“Modernità” imprenditoriale: crisi pubblica, profitto privato

Siccome la “modernità” parrebbe risiedere tutta – o quasi – nel fare costante riferimento al mondo meraviglioso dell’impresa e alle tante intuizioni che hanno giovani promesse dell’informatica, della scienza...

Siccome la “modernità” parrebbe risiedere tutta – o quasi – nel fare costante riferimento al mondo meraviglioso dell’impresa e alle tante intuizioni che hanno giovani promesse dell’informatica, della scienza e del progresso tecnologico in generale e che saranno abilmente sfruttate dai meccanismi cingolati del mercato, è del tutto evidente che parlare di lavoro, lavoratori, lotta di classe (o lotta fra le classi) e di classi sociali stesse appare non solo anacronistico, di più: extraterrestre.

E sia! Del resto che importa se gli operai metalmeccanici e siderurgici si accapigliano tra loro sulla soluzione migliore per evitare di rimanere privi di qualunque garanzia lavorativa da parte padronale. Che importa se ancora una volta i padroni riescono a dividere i sindacati e a creare una guerra tra poveri che giova soltanto al potere contrattuale che già hanno e che si tengono ben stretto mentre i confederali sostengono il piano da 4 miliardi di investimenti (parrebbe con zero esuberi…) e quelli di base invece puntano ad una riconversione della forza-lavoro per una bonifica del sito e un impiego successivo in uno stabilimento privo di agenti inquinanti.

Che importa, se la “modernità” alla fine è il ritorno al passato che non passa: un passato fatto di lacerazioni tra lavoratori, divisioni interne che coinvolgono quasi 9.000 operai. La metà dei quali non è nemmeno sindacalizzata.

Non importa. Ciò che conta è leggere le parole dei confindustriali su “La Stampa” del 10 giugno 2020: si oltrepassano le beghe sindacali e modernamente proletarie, affermando che sì… lo Stato deve pur fare la sua parte ed intervenire per salvare il comparto siderurgico. Deve affiancarsi ad altri soggetti che mettano risorse nel salvataggio del grande stabilimento ex-Ilva di Taranto. Ma poi, in virtù proprio del suo ruolo “pubblico” (e qui sta quello che possiamo definire un “paradosso”, ma che per i padroni non è tale, si intende!) non può pretendere di rimanere a controllare la gestione privata di una azienda.

Tradotto (ammesso che vi sia il bisogno di una traduzione), significa che lo Stato italiano deve metterci un bel po’ di denaro pubblico e poi ritirarsi dall’impresa di salvataggio, lasciando che ad usufruire dei successivi profitti sia soltanto il nuovo padrone che avrà rilevato l’attuale gestione in corso di rocambolesca uscita.

Attualmente la condizione operaia dell’ex-Ilva vede i lavoratori in cassa integrazione (percepiscono circa 800/900 euro al mese…): uno stato di sopravvivenza che non può proseguire ancora molto. Nonostante la pandemia e tutti gli altri alibi possibili che si possono creare per evitare di prendere una posizione pubblica sul siderurgico tarantino, alla fine il governo dovrà in tempi brevi mettere mano ad una serie di problematiche che investono grandi settori produttivi e grandi aziende che prima erano di pertinenza esclusiva dello Stato.

Sia sotto forma di “partecipazione statale”, una storia dell’Ilva ormai praticamente scomparsa dalla scena delle possibilità anche remote di intervento pubblico in un enorme bacino produttivo (considerando tutto l’indotto che gravitava attorno ai centri di produzione siderurgica in Italia), sia nel contesto proprietario esclusivo, come in Alitalia oppure nella gestione della rete stradale e autostradale, sembra proprio che oggi il ruolo dello Stato nei settori strategici del controllo economico e della gestione di grandi risorse per la ricchezza nazionale debba essere ancora una volta demandato al privato.

Non è “moderno” pensare ad una conversione pubblica di ampi settori produttivi in mano ad imprenditori che, nella migliore delle ipotesi, delocalizzano per continuare nel solco della storia del capitalismo italiano: ottenere massimi profitti da impiego di forza-lavoro a sempre più basso costo in paesi dove lo sfruttamento dei lavoratori è possibile per via della bassa sindacalizzazione e di assenza di regole che tutelino gli operai.

Nella peggiore delle ipotesi, invece, delle ipotesi si tratta di personaggi che hanno il controllo di produzioni come quella dell’acciaio praticamente su scala globale e che approfittano di ogni occasione per acquisire fabbriche sull’orlo di una crisi, anche di nervi, ma soprattutto di libri contabili per forzare i ritmi produttivi tanto dei macchinari quanto dei lavoratori e abbandonare poi il tutto nel momento in cui si fa critica la situazione sul fronte delle potenzialità, del ritmo da tenere per soddisfare la domanda.

Anche il capitale costante alla fine conosce i suoi cedimenti e ha bisogno di ristrutturazioni, di manutenzione. Ma significherebbe perdere capitali variabili se si agisse in un ammodernamento dei reparti e si rendesse il sistema di produzione in grado di trovare un terreno di competizione sul mercato europeo e mondiale. A conti fatti, vale la pena sfruttare fino alla fine il limone un po’ consumato, spremerlo per bene e poi gettarne la buccia in una angolo.

La “modernità” imprenditoriale di questi grandi gruppi internazionali, vere e proprie sanguisughe del lavoro operaio su vasta scala, non porta con sé, al suo arrivo ad esempio in Italia, un piano produttivo. Non fanno nemmeno finta di provare a costruirne uno: si limitano a intavolare trattative con lo Stato, a richiedere tempo, a far prorogare commissariamenti, aiuti pubblici nel tentativo di cercare una via di uscita che impedisca a qualche tribunale di rivendicare ex lege (quanto meno…) il pagamento di una penale per l’abbandono di un contratto stipulato e non rispettato.

Poco importa che non siano rispettate le cifre inerenti la produzione dell’acciaio: 5 milioni di tonnellate invece delle 6 promesse all’arrivo a Taranto.

Poco importano anche le conseguenze ecologiche che si hanno sul territorio circostante e quelle che si riversano sulla salute dei cittadini (e dei lavoratori stessi, per primi): 70 ettari di parchi minerali producono particelle che portano nell’aria gas che a loro volta bucano i polmoni dei tarantini e dei pugliesi causando migliaia di tumori.

Poco importa che la magistratura abbia sentenziato che si deve spegnere l’ormai celeberrimo “altoforno 2”. Vengono chieste proroghe, mentre i lavoratori sono affidati al regime della cassa integrazione e i sindacati si scornano su quale piano sia meglio adottare per far uscire lo stabilimento dalla crisi multipla in cui si trova impantanato.

Come ha ben scritto il quotidiano di Confindustria alcuni mesi fa in un articolo-inchiesta-studio, dal 2012 ad oggi la vicenda ex-Ilva di Taranto è costata alla collettività qualcosa come 23 miliardi di euro (quindi di Prodotto Interno Lordo): l’1,35% della ricchezza complessiva del Paese. Il che significa una perdita annua, stimata dal modello econometrico della Svimez (studio commissionato sempre da “Il Sole 24 Ore”), di circa 4 miliardi annui sul fronte della produzione di acciaio.

Ne consegue che, siccome il sistema è globale, le grandi imprese del settore che si trovano oltre i confini italici non stanno certamente a guardare e approfittano delle mancate esportazioni che si registrano in progressivo esponenziale aumento. In totale, sommando le perdite nel corso di un decennio, il mancato export siderurgico italiano perde ben 10 miliardi di risorse a causa della riduzione della produzione.

Tutta questo sfacelo viene chiamato “fare impresa”. E’ la “modernità” di cui, francamente, si farebbe volentieri a meno perché invece di mettere in pratica i fondamentali del pensiero liberale, preferisce la conversione al liberismo come efficace soluzione alle contraddizioni che, naturalmente, si vengono a creare laddove si cerca il massimo profitto con il minimo investimento imprenditoriale.

Le crisi cicliche del capitale le deve risolvere sempre il lato pubblico dell’economia: lasciando al privato soltanto il penoso onere di farsi carico del trasferimento della produzione nel prossimo luogo individuato. Un nuovo limone già tagliato e spremuto, dove rimane qualche goccia ancora e che, non sia mai!, non deve andare perduta. Nemmeno ad agosto…

L’ultima novità, infatti, che viene da Confindustria delle regioni del nord Italia, riguarda il proseguimento delle attività produttive anche nel mese del riposo per eccellenza. “C’è bisogno di lavoro in questo momento“, dicono i padroni. Ma come sono bravi e premurosi e moderni gli imprenditori. Mica pensano ai profitti! Pensano al lavoro che manca. Come siamo cattivi, malfidati e antichi noi che rivendichiamo riduzioni di orari di lavoro, il sacrosanto diritto alle meritate ferie per ogni lavoratore… Siamo proprio vetusti! Compatiteci, quando sarete sui vostri yatch a fare le vacanze mentre in fabbrica gli operai producono la vostra ricchezza… Compatite noi, ma non i lavoratori. Almeno questo sgarbo risparmiateglielo.

MARCO SFERINI

11 giugno 2020

foto: screenshot / archivio la Sq

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