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Marco Sferini

No, il fascismo non ha fatto proprio nulla, ma nulla di buono

Scrive Gramsci il 22 giugno 1924 a sua moglie Giulia: «Dai giornali è impossibile farsi un’impressione esatta di ciò che sta avvenendo in Italia […]. Di giorno in giorno, di ora in ora la situazione cambiava, il regime era investito da tutte le parti, il fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il suo isolamento nel panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi gregari». Questa è l’impressione che egli ricava da quell'”esplosione vulcanica” che – più che giustamente – gli pare essere il delitto Matteotti. La detonazione, in effetti, è potente e sappiamo che Mussolini e i suoi scagnozzi si trovarono ad un passo dal crollo rovinoso e dalla fine repentina della loro truculenta avventura politica.

Per un attimo, soltanto per un attimo, l’Italia scopre una vulnerabilità del fascismo: Gramsci la vede in tutto e per tutto e, infatti, alla moglie parla di un crollo anche emotivo di quei «fascisti arcisicuri del proprio potere infinito»; questo perché, benché egli si renda conto di una certa attitudine passiva delle opposizioni, non per indolenza, ma per differenza di vedute proprio riguardo la natura del regime, coglie la possibilità di aprire una breccia nella presunta graniticità del consenso di massa.

L’assassinio di Matteotti, ordinato da Mussolini, porta all’eccesso tutte le contraddizioni fino ad allora irrisolte di un sistema di potere che faceva leva su tre punti di forza: la strutturazione propria mediante il partito-Stato, la monarchia e gli industriali. I comunisti sono, se non gli unici, certamente i  più risoluti nell’affermare in quel frangente che occorre dare una spallata definitiva, contando sul consenso delle masse popolari che, almeno fino ad allora, non sono ancora state in maggioranza sedotte e costrette alla seduzione da una dittatura che, di lì a poco, sarà propriamente tale. Ma l’Aventino fa scemare questa speranza.

L’abbandono dei lavori parlamentari vanifica gli sforzi di Gramsci e costringe ad un confronto con una monarchia in cui le altre forze di opposizione vedono la “via legale e pacifica” per mettere fine alle prepotenze dei fascisti, alle devastazioni, agli omicidi. Il collasso dello Stato liberale si consuma così nella speranza che chi aveva aperto le porte della capitale alle camicie nere potesse, nel giro di breve tempo, e con lo spettro angoscioso delle rivolte proletarie, mettere fine ad una illegalità manifesta cui spettava il privilegio di sedere a Palazzo Chigi e di istruire la politica nazionale dell’Italia postbellica.

Iniziarono così gli anni dell’irregimentazione, della granitificazione del regime che, via via, divenne parte integrante dello Stato, fondendo lo stesso col PNF e creando parallele organizzazioni, tribunali, polizie… Siccome questa nostra Italia non ha mai veramente fatto i conti col proprio passato, con un ventennio in cui tutto era sbagliato, in cui quasi tutto era coercizione, violenza, sopraffazione e punizione, e quindi una generazione almeno è cresciuta aderendo al mito positivo di un regime capace di risollevare le sorti d’Italia dopo la “vittoria mutilata“, oggi tocca fare altri conti, non meno difficili e tutt’altro che risolvibili con il senno di poi.

Tanto che al governo del Paese vi sono gli eredi diretti di quel Movimento Sociale Italiano di esplicita derivazione dell’ultimo fascismo che un po’ tutti considerano quello “cattivo“, come se prima ne vosse esistito uno “buono“. Il delitto Matteotti di cui si è poco sopra fatto cenno era la premessa di una attitudine intrinsecamente violenta di un regime che non lasciava spazio a nessun tipo di chiosa, di critica, di osservazione. C’è chi, sull’onda della tiritera “Mussolini ha fatto anche cose buone“, sostiene, per l’appunto, che dal 1922 al 1938, tutto sommato le cose funzionavano. Poi l’errore fu quello di affiancarsi ai nazisti nella guerra e, di lì la rovina…

Adolf Hitler non ne faceva mistero e ne parlava spesso con la sua cerchia: il Duce era stato il suo maestro, direttamente o meno che fosse. Prima ancora di assurgere al cancellierato del Reich, era proprio all’ex socialista e direttore de “L’Avanti” che il futuro Führer guardava come fulgido esempio di disciplina tanto interna al partito quanto del partito stesso nella società, nello Stato, nel rapporto con i lavoratori così come in quello con gli industriali. Se esiste un esempio di ruffianeria politica allo stato puro, ebbene la si trova esplicitamente nella capacità camaleontica del fascismo di divenire resiliente quel tanto da consentirsi una propaganda sociale da un lato e una affinità al padronato dall’altro.

La politica economica del regime nei confronti del capitale finanziario svelò ben presto le reali intenzioni riguardo quella bugiarda aderenza al corporativismo che avrebbe dovuto, sempre nell’esaltazione mistificatoria mussoliniana, essere la comoda sostituta del sindacalismo e dell’associazionismo operaio. Il fascismo, dunque, come movimento e partito delle masse e del proletariato? Ma nemmeno per idea. Nel 1920 si contavano circa cinquemila società per azioni in Italia. Nel 1937 se ne potevano contare quattro volte tanto. Chi ha studiato approfonditamente la materia storica ci informa che circa la metà di queste SPA erano dedite al commercio e alla speculazione edilizia.

I capitali azionari passarono dall’essere sui 21 miliardi di lire nel 1922 all’essere quasi 50 miliardi di lire sempre nel 1937 citato pocanzi. Ma chi deteneva realmente le redini dell’economia e i cordoni della borsa in Italia era un gruppo ristretto di capitalisti che lo storico russo Slobodskoi elenca con precisione nella sua “Storia del fascismo”: la Montecatini (che controllava ben 38 grandi aziende); la SNIA Viscosa che produceva rayon e cellulosa; la Società italiana strade ferrate meridionali; le acciaierie di Terni; l’Ansaldo di Genova, la FIAT degli Agnelli; la Pirelli del commendator Alberto che era anche amministratore delegato di Edison; la Motta di Milano, che presiedeva la Edison e, ultimo ma non ultimo, Cini con l’ILVA.

Il movimento fascista delle origini, che aveva perseguitato i sindacati nel nome della giustizia sociale e percosso i lavoratori comunisti e socialisti, aveva del tutto abbandonato qualunque velleità sociale e si era rifugiato nell’affarismo più beceramente compromissorio per rimanere alla guida dello Stato, per diventare l’unico punto di riferimento politico per l’industrialismo italiano, per quella borghesia che poi non vedeva così male la repressione delle organizzazioni del proletariato novecentesco nell’Italia del dopoguerra, del dopo Biennio Rosso e del processone ai leader del PCdI. Che cosa di buono potesse aver fatto il fascismo per la gente più derelitta, sfruttata e miseranda ancora oggi tocca sentirlo ma non lo si può scoprire: semplicemente perché niente di buono venne fatto allora e non verrà fatto nemmeno dopo.

Mussolini conta sull’effetto della propaganda come arma di convincimento delle masse: ritiene che siano i risultati tangibili e visibili quelli che contano. Lo dirà del cinema: l’arma più potente. Perché ciò che si vede rimane impresso nelle menti e, in un’epoca in cui le immagini iniziavano a scorrere sempre più velocemente e si diffondevano altrettanto, il Duce intuisce acutamente che può servirsi della sua tracotanza mascolina, del suo fisico, della plasticità angolare dei suoi lineamenti ritratti come una maschera imperterritamente protesa verso l’alto, con lo sguardo dell’alterigia volutamente esibita. Scrive Gramsci: «L’essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della convinzione, anche se essa non si sa più argomentare».

Ed è esattamente qui che il fascismo opera: nelle menti, nei cervelli degli italiani. Li convince del loro destino supremo e aggancia al presente il mito di una romanità che conosceva l’idea di Italia soltanto fin sotto il Rubicone (al di sopra era già Gallia Cisalpina (almeno fino alla riorganizzazione augustea delle province) e richiama più che altro una apologetica dell’impero che si riforma con le conquiste d’Albania, del Mare Nostrum e dell’Africa schiavizzata e represse a suon di mitragliate e con l’avvelenamento dei pozzi per cui a migliaia moriranno durante la campagna di aggressione all’Abissinia condotta da Badoglio. Durante il Ventennio fascista l’arretratezza economica dell’Italia non viene meno. Mussolini non solo non ha la bacchetta magica, ma ha tutta l’intenzione di mantenere nell’agio sé stesso, i gerarchi e il ceto borghese che gli permette di governare.

Ha fatto anche cose buone? Come proteggere i peggiori latifondisti che controllavano vastissimi appezzamenti di terreno, non promuovere alcuna riforma in favore dei contadini, spingere alla mezzadria, dipendente dalle condizioni economiche generali dei grandi proprietari, un numero molto ingente di agricoltori e, così, costringere alla migrazione milioni di italiani del Mezzogiorno. L’Italia fascista è un paese in cui il privilegio di classe, quello padronale, è al sicuro proprio perché ai capitalisti è garantita la piena agibilità nello sfruttamento della forza lavoro. Quando, nonostante Monaco, Mussolini va diritto verso la guerra e non conosce incertezza nell’aggredire la Francia per reclamare un bottino al termine del conflitto lampo, la catastrofe accelera un pauperismo che diverrà endemico.

Mentre il popolo italiano fa la fame tra le bombe e il terrore nazista, i gerarchi e il Duce non hanno gli stessi problemi nel reperire un pezzo di pane che non sia impastato con la paglia… Nonostante la presenza del papa, Roma viene bombardata a San Lorenzo. Nelle notti più buie, in cui gli aerei alleati sganciano i loro ordigni sulle città italiane, gli sgherri mussoliniani banchettano, brindano, ballano, giocano d’azzardo e fanno affari… Sempre e comunque. La guerra è una spietata e cinica avventura che il regime prepara per inorgoglire e arricchire sé stesso e l’industrialismo italiano. Sono i gruppi più reazionari che si giovano della corsa alle armi, convertendo molte produzioni civili in militari.

Né meno né più di quello che accade oggi in tempi di guerre regionali dai riflessi però globali. Il fascismo non ha fatto cose anche cose buone. Da un’ispirazione autoritaria e da un regime dittatoriale, per quanto possa esservi una qualche eccezione in un determinato ambito, non può mai venire nulla, ma proprio nulla di buono.

MARCO SFERINI

25 luglio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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