovvia destroide subordinazione, ai doveri dell’uomo tutto d’un pezzo e del cittadino indefessamente patriottico, ancorché prono al dettame trumpiano e al volere della NATO. A rischio rimangono l’equipollenza tra i poteri dello Stato e la tenuta democratica del Paese. La partecipazione in massa ai referendum dell’8 e del 9 giugno, soprattutto in questo senso, somiglia ad una necessaria manifestazione popolare in difesa dei diritti tutti.

Il mondo del lavoro somiglia sempre più ad una variabile dipendente dal mercato capitalistico e liberista, ad un semplice e fastidioso costo di produzione. Purtroppo necessario per i padroni e per i grandi industriali internazionali. Un costo che vorrebbero pagare sempre meno, delocalizzando, sganciando i loro doveri nei confronti delle maestranze e costringendo queste ultime ad avere salari sempre più da fame, nemmeno in grado di soddisfare quel principio di riproduzione della forza-lavoro quotidianamente intesa come una imprescindibilità di sistema e, quindi, una delle ruote più importanti di un ingranaggio che si vorrebbe oliato con soldi pubblici a tutto vantaggio dei profitti privati. Così come avviene oggi, così come avveniva ieri.

In questo ingranaggio malefico bisogna buttare la sabbia referendaria, perché fermi la produzione delle ingiustizie e dia avvio ad una stagione di inversione di tendenza. Abolendo il Jobs act e puntando a ripristinare anzitutto una democrazia compiuta sui luoghi di lavoro e tutto intorno alle fabbriche, alle aziende, al terzo settore e alle amministrazioni pubbliche. Il consolidamento della democrazia istituzionale non può trovare spazio senza un ritorno alla giustizia sociale praticata e rimessa nel motore della vita nazionale di una Italia che ha rischiato e rischia tutt’ora di impantanarsi nelle controriforme governative. Arriviamo al quorum del problema, superiamo il quorum referendario e vinciamo questa importante lotta con una valanga di SÌ.

MARCO SFERINI

8 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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