Esattamente cos’è una visione? Non proprio quella televisiva di oggi che, oggettivamente, nemmeno più si può definire “catodica” perché la tecnologia è andata oltre sé stessa e oltre ogni immaginazione possibile anche soltanto cinquant’anni fa… Semmai una visione come fenomeno quasi allucinatorio, come proiezione mentale che scavalca il tempo minimo di cui pensiamo di essere protagonisti. Ecco, che cosa vuol dire “vedere” in questo senso? Accorgersi anzitempo ed ante litteram che il mondo, in un giorno lontano, diverrà qualcosa di simile a quello che pensiamo o, invece, leggere già nella concreta realtà che ci riguarda i prodromi del futuro?
Trascurando doti divinatorie et similia, non si può non notare che in molti casi, per chi ha tentato di sfuggire alla prossimità del presente e alla immersione totale nella sola, esclusiva logicità della coevità, il risultato più ingenerosamente garantito è stata l’incomprensione dettata da uno scetticismo maturato sempre e soltanto su una presupponente sapienza empirica. L’esperienza, grande dea del virtuosismo umano nell’elaborazione di nuove teorizzazioni, il dubbio non per il dubbio ma come metodo anzi propriamente scientifico, riduce le potenzialità dell’immaginazione.
Per essere dei visionari bisogna saper, prima di ogni altra cosa, saper unire i dati del presente con le potenzialità che vi si leggono nell’immediato futuro. Uno sforzo immaginifico che ha permesso invece grandi intuizioni e lo sviluppo delle stesse tecnologie alla base di una modernità che, altrimenti, avrebbe tardato (e forse non sarebbe stato poi del tutto un male…) la realizzazione di opere ingegneristiche, astrofisiche e iperuraniche difficilmente pensabili poco prima dello scoppio delle grandi guerre novecentesche.
Ma l’immaginazione è un potente elisir di lunga vita delle idee e prospetta scenari di lungo corso in cui le problematiche del presente finiscono per essere così anacronistiche da diventare parte integrante e quintessenza di un oblio che storna dalla mente soltanto ciò che è divenuto residuale sul piano dei riferimenti tecnologici. Ma, qualche volta, induce – e non proprio inavvertitamente – a tralasciare anche tutta una serie di reti empatiche che riguardano, ad esempio, il rapporto tra noi e i nostri desideri, tra noi e gli altri, tra noi e una natura che soggiace alle logiche di quello che Jules Verne poteva immaginare ma non conoscere ancora come “sviluppismo“.
Verne il sognatore, il navigatore sul Nautilus dell’anarchico Nemo, in volo su palloni aerostatici e treni, navi e altri mezzi di fortuna intorno al mondo con l’eccentrico Phileas Fogg: quando il pianeta si scommetteva di poterlo circumviaggiare in ottanta giorni e nessuno ancora riteneva possibile che quella scommessa sarebbe divenuta ben presto oltrepassata dalla velocità supersonica di un Concorde (la cui storia, peraltro, non è poi così brillante e felice…). Ma anche il Verne che va al centro della Terra, che ci porta sulla Luna e che Gozzano, in occasione della morte del grande scrittore fantascientifico francese, immortalò così:
«Maestro, quanti sogni avventurosi / sognammo sulle trame dei tuoi libri! / La Terra il Mare il Cielo l’Universo / per te, con te, poeta dei prodigi, / varcammo in sogno oltre la Scienza».
Quest’ultimo riferimento all’andare al di là della scientificità può essere letto come una nota di merito o di biasimo, a seconda dei casi e dei critici che si presentano all’uscio della biografia di Verne e del ricordo agiografico del giovane poeta torinese. Ma è indubbio che Verne si pensa e si ripensa nel corso della sua esistenza di scrittore tanto giovanilmente dedito alla teatralità (infruttuosa anche sul piano del riscontro economico) quanto più maturo scopritore della sua vena immaginifica che, per l’appunto, lo porterà al successo mondiale.
Pressoché all’età in cui Gozzano purtroppo morirà (quindi appena trascorsi i trent’anni di vita…), Verne inizia invece la sua carriera letteraria fantastica e fantascientifica anche grazie all’editore Hetzel che crederà nella sua straordinaria capacità creativa e intuirà di trovarsi innanzi ad un genere tutto nuovo. Una scommessa davvero impressionante se si pensa che i tempi di allora (siamo a metà Ottocento) lasciavano pensare ad uno sviluppo industriale di certo di non poco conto, ma chi avrebbe mai potuto lasciar credere che un giorno sotto Parigi si sarebbe sviluppata una metropolitana?
Chi se non Verne? Chi avrebbe potuto disegnare con le parole le fattezze di quello che sarebbe divenuto poi un sottomarino? Sempre e soltanto Verne. Luce elettrica? Comunicazioni diffuse tramite telegrafo ma in arrivo per iscritto? Una precognizione del fax ormai ampiamente superato dalla posta elettronica e dalla messaggeria internettiana e social. Rileggere Jules Verne fa capire quanto oggi, proprio oggi, la velocità con cui si è mosso il progresso (fanta)scientifico si è esponenzializzata al punto da sovvertire la natura delle cose e, più propriamente, quella del pianeta.
Nel 1863 Verne scrive un romanzo che non vedrà la luce della pubblicazione se non centotrent’anni dopo. Lo scoprirà un suo lontano discendente in una cassaforte ben chiusa. Manoscritto con penna d’oca, rigorosamente come tutte le opere di allora, “Parigi nel ventesimo secolo” (Feltrinelli, 2023) è misconosciuto tanto quanto invece andrebbe ri-conosciuto, per restituire al suo autore un po’ di giustizia in termini proprio di considerazione della razionalità non come unico metro di considerazione dell’evoluzione umana. Michel, giovane poeta disincantato e un po’ immaturo, vaga per una capitale francese in preda ai lumi scintillanti di una modernità in cui non si riconosce.
