Sono un uomo, il partigiano qualunque…». Con queste parole, Ferruccio Parri si presentava nel giugno del 1945 davanti ai partiti che lo avevano convocato a Roma per affidargli l’incarico di formare un nuovo governo, dopo una crisi politica che aveva portato alle dimissioni di Bonomi.
Erano trascorsi meno di due mesi dalla Liberazione dell’Italia e la sconfitta del fascismo faceva riemergere, nel momento della ricostruzione, le divisioni tra i partiti che la necessità della lotta e la guerra avevano fatto, in parte, accantonare.
La guida dell’esecutivo da parte del «Comandante Maurizio», leader della Resistenza, illuse coloro che avevano sperato in una profonda trasformazione della società italiana, sulla spinta del «vento del Nord», un momento eroico della nostra storia. In realtà, i partiti, soprattutto quelli di massa, si posero da subito l’obiettivo di rafforzare le proprie posizioni politiche, in lotta l’uno contro l’altro.
La lunga crisi dell’ultimo governo Bonomi era il sintomo della difficoltà di trasformare la straordinaria esperienza della Resistenza in condivisa azione politica, almeno fino alle elezioni per l’Assemblea costituente. Il governo Parri nasceva, infatti, da un acceso conflitto politico tra Dc e Psi, che avevano proposto De Gasperi e Nenni alla successione di Bonomi, e dal duro scontro tra socialisti e liberali per la guida del ministero degli interni.
Non a caso Guido Gonella aveva parlato del governo Parri come di una «creatura nata male». Il prestigio e l’autorevolezza del comandante partigiano consentirono, tuttavia, di risolvere la crisi, riunendo nelle sue mani sia la presidenza del Consiglio che il ministero degli interni.
Non solo, Parri riuscì a indurre a collaborare al suo esecutivo due importanti forze politiche che erano rimaste fuori dal governo Bonomi: il partito socialista e il partito d’Azione. Fu il primo risultato raggiunto dal leader azionista che si proponeva apertamente e volontariamente di guidare un governo di unità nazionale in grado di arrivare fino alla Costituente e compiere quel primo e necessario passo verso la costruzione di un comune ethos civile e democratico.
Un governo, dunque, consapevolmente e volutamente di transizione, per cui, giustamente, il «Comandante Maurizio», si riteneva particolarmente adatto. Una figura sopra i partiti, persino sopra il suo, il Pd’a, come lo stesso compagno di partito, Emilio Lussu, aveva sottolineato.
Un governo di questo tipo, e che si poneva questi obiettivi, era congenitamente inadatto a trasformazioni radicali della società italiana e, dunque, destinato a deludere le enormi aspettative che su di esso erano ricadute. Forse è anche per queste ragioni che i giudizi storici e politici nei confronti dell’azione politica di Parri, per i sei mesi in cui fu al governo, sono stati spesso poco equilibrati.
Da sinistra lo si è accusato di essersi allontanato, nella sua attività di governo, dai valori della Resistenza. Un giudizio che si è sedimentato nella memoria storica del Paese a partire dai contrasti con Togliatti, che nascevano da due diversi modi di intendere la Resistenza e l’antifascismo. Il leader comunista era intenzionato a usare politicamente il primato del Pci nella lotta antifascista per accreditarsi come l’unica forza autenticamente democratica sullo scenario politico italiano. Niente di tutto questo, invece, in Parri.
Per il leader azionista, la Resistenza era stata una pagina gloriosa, anche se tragica, della storia italiana, che riguardava il passato ma rispetto alla quale bisognava avere il coraggio di andare oltre. Poco più di un mese prima che la sua esperienza governativa si concludesse, nell’ottobre del 1945, Parri dichiarò apertamente in conferenza stampa che la «rivoluzione antifascista», per continuare ad avere effetti benefici sulla società, avrebbe dovuto «trasformarsi da mero movimento antifascista in un rinnovamento democratico dello Stato».
Una dichiarazione duramente criticata dal Pci che, sostenendo l’esistenza in Italia, sotto altre sembianze, del fascismo, rivendicava, seppure in forme nuove, la necessità che continuasse la «lotta antifascista».
Da destra, invece, i liberali, ossessionati dalla paura del comunismo, accusarono Parri di essere guidato dai comunisti, di voler dar vita, attraverso i Cln, a nuove e pericolose esperienze istituzionali che avrebbero minato le conquiste fondamentali dello stato liberale. Secondo il Pli, le tendenze antiliberali di Parri erano rilevabili soprattutto nella gestione dei processi epurativi e nell’amministrazione della giustizia straordinaria che impedivano un ritorno alla normalità politica e alla restaurazione dell’ordine.
Parri aveva, in realtà, anche sul fronte epurativo mostrato il suo equilibrio sostenendo che fosse «necessario colpire la vera responsabilità e lasciar perdere quelli che hanno una responsabilità soltanto di carattere generale» perché il fascismo era stato «una malattia di tutto il popolo italiano». Le accuse dei liberali, ben lontane dalla realtà, innescarono però la crisi e la caduta del governo.
Proprio sul fronte dell’ordine pubblico Parri ottenne risultati molto rilevanti anche se non definitivi. Con il disarmo dei partigiani e la repressione della violenza conquistò la fiducia degli Alleati, in particolare degli Stati uniti. Il suo governo arrivò a un passo dalla restituzione all’Italia delle province del Nord, ancora sotto il controllo del governo militare alleato, risultato che avrebbe, probabilmente, impedito la caduta del suo esecutivo.
Il ritardo nel fissare la data delle elezioni amministrative e politiche, ormai fortemente volute dagli Stati uniti, gli alienarono l’appoggio americano. Parri temeva di convocare le elezioni in un clima ancora parzialmente condizionato dalla violenza e dalla presenza americana. Quando si decise a fissare la data, la crisi di governo era già iniziata e gli americani avevano già deciso di puntare su De Gasperi.
La prova di ciò fu in quello che Parri chiamò «il coccolezo», la coccola, degli americani al leader democristiano, cioè la restituzione delle province del Nord dopo poche settimane che De Gasperi era diventato presidente del Consiglio. Fu un gesto che non solo legittimò il governo del leader democristiano ma che avrebbe condizionato fortemente la memoria storica di quegli anni.
Parri sarebbe, infatti, passato alla storia come il giacobino intransigente, privo di senso della realtà, smanioso di esperimenti rivoluzionari; De Gasperi, al contrario, come l’uomo della normalizzazione e della pacificazione nazionale.
DAVIDE GRIPPA
Articolo da 1945, l’anno più grande, supplemento speciale del manifesto (acquistalo qui)