Giambattista Vico ha proposto al dibattito storico e filosofico del suo tempo, nonché al più vasto mondo della cultura propriamente detta, una visione “creatrice” dell’esperienza umana su questa terra, della sua essenza continuamente rigenerata dalla dialettica delle esperienze e, quindi, della Storia stessa in quanto sintesi di tutte le intersecazioni quotidiane che agiscono nelle nostre vite e che, pertanto, sono le nostre esistenze medesime.
Il passaggio necessariamente empirico, mediante il quale sono osservate le dinamiche dello sviluppo umano nel complesso disomogeneo (eppure molto organino, “naturalmente” parlando…) del mondo e dell’universo, ha lasciato intendere – senza approsimazione alcuna – che lo scientismo di Vico fosse stato ereditato da una più moderna, fine-ottocentesca corrente positivista che, non solo in Francia, a partire dalla metà del XIX secolo andava geremiando così: «L’amore per principio, l’ordine per fondamento, il progresso per fine».
Di questi tre assunti, a Francesco De Sanctis, erede di uno storicismo vichiano e di un tratto simile nell’hegelismo, avrebbe condiviso forse il secondo, parte centrale di una teorizzazione della stabilità affidata ad una sorta di conservatorismo illuminato ma non troppo. I Lumi sono, per l’esponente accademico più illustre della borghesia “di sinistra” dell’ancora piccolo Regno d’Italia, nella fase della sua adolescenza politica, istituzionale ed anche socio-economica, un sinonimo di disgregazione statuale, collettiva.
Così, se da Vico riprende l’interesse per una progressione attuale mediante le fondamenta propriamente “storiche” del recente passato (oggi si direbbe “della tradizione giudaico-cristiana“, inventata per dare una qualche ragione di esistenza ad un occidentalismo invecchiato su sé stesso e rattrapito dentro la cornice asfittica dell’Unione Europea), pur senza rendersene conto si fa carico, nel dare alla conoscenza un ruolo di stabilizzazione delle coscienze e dello status quo, di un parte piuttosto conservatrice del positivismo.
Sono proprio i cominciamenti, gli inizi, le prefazioni e i discorsi di apertura solenni e inauguranti, ad esempio, gli anni accademici, che per De Sanctis rappresentano una indolenza peninsulare italiana a magnificarsi senza poi riuscire a portare a termine un progetto di rafforzamento di tutto ciò che rappresenta la “scienza” come “conoscenza” e, quindi, come fattore determinante per l’evoluzione sociale, civile, etica e culturale di un popolo italiano che è ancora in fase di compattamento e amalgama.
Le fragilità del rivoluzionamento culturale illuministico gli sembrano evidenti di fronte all’analisi storica del ciclo che va dal 1789 fino al 1815. La Restaurazione è, per quanto odiosa possa essere sul piano ideologico e meramente politico, un ritorno alle certezze che erano state scardinate e un rimettere sui binari propri della Storia quelle sicurezze che erano divenute osbolescenze da superare con innovazioni, anche all’epoca, incomprensibili. Il ministro dell’istruzione non è un nemico del progresso.
Ma appare, nella lettura dei suoi scritti, e soprattutto dei suoi discorsi tenuti davanti a consessi di docenti e di allievi universitari, piuttosto scettico nell’affermazione di una scienza totalizzante o, comunque, posta sull’altare di un dogmatismo impenetrabile: per cui ogni futuro momento evolutivo è contemplabile solamente attraverso quel viatico e ogni stimolazione logica è concepibile esclusivamente se rientra in quello che lui soffre come un “passaggio obbligato“.
In alcuni suoi appunti, annota: «La libertà senza limite è una semplice e sterile fermentazione senza scopo e senza mezzi, è il caos. Libertà con limite è la creazione, è l’organismo». Là dove è scritto “limite” leggasi: scopo, fine, intenzione che si concretizza e si fa realtà. Nel farsi tale, però, è per De Sanctis oggettivo il fatto che non vi è soluzione all’esistente, ma che lo scopo è pur sempre parziale, monco, privo di una capacità tuttologica che risolva i problemi che sottoponiamo alla scienza e, quindi, alla nostra capacità conoscitiva applicata.
Come è abbastanza evidente, sarebbe ingeneroso affibiargli l’etichetta di un conservatorismo borghese che, invece, tentò per gran parte della sua vita di scansare prima e di governare poi per limitarne i danni più pericolosi dagli scranni di governo. Tuttavia, nel solco profondo della Storia umana – di cui la sua grande opera “Storia della letteratura italiana” è un capolavoro di interpretazione – la vita è incasellata da De Sanctis in una “educazione politica” che riprende i pilastri di un organicismo entro i cardini borghesi.
In fondo, non vi è contraddizione tra il suo giovanile mazzinianesimo ribelle e impudente nei confronti del monarchismo e della causa liberal-conservatrice di allora e la statalizzazione di tutta una serie di interventi che il ministro dell’istruzione caldeggia nel momento in cui dà alla scienza una missione: non essere causa del disordine francese che dalla Rivoluzione lui fa scendere progressivamente fino alla sconfitta di Sedan, elogiando la compattezza teutonica prussiana nel comprendere i tempi presenti.
Bensì essere la portatrice di una riconversione moderna delle antiche strutture e sovrastrutture (usiamo noi le categorie marxiane per meglio descrivere questi passaggi, ma non sono proprie di De Sanctis…) in un presente in cui un pensiero laico (e quindi statale) contenda all’egemonia clericale cattolica quella che viene definita pedagogicamente (e anche un po’ antropologicamente) l'”educazione nazionale“.
Il fardello dello Stato della Chiesa è l’epifenomeno di un bimillenario passato che è difficile scrollarsi d’addosso tutto d’un colpo. Missione della scienza, quindi, è porsi degli obiettivi che siano raggiunti. Non iniziare per non finire. Sarà, questo, un pensiero costante nella storiografia anche letteraria di De Sanctis: portare a termine un fine tramite un lavoro collettivo che sia, per l’appunto, il frutto di una rinascita di quella che si inizia a chiamare “patria” o “nazione“.
Le contraddizioni storiche dell’Italia gli si mostrano in una palesissima evidenza nel momento in cui le nuove classi dirigenti si affanno a prendere posto al potere e non a gestire invece le grandi problematiche sociali. Il timore che gli uomini colti degradino fino al più basso dei livelli, trascinando il Paese in una sterilità che gli impedirebbe di avere davanti a sé una prospettiva di esistenza degna di questo nome, fa il paio con il grande analfabetismo quasi “funzionale“, come se si trattasse non di un impedimento risolvibile, ma di una vera e propria patologia antisociale.
Ecco che, per lui, la conoscenza e l’evoluzione divengono un tutt’uno in una “scienza vivente“, che non è altro dall’esistenza, ma che la uniforma e la compenetra, che cerca non di dominarla ma di essere (in quanto tale) in simbiosi tanto con l’atonia o la monotonia della ripetitività quotidiana della vita molto poco faticosa delle alte sfere e della classi sociali più agiate quanto con la frenesia della disperazione del proletariato di fine Ottocento.
C’è, alla fine di una analisi della cultura italiana, che è inscindibilmente anche studio del comportamento popolare e del potere in un dualismo sovente conflittuale, la premessa per la fondazione di uno “spirito nuovo” che sovraintenda ad un riordinamento sociale, ad una riorganizzazione tanto istituzionale quanto emotivamente empatica nei confronti di uno Stato percepito ancora come troppo infantile per poter essere credibile.
Dalle ceneri delle vecchie divisioni peninsulari è venuto alla luce un regnucolo annessionista che, proprio perché nato sulle spinte di moti molto differenti fra loro, stenta a darsi una ragione d’essere. Neoguelfismo giobertiano, liberalismo monarchico cavouriano, federalismo cattaneista, mazzinianesimo repubblicano unitario, garibaldina rivoluzione italiana a metà tra anticlericalismo e para-socialismo, la minaccia di una ingloriosa fine alla Sedan è per De Sanctis lo spettro che si aggira nei suoi testi, nelle sue intime confessioni.
La sua “scienza” che vive, dunque, è una pulsione tanto individuale quanto collettiva, un recupero di una condivisione di massa di un sentimento culturale che non può prescindere da una adeguata aspirazione sociale per tutte e per tutti: potremmo definirlo un liberalismo di sinistra dell’epoca. Ma le etichette, per quanto possano accostarsi ad una anche veritiera esposizione dell’essenza prima dei fenomeni, finiscono se non altro per essere travisate: incosapevolmente o volutamente.
Se una fisiognomica conservatrice è possibile da ravvisare nell’opera di De Sanctis, e quindi naturalmente in lui per primo, questa fa riferimento alla ripetuta ossessione per un funzionamento quasi perfetto dello Stato, dove tutto deve essere sotto controllo, dove i rischi vanno ridotti al minimo indispensabile e dove i fantasmi tanto delle rivoluzioni quanto delle restaurazioni si allontanino, quindi, senza indugiare. Questo è il suo terminare bene, piuttosto che il bene cominciare.
Questo è, in fondo, un tentativo di compromesso che non concepisce la Storia come lotta fra le classi sociali, ma come dinamica interclassista, in cui le differenze economiche sono non ragione prima delle sollevazioni popolari, ma una sorta di effetto collaterale gestibile dal borghesismo imperante. Indubbiamente c’è un intento anche moralizzatore: secondo, si capisce, la morale dominante. Quella della classe padronale insieme all’aristocrazia italiana che si sta piuttosto velocemente (gattopardescamente) adattando all’evolversi dei tempi.
In questo quadro più preciso, De Sanctis è un preservatore più che un conservatore. Un reazionario? Può essere. Ma dipende dai punti di vista politici più che filosofici e storici. Rimane il fatto che la sua critica della scienza e della conoscenza ci serve per dare posto alle stesse in una Italia e in un’Europa in piena rivoluzione capitalistica. Anche se al nostro ministro dell’istruzione interessa il problema di una “educazione” che sia la chiave di volta del divario esistente tra la retrività del passato e i pericolosi, scientifici passi nell’immediato futuro.
MARCO SFERINI
29 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria