Giorni fa mi trovavo per le vie cittadine e stavo andando a prendere la moto per recarmi al lavoro. Passo accanto ad un locale dove sono seduti tre ragazzini: il più piccolo avrà avuto sette, otto anni; il più grande una decina d’anni. Stanno mangiando una pizza e parlano tra loro. Poi due su tre si mettono a cantare a squarciagola: «Faccetta nera, bell’abbissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina…» e via di seguito…
D’istinto mi giro, dato che li avevo appena superati nel mio camminare, e dico loro: «Magari un’altra canzone sarebbe meglio… no?». Per tutta risposta mi apostrofano decisi: «No! Che cos’hai contro “Faccetta nera“?». Freno gli impulsi… So’ sempre dei ragazzini… Almeno così parrebbe…: «Tutto! E anche di più. E voi vi dovreste un po’ vergognare a cantarla». Mi deridono e sghignazzano. Passo avanti e li lascio alla loro pizza.
Poi, inevitabilmente, penso a quanto accaduto: sapevano cosa cantavano? Forse sì, forse no. Forse un poco sì, forse un poco no. Se lo sapevano, peggio mi sento. Se non lo sapevano tanto meglio non mi sento nemmeno, perché vuol dire che l’hanno ascoltata o a casa o su Internet o tra amici di scuola… Sarà un caso, sarà una coincidenza tra il tempo meloniamo in cui viviamo e questi piccoli, modesti eppure laceranti episodi, ma non avevano mai sentito in vita mia (oltre mezzo secolo) dei ragazzini cantare un inno fascista.
Il clima è cambiato – mi dico – e quindi l’hanno certamente sentita. Ma la ripetono, sapendo che quel cantarla a voce alta è un atto quanto meno irriverente. Sanno che stanno facendo qualcosa di “dispettoso“, per leggerlo con il linguaggio comportamentale dei bambini e dei ragazzi. Quindi non è detto che poi sia così grave. Eppure, mentre macino un po’ di chilomentri in moto, mi ripeto tutto questo e sono sempre meno convinto che sia solo una mascalzonata, una sciocchezza, una inezia.
Se, del resto, nelle scuole si fa entrare il militarismo, il patriottismo neonazionalista, l’idea che prima vengono gli italiani e poi tutti gli altri italiani che, pur vivendo qui da decenni, non hanno diritto ad essere cittadini della Repubblica, è normale che si diffonda il culto suprematista della nazione, dell’Italia a tutto tondo che non risponde al criterio di uguaglianza, solidarietà, ai diritti civili, sociali ed umani: ma soltanto all’identità.
Sei ciò che appari e non ciò che veramente sei. Sei italiano se sei bianco, se – come ha detto Crozza in tv – parli magari malissimo la tua madrelingua, se evadi soprattutto il fisco e quindi penalizzi il tuo Paese. Sei italiano tu e non il migrante che vive da dieci anni qui, i cui figli parlano molto meglio la lingua del Padre Dante di noi, ma che hanno il torto di avere la pelle scura, nera, ambrata o gli occhi a mandorla.
Chi può dire quanto sia stato corroso l’insieme degli anticorpi sociali, civili e culturali di una Italia che andava fiera della sua incerta democrazia e che, nel bene e nel male, riusciva a difendersi da tentativi di autoritarismo più o meno a buon mercato, ispirati dall’altra parte dell’Atlantico nel nome dell’anticomunismo più viscerale? Davvero possiamo affermare che, viste tutte queste considerazioni ed esperienze dirette, a partire dalle legislazioni repressive, dal diffondersi dell’omofobia e del razzismo, tutti i governi sono uguali?
Possiamo davvero produrci in quella clamorosa sciocchezza che è la totale equiparazione tra centrodestra e centrosinistra? Eh certo che le somiglianze, almeno fino a qualche recente tempo fa, erano molte sul piano delle politiche economiche. Eh certo anche che leggi come il Jobs Act sono state il prodotto di governi pseudo-progressisti. Ma, per l’appunto, “pseudo“. Per fortuna i rapporti di forza interni ai partiti e alla società mutano: la Storia e l’attualità sono un divenire costante, un avvicendarsi di contraddizioni che determinano nuove probabilità.
Invece, per certi indefessi comunisti tutti d’un pezzo, non c’è alcuna differenze tra Cinquestelle, PD, Alleanza Verdi e Sinistra da un lato e Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia dall’altro. Come si possa essere così miopi è quasi un mistero, dal sapore però eleusino, una sorta di investitura dogmatica in un al di qua possibilmente rivoluzionario soltanto se oltre la logica (nefasta) del bipolarismo, dell’alternanza dei poli. Qui bisogna esattamente inserirsi e provare a condizionare tanto i temi dibattuti nei programmi politici quanto i perimetri degli accordi (diversi dallo spirito delle “alleanze“).
Il PD è responsabile anzitutto di sé stesso: nasce come compromesso tra due culture riformiste e riformatrici e, quindi, non ci poteva aspettare già dal 2007, all’atto della sua comparsa sullas scena politica, una impostazione nettamente e risolutamente solo progressista. Il frutto di una commistione tra popolarismo (ex)democristiano e socialdemocrazia (ex comunista) non poteva non avere un risvolto sincretico tra taglio sociale e taglio liberale. Questo nella migliore delle ipotesi che era possibile fare allora.
Col senno di poi, si comprende bene perché abbia rischiato la “centrizzazione” totale con il renzismo. Ma nulla è immarcescibile; niente è imperituro. Quindi, nella trasmutazione dialettica del tutto e del particolare, anche il PD ha finito con l’essere travolto dalla contraddizione rappresentata da ciò che diceva di voler essere e ciò che, in realtà, praticamente era: un partito in alternanza e non in alternativa al centrodestra. Quello che Bonaccini vorrebbe ancora oggi. Ed infatti le posizioni referendarie chiariscono molto bene questa geopolitica interna al partito di Elly Schlein.
Bonaccini voterà solo un quesito referendario, la segretaria del suo partito tutti e cinque. Per il primo ciò che rimane del Jobs Act deve continuare ad essere, per la seconda invece no. Che si sia aperta una discussione anche verticale tra due (forse anche più) anime del partito è evidente. Ma, invece di leggere tutto questo come una opportunità per una riformulazione del progressismo italiano, di un fronte quindi apertamente tale che si contrapponga efficacemente al pericolo delle destre che governano con un piglio decisamente autoritario, una parte della “sinistra di alternativa” fa spallucce.
Dall’alto della sua completa pervicace ostinazione a destinarsi all’irrilevanza più completa, pregna soltanto della giustezza delle proprie ragioni, la sinistra di alternativa che sogna l’unità dei comunisti nel 2025, mettendo insieme pulviscoli atomici scindibili in molti quark, si rifiuta di dialogare col resto del mondo politico che guarda tanto alla piazza quanto al Parlamento. Si preferisce un “contatto con le masse popolari” che non c’è nella realtà: onestamente io vedo solo molto autocompiacimento per potersi definire “alternativi“. Ma niente di più.
Ammesso e non concesso che questa alternativa (praticata anche da Rifondazione, costretta a questo ruolo dalle contigenze date, oltre che da una assoluta convinzione in buona fede politica) possa trovare uno sbocco utile ai programmi che presenta di volta in volta, rimane una valutazione ottundente che rischia di lasciare intravedere tutte le pochezze di una analisi prospopaica nell’indistinguibilità tra centrodestra e centrosinistra, in una totale, assoluta, completa loro compenetrazione vicendevole.
Se una tale impostazione fosse stata quella del vecchio PCI, la sua storia non sarebbe stata quella di un partito di massa, ma di un ricettacolo di para-avanguardisti del socialismo che, pur con tutta la loro buona fede e la loro passione sincera, si sarebbero condannati ad una vita politica nemmeno di opposizione, ma solo di testimonianza. L’Italia del 2025 ha bisogno di un recupero coscienzioso della coscienza stessa: non si tratta di scendere a compromessi con le altre forze politiche, ma di valutare, di volta in volta, quali sono i punti di contatto su cui innestare delle lotte utili.
Come quella referendaria che si conclude, nella sua campagna, oggi e che, se l’8 e il 9 giugno avrà un responso positivo da parte dell’elettorato, segnerà un passo avanti notevole nel recupero di alcuni diritti importantissimi cancellati anche da chi, oggi, fa un’autocritica e si mette su una via che non possiamo negare sia quella giusta. I semplificazionismi e le etichettature sono una mortificazione dell’intelligenza. Eppure vengono distribuiti a piene mani. Segno che forse serve un aggiornamento culturale nel campo della sinistra di alterantiva.
Una disposizione, in particolar modo, a non considerare il resto del mondo brutto, sporco e cattivo, ma fatto di tante differenti visioni dell’esistente, così da provare, nell’interazione, a migliorare questa vita, a proteggere i più fragili e deboli, ad andare nella necessaria direzione di un nuovo anticapitalismo. Ma, per chi non vuol capire, non c’è spiegazione che possa servire. Ma noi, intanto, andiamo per la nostra strada: difficilissima, ma l’unica su cui vale la pena ripensare il comunismo come “movimento reale” e non come feticcio novecentesco.
MARCO SFERINI
6 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria