Il governo punta sulla propaganda dei dati a fini elettorali . L’uso strumentale dell’Istat sorvola sui bassi salari e sul fatto che in Italia si lavora poco e male
La stantìa liturgia che celebra i dati Istat sull’occupazione quando hanno un segno più, e tace su quelli che rivelano il fatto che l’occupazione prodotta in Italia è fatta in maggioranza di lavoro povero e bassi salari in settori a produttività decrescente come il terziario arretrato (il turismo, per esempio) è stata reiterata ieri dal governo Meloni, e dai suoi corifei, alla ricerca di bandiere da sventolare alle spalle dei lavoratori.
Dopo aver sorvolato sul fatto che l’aumento dell’occupazione su base annuale (250 mila unità, tra l’altro calati di oltre 150 mila rispetto all’anno scorso) è un aumento di lavoro povero ed è l’esito di una trasformazione quantitativa, e non qualitativa, della precarietà strutturale dei salari e dei redditi, ieri i meloniani hanno trovato un altro record da mettere sul tavolo della cucina elettorale, quella delle prossime elezioni regionali.
La crescita dell’occupazione, in termini assoluti, è avvenuta, guarda un po’, al Sud dove il tasso di occupazione è ancora più basso della media nazionale (poco più del 62%), uno dei tassi più bassi d’Europa. Logicamente, se il lavoro povero cresce in tutto il paese, lo fa di più lì dove resta più basso per ragioni storiche e strutturali. Nel secondo trimestre 2025 il tasso di occupazione ha raggiunto il 50,1%, dodici punti in meno della media nazionale. Il dato a Sud è il più alto dall’inizio delle serie storiche Istat nel 2004 e rivela che la metà di chi potrebbe lavorare al Sud è fuori dal mercato del lavoro.
Tanto è bastato a Meloni per celebrare il fatto di avere sottratto l’odiato e malconcepito «reddito di cittadinanza» a chi è costretto a fare un lavoro in nero, intermittente e precario che non coincide del tutto, e spesso per nulla, con chi esce dalla precarietà e oggi ha un contratto di lavoro ma guadagna cifre che non permettono di arrivare alla fine del mese. Per le destre queste persone, oggi, «sono andate a lavorare» alla faccia della «sinistra» che vuole fare «assistenzialismo». In realtà questa brutale retorica neoliberale, che non è appannaggio solo delle destre postfasciste o leghiste, riduce le persone a numeri e i numeri a spettri. Così si arriva a parlare di lavoro confondendo le mele con le pere.
Il lavoro povero che cresce è quello degli over 50 al lavoro che in Italia superano i 10 milioni. E che, a cominciare dal Sud, resta un’elevata disoccupazione e inoccupazione giovanile e un calo dell’occupazione femminile. Senza contare il fatto che, come ha confermato l’altro giorno il «Rapporto annuale sulla produttività» del Cnel, nel biennio 2022/2024 la crescita dell’occupazione è stata trainata da attività a basso valore aggiunto.
Il melonismo ritiene di trarre un dividendo elettorale da un «circolo vizioso», così definito dal Cnel, di bassi salari e scarsa innovazione. Da un lato, l’occupazione cresce; dall’altro lato, la produttività stagna. E non ci sono investimenti sulle persone, solo l’aumento della rendita. Ciò significa che la forza lavoro è scarsamente qualificata c’è un rapido «invecchiamento», oltre che un’inarrestabile erosione del potere di acquisto dei salari peggiorato dal mancato recupero dell’inflazione cumulata tra il 2022 e il 2023.
Ribaltare questa situazione è fuori dalla portata di Meloni alla quale non interessa cambiare alcunché. La volontà del «centro-sinistra» è da dimostrare. Tale situazione non si cambia mettendo un salario minimo senza trasformare la struttura del mercato, del salario e dello Stato sociale. E ci vogliono investimenti e politiche industriali. Farlo con l’arcigno patto di stabilità Ue e l’aumento della spesa militare del 5% del Pil sarà difficile.
PD e Cinquestelle tra gli altri ieri hanno ricordato che il governo ha cancellato la «Decontribuzione Sud» (5,3 miliardi), ha tolto 3,7 miliardi al Fondo di perequazione infrastrutturale, 1 miliardo al credito d’imposta della Zes Unica. E boccheggia per i ritardi della spesa reale del Pnrrche ha dato comunque una spinta congiunturale all’occupazione, insieme a qualche bonus edilizio che ha premiato la classe media superiore che ha le risorse per ristrutturarsi la casa di proprietà.
Se la gestione del Pnrr che dovrebbe salvare l’Italia è responsabilità di Meloni &Co. non va dimenticato che la sua ispirazione è stata del governo Conte 2, e soprattutto di Draghi, sostenuti da molte delle forze oggi all’opposizione. Per parlare di lavoro servono respiri lunghi.
ROBERTO CICCARELLI
Foto di Gift Omoh







