L’invocazione della pace come presupposto concreto verso una progressiva dismissione degli armamenti su vasta scala è, senza ombra di dubbio, una preghiera tanto laica quanto religiosa che auspica una fine dei conflitti in corso in tante parti del mondo e che, quindi, mette al centro della questione la riduzione delle spese militari, la compressione dei commerci di armi leggere e pesanti.
Dietro a tutte queste moderne guerre che, secondo papa Francesco, costituivano le tessere del mosaico della orrorifica “Terza guerra mondiale” (appunto definita “a pezzi“), c’è il neoliberismo capitalista: l’interesse di svariati poli economici e finanziari che si fanno concorrenza tramite la strutturazione di uno dei dettati della scuola americana che ha teorizzato prima e fatto mettere in pratica poi, attraverso colpi di Stato, regimi vari e conflitti, l’imperialismo come quintessenza della globalizzazione.
Quando si invoca la pace come strumento di alterità nei confronti di una condivisione piuttosto di ampio spettro delle tensioni internazionali sul terreno della ristrutturazione multipolare del pianeta, si dovrebbe anche avere contezza del fatto che ciò impone una riflessione critica nei confronti proprio del capitalismo: una riflessione a tutto tondo e non semplicemente una critica, seppure circostanziata, di tenore minore e condiscendente verso il compromesso.
L’auspicio della fine dei conflitti vuole dire fare della politica nazionale e sovranazionale uno strumento di ricalibratura delle stesse società cui si riferisce e dismettere, ad esempio, l’economia di guerra che, da qualche anno a questa parte, è la regola nuova (e antica al tempo stesso) non soltanto delle vecchie (si fa per dire) potenze mondiali ma, più ancora, di quelle emergenti che si posizionano in uno scacchiere davvero innovativo sul piano dei rapporti globali.
Non si può, parlando di pace, disarmo e fine dell’economia di guerra, non fare riferimento esplicito alla decrescita come pietra angolare di una rivalutazione tanto del marxismo quanto del comunismo, riportando anzitutto quest’ultimo alle origini quasi pre-marxiane: la caduta dell’Unione Sovietica, ormai quasi quarant’anni fa, ha certamente trascinato con sé per lungo tempo lo stigma dell’ideologia franata sulle rovine del totalitarismo, dell’incistamento burocratico di Stato.
Se la risposta scontata dei liberisti moderni è tanto pregiudiziale quanto ipocritamente falsa, ossia che quello e solo quello fosse il comunismo, allora abbiamo proprio in questa asserzione la dimostrazione del fatto che, invece, concetti socialismo e socialità, uguaglianza e solidarietà, giustizia sociale e libertarismo non sono costringibili nelle asfittiche perimetrazioni di un Novecento collassato su sé stesso e largamente travisato nei suoi sinceri slanci anticapitalisti.
Proprio perché si vorrebbe ancora oggi attribuire a Marx l’etichetta di un cattivo maestro che non poteva non subire quella torsione autoritaria sul piano prettamente pragmatico dell’istituzionalismo tout court, le spinte antropocentriche di un liberismo che tutto interpreta merceologicamente e solo al servizio della “superiore” specie umana non lascerebbero adito a nessuna ipotesi alternativa: tanto al marxismo condannato dalla Storia, quanto al comunismo come movimento di liberazione non solo umana ma anche animale ed ambientale.
Qualcuno ha molto acutamente scritto che, oggi, coloro che seguono le teorie di Marx pensando e cercando il modo di migliorare la condizione globale e locale degli esseri viventi e del pianeta medesimo, hanno bisogno della decrescita e così, allo stesso tempo, questa per potersi affermare come nuovo stile di declinazione dei bisogni mediante una nuova ratio produttiva, ha bisogno di Marx.
Il punto in questione è duplice, uguale e contrario al tempo stesso: il capitalismo moderno, per essere adeguatamente compreso e criticato senza se e senza ma, necessita come competitor di un anticapitalismo che non sia la riproposizione stanca delle icone del passato, ma l’attualizzazione di una aggiornata “critica della critica critica” e di una “negazione della negazione” che rimetta in circolo il conflitto tra capitale e lavoro, tra possessori dei mezzi di produzione e detentori della sola forza-lavoro come strumento di sostentamento personale.
