Francesco Porceddu, operaio di 54 anni, ha perso la vita cadendo in uno scavo in un cantiere edile a Rocca d’Evandro, nel Casertano. È, al momento in cui scriviamo, probabilmente la 503esima vittima del lavoro in Italia nel 2025. «Il lavoro uccide sempre, anche d’estate – ha detto Bruno Giordano, magistrato della sezione lavoro della Corte di Cassazione, già a capo dell’Ispettorato del lavoro Sono operaicidi che non meritano nemmeno quelle retoriche e ipocrite frasi di circostanza o il cordoglio di qualche autorità. Capita ogni giorno, quindi è normale. Avanti il prossimo».
Nel frattempo, la Cgil di Venezia, come la Uil del Veneto, hanno annunciato l’intenzione di costituirsi parti civili nel processo che si terrà per la morte di due operai egiziani — Sayed Mahmoud e Mustafa Ziad a Santa Maria di Sala. E, mentre la carneficina continua, Francesca Re David della Cgil ha denunciato il fatto che il governo Meloni non ha convocato i tavoli di confronto promessi l’8 maggio quando è stato siglato un «protocollo» sulle emergenze climatiche. L’ultimo Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge che introduce una modifica «sbagliata e pericolosa» sulla «videosorveglianza» senza la necessità di un accordo sindacale.
Senza questa istantanea della quotidiana strage del lavoro, per di più senza conflitto sociale, che si svolge anche in Italia non è possibile argomentare il senso di vuoto che può avere investito chi ieri ha dato ascolto alla commemorazione di un’altra strage. Quella di 262 minatori, di cui 136 italiani, avvenuta nella miniera belga di Marcinelle, vicino Charleroi, avvenuta l’8 agosto 1956. Questo giorno è stato ricoperto da un mantello di nazionalismo da 24 anni. È dal 2001 che si ricorda il «sacrificio del lavoro italiano nel mondo».
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ieri ha ricordato che la giornata è stata istituita da Mirko Tremaglia, allora ministro per gli «Italiani nel Mondo» nel governo «Berlusconi II», in ricordo dei «connazionali che sono stati costretti ad abbandonare la terra dove erano nati e cresciuti per trovare altrove maggiori opportunità di lavoro». Se è vero che a Marcinelle hanno perso la vita 136 persone nate in Italia e costrette ad andare a lavorare in miniera, è anche vero che sono morti lavoratori belgi, greci, polacchi, francesi e tedeschi. Dopo altri tre italiani, l’ultimo è stato identificato in questi giorni da un’analisi avanzata sul Dna preso dallo spazzolino da denti dei suoi discendenti. Si chiamava Reinhold Heller, era tedesco e aveva 32 anni. Tutti i minatori saranno ricordati dalla Fillea Cgil il 13, 16 e 17 agosto tra Calabria e Basilicata.
Meloni deve avere percepito la questione e ha detto che l’anno prossimo, in vista del settantesimo anniversario di Marcinelle, il governo perorerà l’idea di una «giornata europea dedicata alla sicurezza sul lavoro». Si presume che sarà dedicata anche ai lavoratori senza cittadinanza che oggi muoiono di lavoro come, e più, degli europei. A uno sguardo postcoloniale non può sfuggire che questi lavoratori sono gli stessi ai quali non sono riconosciuti né i diritti di cittadinanza, né quelli sociali. La contraddizione è stata avvertita ieri da Giovanni Barbera (Rifondazione Comunista) che ha parlato di una «doppia morale ipocrita», perché «non si può celebrare il sacrificio dei nostri migranti morti sottoterra e voltarsi dall’altra parte quando oggi si nega il diritto a una vita dignitosa a chi ancora emigra per necessità».
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha dato una spiegazione più cogente in un messaggio dove ha parlato di «lotta contro ogni forma di sfruttamento» e di «tutela dei lavoratori». «Restano un’urgente necessità, rispondono a principi di civiltà e a un dovere universale».
ROBERTO CICCARELLI
Foto di Duc Nguyen







