Nato dalla divisione a tavolino del Medio Oriente con l’accordo Sykes-Picot, il Libano era, ed in parte ancora rimane, quello che si potrebbe definire uno “Stato di compromesso” sorto dalle ceneri dell’Impero ottomano, dopo un conflitto mondiale che non aveva, per quanto ne fosse stato di stimolo, risolto la questione nazionale araba. Il crocevia di culture e di culti religiosi, oltre che nella Gerusalemme ultramillenaria, ritrovava proprio nel Paese dei cedri una intersezione ancora più particolareggiata.
Non il destino, ma le precise volontà geopolitiche dei nuovi dominatori della regione a cavallo tra Europa ed Asia, avrebbero stabilito di farne una zona di frontiera e, insieme, la sperimentazione di una convivenza fra popoli che mai era stata tentata prima in seno alla vecchia Porta Sublime. Fare un bilancio di questa esperienza ormai secolare è un azzardo, perché le contraddizioni dei primi decenni del Novecento sono rimaste largamente irrisolte.
Ma, proprio per questo, è piuttosto facile dedurre che, dopo il ritiro ufficiale dei mandati franco-inglesi e la fondazione dei diversi Stati mesopotamico-arabi, una vera pace, una vera e propria sperimentazione sul campo della traduzione piuttosto articolata del compromesso tra culture e religioni, tra poteri regionali e potenze mondiali non si è avuta se non nei brevi intervalli tra le tante guerre che hanno attraversato la striscia di terra libanese.
Non ultima, purtroppo, la presenza para-statale del Partito di Dio (“Hezbollah“) che, ormai da decenni e decenni, è l’ombra dello sciitismo iraniano sul governo di Beirut e la vera forza armata che combatte contro quelli che possono dirsi i nemici di un Libano che, ufficialmente, non ha mai preso le armi contro Israele, ma che non può separarsi dalla presenza islamista organizzata nel partito e nelle forze militari di Nasrallah e, quindi, è – per procura – costretto a seguirne le sorti.
Dalla guerra civile del 1975-1990 fino a quella del 1982, il ruolo di Hezbollah è cresciuto a tal punto che gli stessi servizi segreti israeliani hanno dichiarato e scritto in più rapporti di trovarsi davanti alla più forte armata militare della regione mediorientale. Il Partito di Dio, quindi, col passare dei tanti conflitti che hanno attraversato Beirut e, soprattutto, il sud del Libano, ha assunto un ruolo paramilitare e parapolitico, divenendo uno Stato nello Stato. Tanto che oggi viene naturale l’identificazione tra il partito e il paese.
I conti con Hezbollah sono stati rimandati da Tel Aviv a lungo. La linea di interposizione posta dalle Nazioni Unite non è mai stata veramente un avamposto reale e concreto per un allontanamento delle due parti da un conflitto praticamente permanente. Gli scontri alla frontiera sono all’ordine del giorno da decenni. Le scaramucce, i lanci di missili da una parte e le intercettazioni degli stessi dall’altra anche. Tanto che la popolazione della Galilea è costretta sovente a rifugiarsi più a sud, mentre i governi israeliani alimentano questo stato di tensione permanente.
Oggi il limite della guerra guerreggiata sembra essere stato superato: dopo la devastazione genocida a Gaza, nonostante non abbia eliminato Hamas – motivo ufficiale della guerra mossa da Netanyahu contro il popolo palestinese e proclamato a tutto il mondo – il governo israeliano muove guerra al Libano, muove quindi guerra ad Hezbollah. L’assassinio mirato dei capi della catena di comando militare fanno pensare che si stia davvero preparando l’invasione di terra. I bombardamenti hanno, ad oggi, in pochi giorni, fatto quasi un migliaio di morti.
Ma l’impiego dei mezzi terrestri e dei reparti di Tsahal sul campo viene rinviato, nonostante sia certamente nei piani predisposti. Perché la minaccia che attanaglia Israele viene da nord e da sud, ma anche dal suo centro: da quella Cisgiordania che è il terzo fronte di una guerra in cui la lotta è presa in carico dalla furia colonizzatrice sionista. Attaccare Hezbollah su vasta scala vuol dire attaccare, seppure indirettamente, l’Iran.
Nuove fonti giornalistiche – attendibili fino a che non siano smentite dai fatti – ci dicono che già quattro giorni dopo la strage di Hamas nei kibbutz israeliani, lo Stato ebraico era pronto a muovere guerra nel sud del Libano e ad attaccare le milizie di Nasrallah su un fronte compatto e su vasta scala, considerando il Partito di Dio la vera minaccia alla propria sicurezza. Questa ricostruzione dimostra, caso mai ve ne fosse stato bisogno, che la partita aperta contro la Striscia di Gaza aveva un valore politico e molto meno uno militare.
Distruggere Hamas che, indubbiamente, era riuscito in una operazione molto ardita, criminale e sterminatrice di oltre un migliaio di civili innocenti, ma che, anche dalle immagini che erano pervenute dai circuiti internazionali, pareva piuttosto messa insieme senza una gran coordinazione militare, ma con un effetto sorpresa che, senza ombra di dubbio, ancora oggi lascia interdetti e complottisticamente fa dubitare del fatto che quelli tra i migliori servizi segreti al mondo non ne avessero avuto nemmeno il sentore.
Dopo il 7 ottobre, dunque, Israele ha due obiettivi: rafforzare il governo Netanyahu in crisi, sfruttando la causa della giustizia come vendetta per i fatti perpetrati da Hamas e, a partire dall’11 ottobre, muovere guerra ad Hezbollah che – secondo informazioni errate – sarebbe stato sul punto di attaccare Israele da nord. La notizia si rivelò infondata e, anzi, mentre i primi attacchi verso Gaza iniziavano e i bombardamenti radevano al suolo indiscriminatamente tutto e tutti, Nasrallah lanciava anatemi contro Tel Aviv ma affermava al tempo stesso di non volere una esponenzializzazione del conflitto.
