Netanyahu e la soluzione finale del problema palestinese

Fra il 2007 e l’agosto del 2008 furono quasi una quarantina gli incontri riservati tra Olmert ed Abu Mazen per cercare di definire un piano definitivo di pace e,...

Fra il 2007 e l’agosto del 2008 furono quasi una quarantina gli incontri riservati tra Olmert ed Abu Mazen per cercare di definire un piano definitivo di pace e, quindi, di spartizione del territorio palestinese tra Israele e ANP. Il tutto avrebbe dovuto rappresentare la premessa per una pace duratura e per la costituzione della futura Repubblica palestinese. Visto con gli occhi di oggi, quel piano sarebbe stato, se condiviso tra le parti, una soluzione ottimale per arrivare un giorno ad un perfezionamento degli accordi e, quindi, ad una omogeneità territoriale in Cisgiordania.

La questione di Gaza riguardava, in quel frangente, un punto non certo marginale ma secondario, visto che si trattava di ampliare alcune porzioni di territorio della Striscia, stabilire un sicuro corridoio di passaggio verso la West Bank e permettere agli aiuti umanitari e alle risorse statali di essere a disposizione della popolazione gazawita. Il 2008 è l’anno in cui, oltre alla proposta del “piano Olmert“, si scatenano, in risposta agli attacchi di Hamas verso Israele, anche le operazioni “Inverno caldo” e “Piombo fuso” (quest’ultima tristemente nota per l’impiego da parte di Tsahal delle armi al fosforo bianco).

Il “Piano Olmert” (clicca per ingrandire la mappa)

Olmert propone ad Abu Mazen uno Stato palestinese che include l’intero territorio della Striscia di Gaza, il 93,5% della Cisgiordania (da cui è previsto lo smantellamento degli insediamenti coloniali e la loro evacuazione in Israele), Gerusalemme Est come capitale e, per compensare le annessioni dello Stato ebraico (quindi quel 6,5% mancante della West Bank, essenzialmente riguardante le terre intorno a Gerusalemme Ovest), si impegna alla cessione allo Stato di Palestina del 5,8% di territorio israeliano: una parte a sud della Cisgiordania, una parte intorno alla Striscia.

Se si guarda all’intera storia del conflitto tra Palestina ed Israele, fino ai tragici, orrorifici e genocidiari sviluppi attuali, questa proposta di Olmert, naturalmente col senno di poi, appare di sicuro quella più vantaggiosa mai fatta: anche più di quella di Barak e della successiva spartizione prevista dagli “Accordi di Oslo“. Si tratta di un giudizio piuttosto condiviso dagli storici e dagli analisti: non fosse stato altro che per i numeri in chilometri quadrati e la continuità territoriale che si poteva riscontrare tanto entro la Cisgiordania quanto con lo stabilimento del “passaggio sicuro” all’altezza di Sderot verso Gaza.

Ma alla fine non se ne fece niente. Olmert aveva predisposto anche una campagna politico-mediatica per fare accettare il piano anche alle più oltranziste sioniste frange tanto del suo gabinetto quanto dell’opinione pubblica e, ovviamente, della Knesset: «Israele sarà un poco più piccolo, ma certamente sarà più sicuro». Abu Mazen, inspiegabilmente rimandò così a lungo la firma dell’accordo che tutto finì senza che si arrivasse alla condivisione delle mappe su cui erano tracciati i nuovi confini e alla stesura di un vero e proprio trattato bilaterale. Non se ne saprà mai il perché. Le versioni contrastano e si possono fare soltanto delle ipotesi.

Ma una cosa è abbastanza certa: se allora quel piano fosse stato accettato, di sicuro la vita dei palestinesi oggi sarebbe diversa e, forse, anche Israele non si troverebbe nella condizione di subire, da democrazia mediorientale consolidata, un governo di estremissima destra, apertamente autoritario e imperialista che si propone, con il voto unanime del gabinetto criminale di guerra all’operazione “Carri di Gedeone“, nella sostanza di annettere Gaza allo Stato ebraico e spostare oltre due milioni di palestinesi nel sud della Striscia, a ridosso del confine con l’Egitto in una prigione a cielo aperto ben più tragica di quella subita fino ad oggi.