Allucinante qui non è soltanto lo sfavillio dell’industrialismo a tutto tondo che prevarica ogni sentimento, che riduce la passione per le lettere classiche del coprotagonista (perché Parigi gli è al pari e, a ben vedere, lo supera nel titolo stesso dato dall’autore che, infatti non è “Michel nel ventesimo secolo“…): un anticipazione quasi inquietante di Futurismo è presente in quello che, essendo stato scoperto molto, fin troppo postumo, potrebbe sembrare un ripensamento di Verne rispetto a tutto il suo grandissimo filone fantascientifico. Chi vi legge una critica o un ripensamento commette un errore non fosse altro cronologicamente parlando.
Semmai si può discutere sulle premesse del visionario Verne, sui limiti e sugli eccessi del suo trasporto oltre l’Ottocento, in un’epoca (il 1960) in cui Parigi è una capitale in cui conta soltanto la vita produttiva, dove il metrò è sospeso per aria, dove l’elettricità consegna la vita a mille lampioni, macchine di ogni tipo e dove la cultura è alle dipendenze di un progresso automatizzato e profittizzante senza se e senza ma. Quella che Verne descrive con gli occhi onirici del senza-tempo e di una inconsapevolezza preziosa, proprio perché gli permette di immaginare oltre ogni Scienza, è una Parigi in cui non gli sarà permesso vivere.
Quella in cui, invece, è costretto a vivere Michel Dufrénoy è una capitale dell’industria che ingloba, esteriorizza sé stessa al punto da commercializzare e mercificare tutto e tutti, rendendo inutile le passioni per le arti: dalla letteratura latina alla musica. Il romanticismo del coprotagonista è affidato all’etereità dell’inconsistenza: il pragmatismo esige che si nascondano le proprie ispirazioni e che si pieghi alla dura legge della sopravvivenza in un mondo che anestetizza le singolarità e che massifica e rende l’indistinguibilità regola e metro di una squallida e incolore quotidianità.
Lo stupore è tutto di Verne e del suo tempo: pure immaginando e lasciandosi trasportare dal sogno nel sogno, scrivendo nel 1863 un romanzo che si proietta esattamente un secolo dopo, l’autore non regala a Michel o al suo amico Quinsonnas la possibilità di essere degli epifenomeni del presente. Non c’è paratia retrospettiva, intercapedine salvifica che protegga dal confronto con una modernità spietata: i sogni e gli amori devono fare i conti con una società in cui l’arte, come interpretazione del reale, è residuale, quasi fosse un capriccio e non una vena pulsante della vitalità fisica e intellettiva di un essere umano.
Se c’è una critica all’espansionismo capitalistico dell’epoca, è in un certo qual modo dissimulata dalla fascinazione che comunque Verne prova per il progresso. Non così tanto da sacrificarvi sentimenti ed emozioni, vita privata propria e dei suoi protagonisti di entusiasmanti avventure per cielo, per terra e per mare; ma abbastanza per essere indotto a non credere, sulla scia della bocciatura del suo editore, ad un romanzo che non ha lo stile quasi cinematografico dei suoi capolavori (sempre ante litteram parlando…). La prosa è un po’ schematicamente asciutta, ma non manca di portare il lettore a spasso per la protagonista: Parigi.
Michel e pochi altri si dimenano in un reticolo di problematiche che sono anche quelle della sopravvivenza materiale, ma che, forse, prima di tutto, sono esistenziali: c’è posto per l’artista nella società dell’industria e della riduzione della cultura a niente più se non merce? Differentemente dal giovane poeta innamorato di Lucy (il nome non è certamente scelto a caso, visto che richiama la “luce” che domina nella capitale francese), Verne farà i conti con il pragmatismo di una modernità che gli lascerà intendere come la merceologizzazione sia inevitabile nello sviluppo capitalistico incedente.
Ma i romanzi del maturo Jules saranno improntati comunque ad una eccentricità misurata sulla base di un possibile che, oggettivamente, la scienza (senza esse maiuscola) oltrepasserà facendo ritenere l’impossibile un traguardo non insuperabile. Verne immagina le auto a gas e i viaggi sulla Luna. Senza di lui – scriverà Ray Bradbury – non saremmo forse stati in grado anche soltanto di pensare possibile un viaggio sul nostro satellite. O forse sì, perché la tendenza missilistica quasi postbellica (dopo le V1 e V2 di matrice nazista), esportata negli Stati Uniti a fine conflitto nella persona di Wernher von Braun, lasciava presagire la meta cosmologica.
Leggere Verne oggi non vuol dire stargli avanti miglia e miglia di ultramodernismo che, quindi, lo rendono obsoleto e privo del suo carattere di straordinaria immaginazione visionaria. Se pensiamo questo, domandiamoci: noi cosa siamo in grado, oggi, qui ed ora, di pensare iconicamente come progresso, come futuro? Catastrofi naturali e disequilibri mondiali che ci porteranno alla sterilità e all’annichilimento del regno animale di cui siamo parte? Questo progresso che viviamo (e subiamo) quanto tempo ha ancora davanti a sé? Chissà se Verne oggi avrebbe avuto, se non una risposta, almeno un soggetto per un nuovo romanzo…
PARIGI NEL VENTESIMO SECOLO
JULES VERNE
FELTRINELLI, 2023
€ 11,00
MARCO SFERINI
30 aprile 2025
foto: particolare della copertina del libro
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