Oggi, che i conti con Gaza sono quasi regolati (visto che rimane molto poco ancora da distruggere, ma molti palestinesi ancora da assassinare…), con Hamas in piena attività, nonostante il suo oggettivo indebolimento militare e politico, l’attenzione del governo israeliano si sposta verso l’altro antico nemico. Abu Mazen all’ONU rivendica per l’Autorità Nazionale Palestinese un ruolo di governo entro i termini di un piano di smilitarizzazione e di abbandono da parte di Israele del Territorio occupato, e per risposta che ha? La distruzione di una scuola, una quindicina di morti.
Mentre al nord i civili e i militari che muoiono sono a centinaia. Prima gli attacchi terroristici con l’esplosione dei cercapersone e dei walkie talkie; poi gli omicidi mirati dei leader di Hezbollah e, infine, l’attacco aereo di vasta portata che, proprio perché tale, induce a pensare alla imminente invasione di terra. La fase della guerra di logoramento o, altrimenti detta, “a bassa intensità” sembra ormai parte di un recentissimo, anzi attuale, passato nel presente (e viceversa).
Il timore però che tutto questo scateni l’Iran e quell’asse della resistenza filo-araba e nazionalista di cui si diceva all’inizio, è una paura reale. Israele conta su una impunità internazionale che gli è garantita da Washington e da una deterrenza nucleare che, però, dopo l’inizio (o la nuova fase) della guerra in Ucraina, ha assunto parametri differenti per una Russia che si lega saldamente alla Cina, alla Corea del Nord, nonché, appunto alla Repubblica islamica degli ayatollah.
Del resto, Hezbollah ha subito in queste settimane degli smacchi piuttosto importanti: la catena di esplosioni che ha decimato gran parte dei suoi vertici di comando ha inficiato il mito dell’invulnerabilità dell’organizzazione, considerata impenetrabile un po’ al pari della sicurezza israeliana. Non esiste più alcuna certezza atavica nelle guerre asimmetriche moderne. Tutti i colpi bassi sono concessi perché del diritto internazionale si fa strame. Israele in questo è veramente un campione di negazione della democrazia e del rispetto dei più elementari diritti umani.
Di sicuro la pianificazione degli attacchi esplosivi è stata fatta in tempi molto lunghi e preparata per essere una anticipazione di attacchi ben più importanti. Quello a cui stiamo assistendo, giorno dopo giorno, consente di dare un significato molto diverso proprio a questa strategia israeliana che disvela i progetti di conflittualità crescente nei confronti di Hezbollah e non delle azioni troppo repentinamente considerate come isolate nel contesto attuale.
Ogni mossa che Israele fa, ne stiamo diventando consapevoli, è un passo avanti verso una guerra a tutto tondo contro il Partito di Dio, sempre nella cornice della soluzione del problema palestinese. I quasi otto miliardi di finanziamenti bellici dati da Biden a Netanyahu rafforzano la continuità di una politica imperialista che non intende stabilire nessuna relazione con gli avversari ma soltanto annientarli. Nella doppiezza dei rapporti statunitensi, tra forniture di armi e appelli al cessate il fuoco (fatti insieme alla Francia) in Libano, non si legge poi nessuno spiraglio risolutivo.
Le cronache dicono che, nel momento in cui Washington ha avanzato una ipotesi in tal senso, Smotrich e gli altri ministri dell’ultra destra sionista hanno minacciato di far cadere il gabinetto di guerra. Le parole di Netanyahu di apprezzamento verso lo “sforzo americano” sono cortesia istituzionale e niente di più. Non ci si può fidare del leader israeliano nemmeno per lontana ipotesi. L’impegno francese echeggia l’antico ruolo avuto nella regione da Parigi, proprio dai tempi dell’accordo di Sykes-Picot, ma non è così forte da poter condizionare i rapporti internazionali.
Il ruolo dell’Europa è l’assenza confermata. Un po’ in tutti i grandi conflitti e le questioni internazionali non esiste la voce unica dei Ventisette, ma iniziative singole. Esattamente come quella di Macron. Vista dall’altra parte del fronte, poi, la guerra che si sta aprendo contro Hezebollah non può non prevedere le contromosse del Partito di Dio. Non c’è dubbio che ci troveremo di fronte ad una riorganizzazione della catena di comando e della struttura stessa dell’organizzazione militare. Teheran, gli Houthi yemeniti e la stessa Hamas lavoreranno di concerto per una controffensiva.
Esistono, quindi, tutte le tragiche premesse per una escalation bellica nella regione mediorientale. Ed ancora una volta, la responsabilità prima è di chi afferma d’essere democraticamente unico nelle antiche terre arabe e dei due fiumi e di chi, dall’altra parte dell’oceano, fa lo stesso pensandosi ancora unipolarmente il gendarme del mondo e il portatore di interessi economici e di presupposti etici superiori rispetto alla stragrande maggioranza del pianeta.
L’arroganza dell’imperialismo, sotto tante decine di migliaia di cadaveri palestinesi e libanesi, avrà la forza di emergere ma difficilmente potrà conservarsi in quanto tale. Prima o poi verrà sconfitta, perché le contraddizioni economiche e finanziarie prenderanno il sopravvento e la già attuale crisi sociale in Israele costringerà il governo a scendere a patti con sé stesso e il potere a scegliere nuovi interlocutori con il capitale a cui le guerre sono utili, ma fino ad un certo punto…
MARCO SFERINI
27 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria