Madame Bovary. Costumi di provincia

Quando viene versato dello champagne ghiacciato, Emma Bovary, giovane moglie del medico di provincia Charles, rabbrividisce «per tutta la pelle. Essa non aveva mai visto melagrane né mangiato ananas....

Quando viene versato dello champagne ghiacciato, Emma Bovary, giovane moglie del medico di provincia Charles, rabbrividisce «per tutta la pelle. Essa non aveva mai visto melagrane né mangiato ananas. Perfino lo zucchero in polvere le parve più bianco e fino che altrove». Flaubert addobba il castello La Vaubyessard con tutte quelle particolarità aristocratiche che mostrano alla donna la raffinatezza che non potrà mai incontrare in quel ceto medio francese che è la borghesia dell’epoca. Una condizione tuttavia privilegiata ma che per lei è asfitticamente insostenibile.

Il più celebre romanzo del realismo d’Oltralpe, capolavoro della letteratura universale (“Madame Bovary. Costumi di provincia“, varie edizioni tra cui segnaliamo quella edita da Feltrinelli nel 2014, con ben quindici ristampe), è una sintesi di oltre quattromilacinquecento fogli manoscritti su cui Flaubert aveva vergato parole anche più aspre contro la viziosità di una classe sociale che non era in grado di avere tanti vizi quanto la nuova nobiltà del Secondo impero, così come era indegna di far parte del laborioso proletariato dell’epoca.

Quello stare a metà del guado, in un attendismo sulle magnifiche sorti e progressive di fine Ottocento e inizio Novecento, provocava nell’autore un disgusto tutt’altro che altalenante: c’è un filone di coerente avversità che incede nel tempo melensamente stanco della provincia francese e che si riverbera nella sorniona bonarietà del farmacista Monsieur Homais, leguleiamente pedante, verboso, prolisso, capace di discussioni inenarrabili e pruriginose perché semplicemente fastidiose nell’essere nauseabondamente cavillose.

Ma Emma non è molto attenta a ciò che suo marito invece coltiva: si indispettisce – e lo sappiamo soltanto perché Baudelaire nella sua benevola critica letteraria lo fa dire alla protagonista pur senza che lo abbia scritto Flaubert nel romanzo – perché le doti mediche del consorte non sono così eccelse da permetterle di salire nella scala sociale e di mostrarsi in pubblico con un luminare della scienza. Ma, poi, per il resto, della vita del marito si interessa poco o niente.

Sogna e trasvola con la mente altrove: vive di luccichii sfavillanti che le arrivano dalle ondulate gonne dell’epoca, dalle collane che cingono polsi e colli di dame che le rimandano il paragone immediato con la corte, con regine, imperatrici, dame e nobilissimi cavalieri. Il cupo grigiore della agiata vita provinciale non le è sufficiente per dare un senso alla propria esistenza. Vuole di più e lo cerca quasi solamente nel frivolo, nell’inutile, nel futile e nel non necessario. Tutto ciò che attiene all’altruismo è vuota banalità, e lo stesso mestiere del marito per lei ha un significato se è la premessa di una esclusività sociale. Per molto tempo la critica si è domandata che giudizio desse Flaubert sulla sua creatura.

La risposta non è mai stata veramente univoca e non ha portato ad avere delle certezze su questo punto. Ma si ha l’impressione, dopo aver letto il romanzo e dopo aver studiato la personalità del padre del realismo francese, che per certi versi lui comprenda questa necessità di Emma di andare oltre la meschinità borghese del ristretto paese in cui vive. Ma, d’altro canto, è abbastanza evidente come non sia soltanto questa la considerazione che emerge dai dialoghi che fa esprimere alla moglie insoddisfatta, alla ricerca costante di lussi ed amanti per sopportare un matrimonio come donna fedele.

Flaubert è consapevole del vuoto morale in cui Emma si trastulla, della mancanza di una empatia sociale che ascrive ai comportamenti scriteriati che la inducono a spendere, sperperare e ad indebitarsi oltre ogni misura. Sintetizzata nella figura della moglie di Charles vi è quindi l’espressione di una classe media che fa della sua insipienza la cifra di condotta dell’essere antisociale, dell’immoralità, del disinteresse per i grandi problemi esistenziali, concentrandosi solamente sullo stretto interesse materiale delle cose. In questo caso sono lussi, gioielli, bei vestiti, profumi e amanti giovani o facoltosi. In altri possono essere egoismi carrieristici, individualismi esasperati.

Ma Charles Bovary è persona fin troppo mansueta per poter essere nel romanzo il rappresentante unico dei vizi privati della borghesia francese. Emma invece ne fa sfoggio e lamenta le sue sofferenze amorose insinuando nei lettori e nelle lettrici il dubbio che siano realmente tali e non dettate quasi esclusivamente dalla voglia di fuggire con un ricco proprietario terriero: «Ma sono quattro anni che ho pazienza e che soffro!… Un amore come il nostro dovrebbe confessarsi alla luce del sole! Ora si son messi a torturarmi. Non ne posso più! Salvami!». L’accorato appello a Rodolphe vibra nel petto che «ansimava a colpi rapidi».

C’è da ritenere vera questa ansia spasmodica di slancio oltre il possibile, oltre il reale in cui Emma si sente avvinghiata, invischiata fino al collo e che le impedisce quasi di respirare. Vuole essere portata via, vuole fuggire, squarciando il velo delle convenzioni, abbandonando la sua vita considerata mediocre e costringendo l’amato ad abbandonare tutto ciò che ha nella scala sociale, economica, civile e morale di quel tempo ricco di pregiudizi e di prevenzioni. Giovanni Macchia, nella premessa ad una storica traduzione del 1936 (che risente ovviamente dell’italianizzazione di tutti i nomi, compreso l’ananas in “ananasso“) annota come sia importante la scena della cura fallita del piede storto di Tautin.

Qui si situa una sorta di paradigma della consapevolezza piena per Emma del destino che si è scelta e che le ripugna al punto da non tenere più conto degli affetti anche più intimi, come quello della sua figlioletta: pronta a sacrificarla all’affetto del padre, a portarla con sé nel progetto unilaterale di fuga che poi Rodolphe escluderà con una lettera che per lei sarà una vera e propria pugnalata al cuore. Mentre Charles fa il possibile per mostrarsi un chirurgo degno di nota, tenendosi aggiornato con le letture pomeridiane, Emma trasogna con romanzi romantici e Flaubert esprime così tutto il suo disprezzo (forse il termine è un po’ eccessivo ma rende bene il sentimento che provava…) nei confronti di quella corrente culturale e letteraria.

La chimerica illusione del cambiamento repentino di vita è un logoramento dell’animo umano, un tradimento della mente, una disarticolazione tra volere e potere, tra desiderio e realtà, tra immaginazione e concretezza. Quando Charles fallisce nell’operazione di strefopodia, Emma capisce. Non potrà mai essere nemmeno la moglie di un celebre chirurgo di provincia. Baudelaire glielo fa dire a tutto spiano, senza mezzi termini, surclassando l’autore che – pare – non se la prese per questo perché, molto più semplicemente, non colse la traduzione critica come interpretazione emotivamente dinamica delle pagine in questione.

Quel monologo che l’autore de “I Fiori del male” vede tra le righe della descrizione della sciatta disperazione di Emma, diviene nelle successive letture critiche del romanzo di Flaubert una intuizione su uno dei punti più alti della narrazione. Proprio il non-detto è al centro di un recupero dei sentimenti che sono intimamente inespressi, perché devono essere nascosti, rimanere nello scrigno prezioso di un quasi inconscio volere che deve essere represso dall’Io cosciente della donna. Lei sa bene che la sua lotta è non solo capriccio, lezioso, vezzosamente attorniato da fragranze e da luci, da una dimensione onirica che ripone nel presente quotidiano la cifra di una disperanza imprendibile.

Le aleggia tutto intorno il patriarcalismo dell’epoca: è pur sempre una donna contro un mondo di uomini che occupano tutti i più importanti posti di potere. Le è concesso solo il suo corpo come arma per farsi spazio tra il groviglio di rovi conservatori e moderni al tempo stesso che la inducono a stringersi sempre più in sé, fin dentro le sue intime voglie che deve reprimere e che può esprimere soltanto facendo leva sul desiderio di giovani amanti come Léon o di più maturi pretendenti come Rodolphe. Il romanzo di Emma è la storia di una donna che termina la sua vita nello strazio, mentre gli uomini, pavidi o meno che siano, perbene o mascalzoni, nobili o borghesi, rimangono vivi.

I tratti che la moglie del medico di campagna è costretta ad indossare nel prosieguo delle pagine, capitolo dopo capitolo, sono quelli dell’esasperazione prima futile e poi sempre più matura: dalla mancanza del trascurabile ad una dispnea che è il sintomo di una più generale condizione di inespressività dettata dalla soggiacenza ad un mondo che non le appartiene, di cui non si sente minimamente parte. Qui le somiglianze con una Lady Macbeth sono impressionanti. Quando Baudelaire immagina il monologo disperante di Emma, pone un accento marcatissimo sulla intima segregazione sentimentale della condizione femminile dell’epoca.

Non è più solamente Emma Bovary a soffrire per la sua personalità rinchiusa nel perimetro dell’obbligo morale, della convenzione, anche se inizialmente pare molto lontana da una presa di coscienza di questa moderna impostazione, di questa elevatezza di nuova etica pre-femminista. C’è tutto un mondo invisibile fatto di aspirazioni e desideri che finisce col combaciare con un romanticismo che, pure, Flaubert – come già sottolineato – non ama per niente. Ma è inevitabile: perché l’amore impossibile è per definizione romantico. Nel non corrisposto (da Emma verso Charles) e nel non compreso (da Rodolphe verso Emma), come in quello più tenero ed ingenuo (da Léon verso Emma), il fraseggio è quello.

L’insoddisfazione non è un sentimento a sé stante, un principio dettato dalla fragilità. Più di tutto è il germe di una ribellione che non può concretizzarsi e che si reprime fino all’implosione emotiva che è, non di meno, asfissia carnale, impedimento alla protesi sessuale data all’emotività circoscritta al consueto, al morale, al decoroso, all’insieme dei valori del provincialismo borghese. Quello che poteva essere un soggetto banale è, nel perfezionismo stilistico di Flaubert, un capolavoro di bellezza narrativa. Apprezzabile in ogni tempo e che rimanda, ogni tanto, nel passato che torna e ritorna, proprio come le emozioni che descrive con tanta circospezione.

MADAME BOVARY. COSTUMI DI PROVINCIA
GUSTAVE FLAUBERT
FELTRINELLI, 2014
€  10,00

MARCO SFERINI

19 febbraio 2025

foto: particolare della copertina del libro


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