Non siamo ciò che siamo, perché cinicamente “si può solo dire nulla”

Condannato a terminare la sua esistenza con la cicuta, Socrate lascia in eredità tanto alla sua città quanto alla Grecia nel suo insieme un disorganico insieme di precetti che,...

Condannato a terminare la sua esistenza con la cicuta, Socrate lascia in eredità tanto alla sua città quanto alla Grecia nel suo insieme un disorganico insieme di precetti che, nonostante non fossero mai stati messi per iscritto, ci sono stati tramandati – non senza qualche presupposto apologetico – dai suoi discepoli o, per meglio dire, dai suoi allievi. Nel “Fedone” platonico il “canto dei cigni” è l’ultimo giorno di vita del grande ateniese che viene descritto come un passaggio tutt’altro che tragico per il filosofo.

La consuetudine umana vuole che nessuno si rallegri mai davanti ad un evento che pare luttuoso, che segna un termine e che, quindi, pone prima di tutto la coscienza dell’inesistenza successiva avanti al momento stesso della propria fine in quanto tale. La crudeltà del tempo esistenziale costretto tra due punti ben precisi (nascita e morte) è di per sé una forma di violenza che viene fatta ad una così complessa strutturazione della materia che, dall’inerte, grazie ai processi di trasformazione che le sono insiti, è divenuta capace di consapevolezza.

L’essere vivente, animale umano o animale non umano, possiede, per differenti gradi, la funzione dell’interpretazione del reale che gli deriva dai sensi, dal contatto con la realtà che lo circonda: guarda sé stesso, si percepisce e si confronta con gli altri per avere ancora maggiore percezione di sé stesso; in quel momento, dopo essersi accorto che ha questa peculiarità, si riconosce meglio in sé proprio nel rapporto con l’altro a sé stesso simile (verrebbe da dire “uguale“, ma implicherebbe una serie di ragionamenti filosofici troppo lunghi per affermare la buona fede nell’utilizzo del termine).

Proprio alla morte di Socrate si riferisce la nascita di tutta una serie di “scuole socratiche” che ne ereditarono, più o meno fedelmente, lo spirito innovatore in campo filosofico, sociale, politico e, in senso molto lato, anche antropologico. Non è una esagerazione attribuire al filosofo ateniese l’indagine sull’essere umano in quanto tale: per tutta la sua vita, evitando di rifarsi ai precetti dei precedenti pensatori e delle loro scuole, Socrate tentò di suscitare nei suoi concittadini un amore per la verità, da ricercare continuamente sapendo che l’irraggiungibilità finale era insuperabile.

Nell’ultimo giorno della sua esistenza, ripercorre proprio il suo affidamento al prendersi cura di sé stessi tutt’altro che materialmente, ma spiritualmente: l’essere umano è la sua ψυχή (psyché), la sua anima tutt’altro che religiosamente intesa e, per quanto possa sembrare facile, non confondibile con il concetto di δαιμόνιον (daimonion) più afferente alla coscienza in quanto tale, alla voce interiore che suggerisce come comportarsi. Anche su questi motivi che fanno parte della maieutica socratica, le scuole successive se non si divisero comunque interpretarono.

Nell’interpretazione si può già leggere uno scostamento dal metodo dell’Ateniese: la tendenza, infatti, fu quella di creare, forse molto istintivamente, dei presupposti logici che potessero essere delle verità acquisite come basi di un insegnamento dato e, talvolta, in contrasto con altri, oppure nell’incontro tra differenti approcci all’interpretazione dell’esistente, dell’essere in quanto tale. La mancanza di sistematicità nelle idee di Socrate permise, sostanzialmente, un rilassamento filosofico in questa direzione ed è quindi difficile poter biasimare i suoi allievi per gli scostamenti venutisi a creare.

