Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme

Una delle prime apparizioni sulla scena della Storia dell’umanità da parte del termine “terrore” è, quanto meno ufficialmente, ossia contemplato nei documenti di uno Stato, durante la Rivoluzione francese....

Una delle prime apparizioni sulla scena della Storia dell’umanità da parte del termine “terrore” è, quanto meno ufficialmente, ossia contemplato nei documenti di uno Stato, durante la Rivoluzione francese. Robespierre inaugura una politica “terrorista” non nel senso fin troppo comune cui noi oggi siamo abituati a riferirci, ma affiancando lo stesso alla “virtù” della Repubblica e, quindi, di un popolo che deve essere protetto dalle ingerenze esterne, dalle monarchie che si avventano contro la Francia del riscatto e della perturbazione continentale che si diffonde a macchia d’olio.

Dopo Valmy, i prussiani, gli inglesi, i sardo-piemontesi e altre teste coronate che si sentono direttamente minacciate dagli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, reagiscono armandosi di tutto punto nella prima coalizione contro la Parigi della Convenzione e del Comitato di Salute Pubblica. Il Terrore giacobino è l’ispirazione sostanziale (ed anche istituzionalmente formale) di una concezione sociale e politica del ruolo popolare della rivoluzione. Non l’orrore, ma il terrore, appunto. Una paralisi che si vuole trasfondere in ogni nemico della nuova cittadinanza, della nuova umanità.

Per quanto la desinenza dei due termini sia uguale, la radice non è la stessa: ed infatti marcata risulta essere anche la loro traduzione pratica nella Storia di cui si è fatto cenno fino ad ora. Il Terrore rivoluzionario è certamente violenza, ma non cieca. Il Terrore robespierrista è spietato e, soltanto nell’ultimissimo periodo, finisce col colpire indiscriminatamente perché colto dalla disperazione dell’impossibilità di dirigere la Rivoluzione verso una evoluzione propriamente sociale: invece trionfa il moderatismo borghese in una stagnante compromissione che spegne il fervore del cambiamento radicale.

Si sono cimentati in tanti ad equiparare terrore ed orrore, al di qua e al di là dello specifico grande momento rivoluzionario francese. Una similitudine impossibile, anche se la tentazione permane, perché la saldatura che viene tentata è quella permessa dalla condivisione della paura incontrollata che si prende l’animo umano, che deflagra nelle menti, che consente alla politica di essere piena demagogia e strumentalizzare così le peggiori fobie crescenti in un dato istante della vita di un popolo, di una nazione, di un insieme di relazioni anche internazionali.

Nel suo saggio “Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme” (Castelvecchi, 2022), la professoressa Adriana Cavarero (presidente dell’Hannah Arendt Center for Political Studies presso l’ateneo di Verona) si muove con grande abilità storica, analitica e filosofica tra i due concetti appena citati: terrore ed orrore. La moderna espressione del secondo è, proprio negli ultimi trent’anni, figlia di una diffusione del terrore non come elemento squisitamente politico nella gestione amministrativa di uno Stato rivoluzionario, ma semmai come rinnovamento di un concetto che oltrepassa la sua declinazione passata per divenire sinonimo di orrore ed essere, quindi, inaccostabile a qualunque ipotetica modernissima virtù.

Il terrorismo novecentesco, nello specifico quello iniziato a conoscere poco prime e poi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è sinonimo di guerra, di organizzazione della violenza contro uno Stato, ma pure della violenza “di Stato” contro un popolo. Anche contro il proprio, contro quanto meno una parte di esso. Prima della fine della guerra contro il nazifascismo, il Terzo Reich ne è la rappresentazione drammaticamente per antonomasia. Il regime di Hitler è terrorista perché si impone totalitariamente, non lasciando spazio a nessuna libertà che non rientri entro i cardini del nazionalsocialismo. La Germania è nazificata e al di fuori di questo perimetro c’è solo il baratro.

La vita prosegue ma è recintata da un filo spinato invisibile che, tuttavia, viene percepito come limite invalicabile. L’orrore lo si scoprirà soltanto dodici anni dopo l’ascesa al cancellierato del piccolo caporale austriaco. I cancelli di Auschwitz si apriranno sulla lagerizzazione dell’inesistibile disumanità che pure c’è, che si tenterà di nascondere al mondo e che apparirà in tutta la sua ferocia proprio perché terrore ed orrore vi saranno lì simbiotizzati alla massima potenza, esponenzializzati senza alcuna pietà.

Scrive Adriana Cavarero: «La violenza dell’orrore colpisce sempre qualcuno, abbattendosi sugli esseri umani a uno a uno, e le vittime delle stragi sono sempre creature singolari, con un volto, un nome e una storia». Spesso ce ne dimentichiamo: perché gli olocausti sono correlabili con una massificazione tale dell’orrore (e del terrore preventivamente vissuto nella quotidianità di una vita divenuta sempre più invivibile) da far scordare che i numeri milionari delle vittime sono composti da singole unità e che Anne Frank è sempre l’altra ragazza che si incontra accanto a lei, nel lager vicino a Bergen-Belsen come in quello più lontano.

La sistematicità ragionieristica della preparazione della “soluzione finale del problema ebraico” è una delle forme irrituali in cui l’orrore si concretizza e diviene strutturale ad un progetto di ridefinizione anche economica e, paradossalmente, sociale di uno Stato in sé stesso, entro confini certamente allargati in cui sono inclusi altri territori assoggettati che vivono, prima del cancello del lager, tutto il terrore possibile. Contro cosa, contro chi si dirige l’orrore? Contro la “vulnerabilità“, aprendo ferite ataviche e infliggendone nuove con la sferza di un potere che non consente di aprire nessuna finestra di confronto.

L’essere umano viene individuato come obiettivo e colpito. La violenza che vi si esprime e che lo atterra deve – scrive e sottolinea Cavarero – essere osservata, per essere compiutamente compresa, dal punto di vista delle vittime. Perché solo in questo modo si riesce a capovolgere una narrazione dell’orrore come strumento quasi catartico del terrorismo moderno di uno Stato come la Germania di Hitler o di organizzazioni paramilitari più recenti, nonché dei cosiddetti “gruppi” come Al Qaeda, lo Stato Islamico e tutti i loro derivati deviati e devianti.

Il termine utilizzato nel titolo del saggio, “orrorismo“, potrebbe anche sembrare un neologismo (e forse in parte lo è), ma non è la prima volta che viene utilizzato per significare la potenzialità dell’orrore medesimo unito al terrore come stato psico-fisico permanente di un individuo o di una comunità che si prefigura lo scenario successivo alla stretta attualità deformata in cui è stato fatto precipitare. L’orrorismo è, quindi, la cristallina successione di una serie di attimi interminabili che formano giorni altrettanto tali in cui le vittime conoscono una violenza senza soluzione di continuità. Uno stato di alterazione insostenibile della sopravvivenza, perché il terrore lo precede ma lo include, impalmandovisi.

Il terrore, tuttavia, per quanto possa essere condiviso con l’orrore, vi si discosta anche nell’essere propriamente percepito dall’essere umano: nel terrore si trema, ci si dimena per provare a venirne fuori e a rasserenarsi in qualche modo. È una condizione emotiva che può avere un risvolto anche psicosomatico (pensiamo alla tortura come mezzo di estorsione di un segreto che riguarda organizzazioni, partiti, movimenti di opposizione ai regimi di turno). Orrore invece «denota principalmente uno stato di paralisi che trova rafforzamento nell’impietrirsi di chi si agghiaccia». Il terrore, quindi, è ancora nella fase della mobilità sensoriale dell’individuo che ha una capacità reattiva. L’orrore pietrifica.

Come non ascoltare l’antica eco del mito delle Gorgoni e, nello specifico, di Medusa? Come non ricordare Medea e la sua spietata crudeltà di madre che diviene matricida? Come non fare anche un po’ la storia della violenza contro quegli “inermi” che sono citati nel sottotitolo del saggio di Cavarero? Inermità e vulnerabilità sono il primo segno di riconoscimento per l’orrorismo che individuano dove e anche come colpire. Se riprendiamo la grande deportazione di massa degli ebrei, dei detenuti politici, degli omosessuali, di rom e sinti, degli asociali e dei Testimoni di Geova e di tutte e tutti coloro che l’hitlerismo considera esseri inferiori, indegni di vivere nella nuova Germania nazista, torna alla mente una frase-definizione di Primo Levi che si attaglia perfettamente all’orrorismo: “la sensazione paralizzante di esser totalmente inermi e in mano alla sorte“.

L’impossibilità di controllare anche in minima parte la propria esistenza, di essere prigionieri di un potere, di una volontà che decide in tutto e per tutto della sorte attuale e ultima, sfuggendo a qualunque etica, a qualunque riferimento sociale a qualunque regola data tanto dalla tradizione e dalle convenzioni, quanto dal diritto positivo. Adriana Cavarero ci conduce in una storia dell’orrorismo che è, sostanzialmente, una realizzazione ontologica della sua presenza nella Storia, nell’umanità in quanto tale che è costretta a fare i conti con una violenza autoprodotta, autoinflitta e irrimediabilmente quasi congenita.

Si riscontra quindi piuttosto evidentemente come l’animalità sociale (e la socialità animale) che ci caratterizza sia un discrimine ineludibile per quanto riguarda tanto i rapporti di fratellanza (diciamo così…) universale, come quelli che invece contemplano il terrore, l’orrore e la pratica dell’orrorismo. Pratica. Perché è una scelta e non una predestinazione atavica. Una induzione data dalla sovraintendenza del potere sul potere stesso: della maggioranza sulla minoranza, dell’uguale sul diverso, del capitale sul lavoro, del forte sul debole. Una dialettica degli opposti in cui il mezzo dell’orrorificazione degli eventi è utile come conseguenza del terrore disciplinare.

Se ti comporti come non si deve, ne subirai quindi le atroci conseguenze. Troppo spesso la Storia ha guardato tutto ciò dal punto di osservazione degli orroristi e molto poco da quello delle vittime, dei vulnerabili, degli indifesi. Gli indifendibili, i tiranni, i totalitarismi, le dittature militari, i terroristi di nuovissimo modello sono stati messi sotto la luce dell’ingrandimento antro-socio-politologico. I popoli anche, ma sono stati trascurati i singoli. Il recupero della dimensione umana dell’orrore dovrebbe quindi partire dalla intima, nostra interpretazione dello stesso. Sentirlo nella nostra mente, viverlo sulla nostra pelle.

Soprattutto quando non c’è questo pericolo, quando riteniamo di essere al sicuro in regimi democratici (o presuntamente tali) in cui la divisione del potere garantisce un minimo di equilibrio e allontana la prevalenza degli uni sugli altri. Sarebbe un buon esercizio civicamente individuale ma non esclusivo ed escludente: anzi, un punto di partenza per una concezione sociale di nuovo stampo. Un po’ evangelistica: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Per capire il ruolo della violenza sull’inerme si può, forse si deve, partire anche da qui.

ORRORISMO. OVVERO DELLA VIOLENZA SULL’INERME
ADRIANA CAVARERO
CASTELVECCHI, 2022
€ 20,00

MARCO SFERINI

22 gennaio 2025

foto: particolare della copertina del libro


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