Questa riabilitazione di Marx e del marxismo è, quindi, anzitutto antidogmatica ed esclude qualunque presa in carico del Moro su un livello di analisi teorica avulsa dalla realtà; non possiamo, dunque, considerare oggi la cassetta degli attrezzi come un insieme di strumenti da contemplare o da imitare. Possiamo invece domandarci, come avrebbe fatto proprio Marx, come la realtà oggi si dispone davanti ad una proposta di alternativa netta e decisa: qual è la percezione che le persone hanno nel momento in cui si cita loro il comunismo?
La risposta più facile è sempre quella che si sente dare da qualche decennio a questa parte: è un ferrovecchio del passato, una ideologia che ha provocato decine di milioni di morti, costruito sistemi statali oppressivi e, quindi, si tratta di un fallimento globale consegnato al recente passato, ma pur sempre tale. Un anacronismo, un usato tutt’altro che sicuro, improponibile tanto oggi quanto domani.
Non si può negare che chi persegue la “visione condivisa“, una sorta di pacificazione storico-attualistica della memoria e dei rapporti di forza tra le classi indirizzata alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo neoliberista, sostiene la dirittura quasi etico-civica della teoria rappresentata dal famoso acronimo TINA (“There Is No Alternative“): chi è strutturalmente complice, perché ne incarna l’essenza prima, dei disastri che il sistema produce ogni disgraziato giorno, non può non escludere che si possa partire, ad esempio, dalla decrescita per una nuova sostenibilità globale.
Per alcuni cocciuti sostenitori del neoliberismo a tutto tondo, da Bretton Woods in avanti la prospettiva era la necessità di una globalizzazione dei mercati che, nell’escludere miliardi di persone dalla possibilità di una vita degna di essere vissuta, aveva come obiettivo la garanzia di tutta una serie di inveterati privilegi per il solo nord del mondo, per quell’asse prima europeo e poi euro-nordatlantico che ha finito col colonizzare grandissima parte del pianeta e asservirla alle proprie necessità.
L’attualizzazione del marxismo oggi passa non per un recupero del principio statalista, per cui tutto deve essere assolutamente nelle mani dello Stato, come contraltare ovvio rispetto al privatismo capitalistico; semmai passa per una nuova concezione dei “beni comuni” e del concetto stesso di “comune” e, dunque, di “comunismo“. Marx aveva, nei suoi lunghi, circostanziati e meticolosi studi (e non solo economici), valutato con dovizia di particolari il rapporto che intercorreva tra capitale e natura.
Il concetto appena riproposto di “benecomunismo“, di comunità come luogo di condivisione tanto delle esperienze quanto di una nuova attitudine tanto culturale quanto civica e sociale nei confronti del lavoro, impone la considerazione della Terra come una unica, enorme casa comune. Il Marx che siamo stati abituati a studiare fino a poco tempo fa era quello che ci veniva suggerito come il filosofo, l’economista e il politico che metteva, anzitutto, il primato della produzione avanti ad ogni altra cosa.
Per primo proprio il Moro si rende conto che esiste un «ricambio organico tra uomo e natura», nel senso che l’interazione tra noi e il mondo che ci circonda è un “ciclo” fatto di trasformazione degli elementi propriamente naturali attraverso l’ingegno umano: da ciò ne derivano prodotti alimentari, oggetti, strumenti utili al miglioramento (almeno così dovrebbe essere…) dell’esistenza di ciascuno e di tutti. E, infine, dopo il consumo o l’utilizzo il ciclo va verso la liquidazione di ciò che ne resta.
Saitō Kōhei puntualizza con grande acume: «…anche in assenza di esseri umani, in natura esistono altri processi circolari: la sintesi clorofilliana, la catena alimentare o, ancora, il ciclo di nutrizione del suolo…». Non si deve, quindi, commettere l’errore di ritenere che il “ricambio organico” sia un processo inteso soltanto dal punto di vista “economico“: esso trascende questo aspetto, è atavicamente e propriamente insito nella natura della Natura stessa. Ma, non c’è dubbio alcuno, ne è compreso ma la influenza e anche piuttosto grandemente.