Come si può chiamare tutto questo se non “genocidio“, “pulizia etnica“? Da mesi a Gaza non entrano aiuti umanitari e, per bocca di fanatici come Smotrich e Gvir, nessun chicco di riso o di grano deve arrivare alla popolazione palestinese. Siamo oltre l’assedio, siamo oltre ogni diritto internazionale ed umano: si affama una intera popolazione per costringerla ad una resa incondizionata che, altrimenti detta, è la precondizione della deportazione finale, di una vera e propria soluzione finale del problema palestinese. Non è lo sterminio sistematico attuato dal Terzo Reich nei confronti del popolo ebraico, ma inizia a somigliarvi.

L’intento e lo scopo sono assolutamente comprendibili nella condotta criminale di una guerra il cui unico scopo è fare piazza pulita, una volta per tutte, dei gazawi, con l’ormai consumato pretesto di distruggere Hamas che, quanto meno all’inizio del conflitto, dopo il 7 ottobre 2023, aveva tutti i suoi più alti dirigenti residenti al di fuori della Striscia di Gaza: dal Qatar allo Yemen, dall’Iran alla Siria. Il redde rationem è dunque stabilito: l’esercito israeliano, i cui comandanti hanno forti perplessità in merito, dovrà ingrossarsi di oltre sessantamila riservisti e penetrare nelle lingua di terra devastata, occuparla e far defluire la popolazione palestinese a sud di Rafah.

Non c’è alcun dubbio: fatte tutte le proporzioni storiche ed attualistiche del caso, la proposta del “piano Olmert“, in quel 2008 che appare davvero tanto lontano, appare ancora oggi l’ultimo tentativo di risoluzione di un conflitto che ha assunto ormai una dimensione tanto esponenziale da risultare quasi impensabile l’ipotesi contrassegnata dal noto slogan: “due popoli, due Stati“. Siamo alla guerra totale (ed anche questa è una definizione del conflitto che rimanda tristemente ad epoche tanto buie per il mondo, per l’Europa e per il popolo ebraico…): Netanyahu, Smotrich e Gvir hanno il sostegno pieno di Trump.

L’idea dell’espulsione dei palestinesi da Gaza per farne un riviera con resort di lusso e trasformala in una sorta di villaggio vacanze per megaricchi e magnati di ogni genere è quasi un obiettivo politico dell’amministrazione autoritaria della Repubblica stellata. Due sono le parole d’ordine di Netanyahu e del suo governo: conquista della Striscia senza se e senza ma e, in stretta correlazione, la deportazione della popolazione palestinese. La ammasseranno, per il momento, a sud di Rafah e poi metteranno in atto tutte le criminali condizioni per costringerla ad espatriare, a lasciare una volta per tutte quella terra.

Cosa rimarrà di Gaza e della sua gente? Macerie, morte, distruzione pressoché ovunque. I cadaveri sepolti sotto tonnellate di cemento, di ferro: un odore mefitico, pestilenziale e l’avvicinarsi sempre più mortifero della carestia che l’ONU denuncia nel completo disinteresse della comunità internazionale. L’Europa balbetta, non ha una voce unica e persino i paesi più risolutamente da sempre dalla parte dei palestinesi (come la Francia), non si esprimono e sembrano essere in attesa delle prossime azioni omicidiarie di massa del governo israeliano. Nel prossimo futuro due cose sono da escludere: la “Riviera Gaza” di Trump e una terra per i palestinesi.

Secondo quanto messo in pratica dal gabinetto di guerra di Netanyahu, la conquista sarà definitiva e le ricolonizzazioni israeliane otterranno lo status precedente allo smantellamento delle stesse da parte di Sharon (oltre che nel nord della Cisgiordania, in Samaria). Fu un ritiro dei coloni segnato da un’asfittica presenza militare intorno ai confini della Striscia che la fece divenire quel campo di prigionia a cielo aperto tante volte citato negli studi, negli editoriali e nelle cronache degli anni passati. Oggi la prigione si restringe ancora, mentre il governo dello Stato ebraico apre altri fronti per dare una sorta di giustificazione alla mobilitazione permanente.

L’Israele della destra supersionista trasforma il Medio Oriente in una polveriera di conflitti interetnici, li alimenta e fa della destabilizzazione il cuore della sua proposta politica, militare e imperiale: le divisioni create e alimentate permetteranno a Tel Aviv di fare la parte del regolatore della situazione, allontanando quindi una serie di minacce dai confini propri e spingendo gli arabi a battersi per dirimere le questioni che concernono la formazione di nuovi regimi come quello siriano.

Ad ispirare questa politica genocidiaria e di vera e propria pulizia etnica è il principio certamente religioso della superiorità del popolo ebraico rispetto a tutti gli altri, in quanto “eletto” da Dio. Ma non va dimenticato l’interesse geopolitico, strategico, di una prospettiva di restaurazione di una “Grande Israele” che si rifaccia anche al Regno di Davide e di Salomone, ma che, più di ogni altra cosa, oggi sia l’avamposto in Medio Oriente di una nuova concezione ipernazionalista unita ad un liberismo a tutto tondo che farà gli interessi anche di nazioni che intendono stabilire rapporti finanziari ad alto livello con lo Stato ebraico.

Il 7 ottobre 2023 Hamas provoca con il suo pogrom la rottura dei “patti di Abramo” e ottiene il risultato di colpire al cuore le relazioni internazionali di Tel Aviv. Per un attimo, alla apparentemente inspiegabile falla sulla sicurezza nazionale, si aggiunge anche una incertezza nell’immediato futuro sulla tenuta di Israele negli equilibri che riguardano tanto l’assetto regionale del Medio Oriente quanto quelli propriamente mondiali. È ancora prematuro pensare ad una fine del conflitto a Gaza: l’operazione “Carri di Gedeone” si preannuncia come una terza fase della guerra. Certamente quella che aumenterà senza sosta alcuna le vittime civile, ridotte pelle ossa e finite nell’inedia più spaventosa o uccisa ancora dalle bombe dell’aviazione e dei proiettili di Tsahal.

Mentre lo sguardo del mondo va al conclave che eleggerà il nuovo pontefice, mentre ci si informa che la papamobile di Francesco, per sua volontà, sarà attrezzata come piccolo presidio di intervento medico per i bimbi di Gaza, nel Territorio occupato palestinese si continuerà a morire e ad aspettare che finisca una guerra in cui gli unici interventi governativi occidentali sono stati tutti a sostegno del militarismo, dell’imperialismo israeliano. Israel Katz, ministro della guerra, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir parlano ipocritamente di “migrazione volontaria” dei palestinesi; ma se si dà anche solo uno sguardo tutt’altro che superficiale alla realtà di Gaza, quale volontà posso dire di avere le donne e gli uomini gazawi?

Dove tutto è morte e distruzione, da Hamas a Israele, non c’è libertà e volontà per il popolo palestinese. Benché si illudano di vivere in uno Stato democratico, anche gli israeliani hanno poco da gioire dalle dichiarazioni e dagli intenti del loro governo. Non verrà fuori da tutto ciò un nuovo periodo di stabilità e sicurezza per lo Stato ebraico che sarà contornato da una ondata di entno-nazionalismi proprio come quello che caratterizza il sionismo moderno interpretato dalla destra dei fanatici suprematisti che lo declinano nel senso più pervicacemente ostile e genocidiario possibile. Facile dire che sarà la Storia a giudicare tutto. Certamente lo farà.

Ma oggi, qui ed ora, i palestinesi muoiono a decine di migliaia: ben presto due milioni e mezzo di loro saranno alla fame più completa, spinti al confine con un mondo che li discrimina, che li vede come un problema. Mentre in Israele – come ha detto e scritto con grande lucidità lo storico israeliano Lee Mordechai – sono percepiti come esseri inferiori, quasi disumanizzati. Un accidente del presente da eliminare e da non ritrovarsi più nel prossimo futuro.

MARCO SFERINI

6 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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