Del resto, la Storia del pensiero (e la Storia in generale non di meno) ci insegna che è una caratteristica propria dell’istintività umana: cercare e ricercare per riuscire a trovare un senso dell’esistenza che poggi su una verità finita, finale, insuperabile e conoscibile a tutto tondo. Quando più anelato e quanto più anche temuto da Socrate, consapevole che si può solo “non sapere” e che, come avrebbe detto Carmelo Bene, «si può solo dire nulla». Ogni affermazione è un’espressione di volontà e la volontà cade sovente nella presunzione e non ne esce poi così volentieri (altrimenti cesserebbe di essere tale).

Le scuole socratiche minori, poi, oltre a rifarsi al Maestro, non potevano non essere influenzate dai pensieri pre-socratici e anche da quelli coevi che galleggiavano intorno al mondo ellenico e che finivano poi per essere conquistati dalla mole di studi che si producevano in Grecia nei secoli anteriori al IV a.C. Tra questi filoni di elaborazioni concettuali risalta per acume quello del cinismo. Evitiamo di cadere nel grossolano errore di pensare che i cinici di allora fossero uguali ai cinici di oggi.

Nulla a che spartire tra Diogene, Antistene e coloro che, duemila e più anni dopo, avrebbero ereditato questo epiteto per un disinteresse non “naturale” ma proprio in contrasto con tutto ciò che dovrebbe considerarsi tale, puntando quindi ad un insano e crudele egoismo indotto dalla voglia di potere, di accumulazione, di dominio sul resto del mondo. Il cinico disinteresse del mondo ellenico non ha niente a che vedere col cinismo dei nostri tempi cosiddetti “moderni“. Fatta questa puntualizzazione, è bene ricordare che, proprio la scuola cinica parte dall’intellettualismo etico socratico per poi allontanarsene progressivamente.

La conoscenza naturale non è poi – al pari di Socrate – disprezzata dai cinici: è la teorizzazione che proprio non viene considerata come un qualcosa di utile o, se vogliamo essere più precisi, di consono all’essere cosciente per puntare ad una qualche forma di conoscibilità dell’essere, dell’esistere, di ciò che siamo e di ciò in cui ci troviamo. Se l’Ateniese aveva provato a formulare l'”universalità” del concetto, i cinici proprio non ritengono possibile che vi si possa anche solo lontanamente sperare.

Qui, come è facile intuire, ci si accosta sempre di più ad uno scetticismo ante litteram, ad una premessa filosofica che è determinante per un collegamento con i sofisti che ritengono possibile la conoscenza soltanto mediante la sensibilità, la sensazione, il contatto diretto con la naturalità dell’esistente. Non hanno tutti i torti e, forse, è possibile comprendere meglio questa attitudine cinico-sofistica se ci si ferma un secondo a pensare al fatto che, partendo da noi stessi, ed estendendo ovviamente questa considerazione ad ogni cosa conosciuta, siamo sempre noi e solo noi ad aver categorizzato tutti e tutto.

Proviamo ad immaginarci privi di nomi, non solo anagraficamente parlando. Pensiamoci senza definirci e senza definire nulla. Per cui l’uomo non è più uomo, il tavolo non è più tavolo, l’Universo stesso non solo per la sua maiuscola, ma il nome che gli abbiamo attribuito. L’esistente non è nemmeno più tale, ed è in quanto tale. Se facciamo questo sforzo anti-concettuale, pare abbastanza ovvio che entriamo nella contraddizione del poterlo fare grazie alla concettualità, alle parole che qui vengono scritte e che, in un certo senso, dovrebbero annullare sé stesse.

Ma, differentemente dal pensare con categorie prive di schemi e di confini, come l'”infinito” (che è pur sempre in correlazione col “finito“), possiamo tentare, pur conservando la capacità di pensare attraverso le categorie, di riflettere sul fatto che di per sé nulla ha un nome ed è quello che noi pensiamo che possa essere. Intendiamoci, la pietra rimane una pietra, ma lo è prescindendo dal nome che le abbiamo dato e dal ruolo che ha per noi in quanto tale. Quindi, se Socrate tenta disperatamente di universalizzare un concetto, i cinici e i sofisti affermano che ciò è letteralmente impossibile.

E questo proprio perché non c’è conoscibilità mediante la definizione delle cose, delle persone, dell’esistente. Non possiamo dire di conoscere meglio l’essenza della pietra soltanto perché la chiamiamo così. Questo presupposto vale per qualunque cosa che noi chiamo “cosa“. La nostra autocoscienza ci induce a cercare di comprendere noi stessi e il resto da noi. Ma non è affatto detto – ed è infatti è proprio così – che ciò che esiste sia ciò che noi definiamo come tale.

Indubbiamente non potremmo sopportare una vita “anonima” in un esistente altrettanto tale. Abbiamo bisogno di stabilire delle relazioni tra noi e il mondo, con gli altri simili e dissimili, con quell’impenetrabile, inconoscibile mistero che è l’esistenza dell’Universo. L’universalità del concetto è ammissibile solo nella sua parzialità umana: per cui per tutti una sedia è una sedia, ma, ad esempio, traducibile in cento e più lingue differenti. Il linguaggio è una porta sul mondo, ma è anche un limite di cui dobbiamo essere consci.

Ogni cosa – sintetizza molto bene Emilio Paolo Lamanna – è, nella sua intrinsecità e individualità sé stessa, ha una sua oggettiva essenza, ma non per questo è, quindi, ciò che noi diciamo sia. L’asteroide esiste in quanto tale: non sa di essere un asteroide e non si chiama neppure così al di fuori dell’interpretazione umana dell’esistente. Dunque, noi possiamo dare un nome ad ogni cosa, ma possiamo quindi ritenere di poterla “definire“? Evidentemente no. Ogni definizione è umana e appartiene alla conoscibilità sensibile dell’essere umano. Non ad altro.

Più semplice della conoscibilità dell’esistente e di ogni sua sfaccettatura, è semmai, per i cinici, la comprensibilità della virtù come unico, vero bene. Intesa in quanto proprietà personale in quanto caratteristica immateriale di una naturalità che ci è intrinseca e che si scontra con quei presunti valori che anche Socrate biasimava come linee guida della vita singolare e comune al tempo stesso: la conoscenza è semmai associata ai valori dell’animo e non a quelli materiali del corpo.

Qui non si tratta di mettere in contrapposizioni il disprezzo per la conoscenza in quanto impossibile da sintetizzare nell’universalità dei concetti: la virtù interiore non obbedisce alla logicità, ma ad una volontà involontaria, ad un istintività che semplifica l’esistenza e non la sottopone alla schiavitù di bisogni effimeri e fittizi. Ecco da dove, probabilmente, deriva la perversione del cinismo, tramutato in scostante indifferenza verso tutto e tutti, verso l’esistente e verso ogni forma di coinvolgimento empatico per le sofferenze di ogni tipo.

Come abbiamo potuto scorgere, in questa breve disamina, non è così. Il cinico è un socratico che ha stabilito una linea di interpretazione dell’esistente; forse ha pure tentato di arrivare alla verità dell’inverosimile, dell’impossibilità a stabilire qualunque verità: lo ha fatto negando la conoscibilità dell’essere mediante la concettualità, la parola, la scrittura e, quindi, l’intersezione delle tante logicità che ci siamo dati nel tempo. Il cinico rimane tanto vicino quanto lontano da Socrate in un pseudo-para-equilibrio altalenante che si regge sul vuoto che appare pieno.

Non si tratta di giochetti di parole, per quanto possano sembralo. Vige non la regola, ma la constatazione che la contraddittorietà è tipica del raffronto tra noi e il resto dell’esistente. Per questo “si può solo dire nulla“, perché non siamo pur essendo, perché pensiamo di essere noi stessi ma siamo vissuti da miliardi di pensieri e concetti ogni giorno che forse ci fanno credere di avere una personalità, ma in realtà siamo continuamente altro da quel “noi stessi” che pretendiamo di essere.

L’essenza in quanto tale è una chimera. Tuttavia esistiamo, ci riconosciamo in noi e sappiamo come ci chiamiamo. Dovremmo solo avere la bontà di non convincercene troppo.

MARCO SFERINI

6 luglio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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