La decrescita è, quindi, necessaria perché mette in discussione proprio questo esponenziale ciclo produttivo che, per quanto possa essere contenuto, ridotto e controllato, se capitalisticamente inteso come tale (e non sarebbe possibile altrimenti in questo dato momento storico che, per vie traverse, si prolunga da almeno due secoli e mezzo…), sviluppa una legge già conosciuta: l’accumulazione del capitale a scapito dei bisogni più naturali e fondamentali per tutti gli altri esseri viventi che non abbiano il ruolo di proprietari dei mezzi di produzione.
Dunque, parlare oggi di “nuovo comunismo” vuol dire anzitutto coniugare la sostenibilità ambientale con la giustizia sociale, la natura con il lavoro, l’ecosistema in quell’era dell'”antropocene” che rischia di essere, proprio per l’antropizzazione esponenziale che è in atto (e da lungo tempo…), con uno sviluppo collettivo che non può essere disgiunto dall’uguaglianza delle comunità e nelle singole comunità stesse.
Marx scrive ne “Il capitale” che esiste un “comunismo spontaneo” in cui si sono – per così dire – trovate a vivere le società del passato: lì si parla di tribalismo del nord Europa e di esperienze del tutto oggi impensabili, visto che ogni epoca ha i suoi rapporti produttivi, di forza, di interazione tra gli esseri viventi e il resto del pianeta. Anticipando quelle che possono essere le più ovvie obiezioni pregiudiziali dei sostenitori del moderno liberismo, va detto che decrescita non vuol dire regresso.
Ammesso che quello in cui si sta (soprav)vivendo si possa definire “progresso” (un andare quindi avanti anche se il precipizio del disastro ecosistemico è pressoché innanzi a noi), piuttosto che un indotto adattamento ad una situazione contingente in cui la saldatura tra potere economico e politico riesce a contenere le rivolte sociali, occorre partire (o ripartire) dalla consapevolezza che il capitalismo è un produttore, indubbiamente, ma di disastri. Il fatto che – come sottolinea sempre Saitō Kōhei – i beni comuni siano una ricchezza collettiva è uno svantaggio per il capitale.
Questo se si pensa a loro come ad uno dei punti di partenza per un rinnovamento globale della società, dell’umanità, dell’animalità (intesa come interezza antispecista che comprende tutti gli esseri viventi senzienti). Le grandi problematiche dei nostri tempi sono irrimediabilmente figlie di un recente passato fatto di spoliazione del mondo del lavoro dei diritti conquistati nel corso del secolo a cavallo tra metà Ottocento e metà Novecento.
L’immediato futuro mostra segni di crescita del debito pubblico, di stagnazione dell’economia e di trasformazione di questa, mediante le protesi belliche contro i popoli, in un regime di guerra permanente per consentire al capitalismo neoliberista di gestire una fase multipolare in cui sta tragicamente barcollando. La scarsità dei beni comuni rischia di essere la cifra su cui valutare i prossimi decenni.
Le catastrofi naturali, i conflitti, la riduzione degli spazi democratici e di partecipazione. Sono tutti segnali di una nuova crisi su vasta scala del capitale e del suo nuovo, inevitabile conflitto con il lavoro, la precarietà e la povertà. Quando si invoca la pace qui ed ora, lo si deve lasciare fare ai presidenti e ai grandi gestori del potere sul piano anche propagandistico: è il loro triste mestiere. Ma noi comunisti del nuovo millennio, insieme agli sfruttati moderni, dovremmo essere consci che pace vuol dire anzitutto antimperialismo, anticapitalismo, antiliberismo.
La pace è disarmo e viceversa e tutto si lega alla decrescita economica strutturale. Un nuovo comunismo diviene possibile soltanto se i beni comuni non saranno scarsi ma, al contrario, diverranno il motivo per cui impiegare nel lavoro miliardi di quelli che oggi sono salariati schiavizzati e che domani potrebbero diventare liberi produttori associati. Si tratta di enunciazioni teoriche. Per ora. Ma senza un po’ di approssimazione sul futuro non si può nemmeno ritenere di riuscire ad afferrare con compiutezza il presente.
MARCO SFERINI
13 maggio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria