Louise Brooks. Per sempre Lulù

L'attrice americana divenuta, diretta da Pabst, un'icona di sensualità
Corso cinema n. 139

Nel 1909 il parrucchiere di origine polacca Antoni Cierplikowski, noto come Monsieur Antoine, inventò nel suo salone di bellezza a Parigi il “caschetto”. Questo taglio, noto anche come “carré” o “bob cut” (con sfumature leggermente diverse), venne presto soprannominato “à la garçonne”, il “taglio alla maschietta”, poiché fino ad allora le donne i capelli così corti non li avevano mai portati.

1. Louise Brooks

Quel taglio sbarazzino e audace divenne molto popolare negli anni Venti. In Francia lo adottò, tra le altre, l’attrice Polaire (spesso diretta da Maurice Tourneur), in Gran Bretagna le esponenti del Bloomsbury Group di Virginia Woolf, e, oltre oceano, molte donne spinte dal desiderio di modernità e indipendenza. A portarlo per la prima volta all’attenzione della cronaca fu la ballerina Irene Castle, ma a renderlo immortale fu un’attrice, e che attrice: Louise Brooks.

Mary Louise Brooks nacque a Cherryvale, piccolo comune del Kansas, il 14 novembre del 1906 secondo genita di Leonard Porter Brooks (28 ottobre 1868 – 14 ottobre 1960), stimato avvocato, e Myra May Rude (2 gennaio 1885 – 21 aprile 1944) donna colta e severa, appassionata di musica e arte. Dalla loro unione era già nato Martin Gentry Brooks (1905 – 1971) cui si sarebbero aggiunti Theodore Roosevelt Brooks, esplicito omaggio all’allora Presidente USA, nato nel 1912, ed Eleanor June Lashley (1914 – 2002).

Louise, che portava i capelli corti fin dall’infanzia, descrisse la sua città natale come una tipica comunità del Midwest, dove si “pregava in salotto e si praticava l’incesto nella stalla”. Affermazione forte, ma spesso realtà. A nove anni, Louise subì un abuso sessuale da parte di un vicino, un trauma che segnò profondamente la sua vita e la sua carriera. Un episodio che influenzò il suo atteggiamento verso le relazioni, portandola a dichiarare in seguito di essere incapace di provare vero amore e di ricercare un elemento di dominazione nei rapporti con gli uomini. Quando, anni dopo, raccontò l’accaduto alla madre, questa insinuò che la colpa fosse di Louise per aver “provocato” l’uomo. Fatto sta che nel 1919, la famiglia si trasferì a Independence e successivamente a Wichita nel 1920. Sempre in Kansas.

GIOVANE BALLERINA

Nel 1922 Louise, ad appena quindici anni, iniziò la sua carriera come ballerina unendosi alla Denishawn School of Dancing and Related Arts a Los Angeles, sotto la guida dei pionieri della danza moderna Ruth Saint Denis e Ted Shawn, accanto alla giovane Martha Graham. Durante la sua prima stagione, viaggiò all’estero, esibendosi a Londra e Parigi. Nella seconda stagione, ottenne un ruolo da protagonista al fianco di Shawn, ma un conflitto personale con Saint Denis culminò nel suo licenziamento nella primavera del 1924. Saint Denis la congedò davanti alla compagnia, accusandola di voler “la vita servita su un vassoio d’argento”, parole che segnarono profondamente Louise, tanto da ispirare il titolo del capitolo finale di un suo progetto autobiografico, “The Silver Salver”.

2. Loiuse Brooks nel 1922

A 17 anni, grazie all’amica Barbara Bennett, Louise trovò subito un nuovo ingaggio come ballerina nelle Ziegfeld Follies prima nello spettacolo “Luis the 14h”, poi in “Scandals” di George White. Sessualmente libera, femminista ante litteram, vogliosa di sperimentare, priva di remore nel posare senza veli per foto di nudo artistico, nel 1925 debuttò a Broadway all’Amsterdam Theater, esibendosi in un ruolo che la vedeva seminuda, segnando l’inizio della sua ascesa nel mondo dello spettacolo, poi a Londra al Cafè de Paris.

Grazie al suo lavoro nelle Follies Louise Brooks attirò l’attenzione di Walter Wanger, produttore della Paramount Pictures col quale ebbe una relazione, che nel 1925 le fece firmare un contratto di cinque anni, battendo la concorrenza della MGM. Poco dopo, durante un cocktail party organizzato a Broadway dallo stesso Wanger, incontrò Charlie Chaplin, in città per la première del suo film The Gold Rush (1925). Tra i due nacque una breve relazione.

A HOLLYWOOD

Louise esordì sul grande schermo nello stesso anno con un ruolo non accreditato in The Street of Forgotten Men diretto da Herbert Brenon per poi ottenere parti da protagonista in commedie leggere: The American Venus (1926) e Love ‘Em and Leave ‘Em (1926) per la regia di Frank Tuttle, A Social Celebrity (1926), con Adolphe Menjou, e The Show Off (1926), al fianco di Ford Sterling, diretti da Malcolm St. Clair (1926).

Quindi Louise recitò in It’s the Old Army Game (1926) con W. C. Fields, per la regia di A. Edward Sutherland, attore e regista cresciuto tra i “Keystone Cops”, che nell’estate del 1926 diventò suo marito. Ma già l’anno successivo l’attrice si era “innamorata terribilmente” di George Preston Marshall, proprietario di una catena di lavanderie e futuro presidente dei Washington Redskins. Una controversa figura nella storia della NFL, la lega di football americano, che rifiutò di far giocare gli atleti afroamericani nella sua squadra fino al 1962!

Louise Brooks, che divorzierà da Sutherland nel giugno del 1928, continuò a recitare in film modesti film quali: Rolled Stockings (1927) regia di Richard Rosson, Now We’re in the Air (1927) diretto da Frank R. Strayer e The City Gone Wild (1927) curato da James Cruze. Quindi venne “prestata” dalla Paramount alla Fox per A Girl in Every Port (1928) diretto da Howard Hawks che, da abile regista, si accorse del potenziale erotico sprigionato dalla ragazza del Kansas.

3. A Girl in Every Port (1928) di Howard Hawks

Il marinaio Spike Madden (Victor McLaglen), ufficiale di bordo noto per le sue avventure sentimentali in ogni porto, scopre di essere costantemente preceduto da un misterioso rivale. Questo sconosciuto conquista le stesse donne lasciando loro in dono un braccialetto con un ciondolo a forma di cuore contenente un’ancora. Quando finalmente lo incontra in una taverna, Spike è pronto a risolvere la faccenda con una rissa, ma un improvviso intervento della polizia li costringe a fare fronte comune. Da quel momento, tra i due uomini – Spike e Bill Salami (Robert Armstrong) – nasce una sincera amicizia. A Marsiglia, Spike si innamora perdutamente di Govida (Louise Brooks), un’affascinante acrobata che si esibisce come tuffatrice in una fiera. Ignaro del passato tra lei e Bill, Spike la presenta all’amico, il quale, imbarazzato, evita di rivelargli di essere stato l’ex amante della ragazza. Govida, dal canto suo, sembra voler riallacciare la relazione con Bill, mettendo alla prova il legame tra i due marinai. Ma alla fine, l’amicizia tra Spike e Bill si rivelerà più solida di qualsiasi rivalità amorosa.

Dichiaratamente ispirato al successo di Gloria di Raoul Walsh, questa “storia d’amore tra due uomini”, come la definì Howard Hawks, è una delle commedie fondanti della mitologia hawksiana, pur non essendo tra le sue opere più riuscite. La prima parte è decisamente più divertente, con le continue disavventure di Spike, costretto ogni volta a cancellare dal suo taccuino l’indirizzo di una donna che è già stata conquistata da Bill (tra cui una giovanissima Myrna Loy nel ruolo di Jetta). Il film perde ritmo nella seconda parte, diventando più lento e prevedibile, mentre il contrasto tra i due marinai si fa via via più scontato.

Indimenticabile Louise Brooks che raggiunse fama e ricchezza, frequentando anche il miliardario William Randolph Hearst (colui che ispirò Orson Welles per Quarto potere). Il suo iconico taglio di capelli a caschetto divenne una vera e propria moda, imitata da molte donne, tra cui Colleen Moore.

L’attrice recitò quindi in Beggars of Life (I mendicanti della vita, 1928) diretto da William A. Wellman, dove interpretò una ragazza in fuga dalla legge (recitando quasi tutto il film “en travestì”) per poi tornare alla Paramount per The Canary Murder Case (La canarina assassinata), primo film tratto da un’opera di S. S. Van Dine, girato dall’11 settembre al 12 ottobre 1928 per la regia di Malcolm St. Clair.

4. The Canary Murder Case (1928) di Malcolm St. Clair

Margaret O’Dell (Louise Brooks), soprannominata “la canarina” per il ruolo interpretato a Broadway e nota per il suo carattere cinico e arrivista, viene trovata strangolata nel suo elegante appartamento. L’ispettore Markham (Charles Calvert) indaga tra una lunga lista di sospettati: Jimmy Spotswoode (James Hall), giovane innamorato di un’altra donna, Alice (Jean Arthur), e desideroso di liberarsi di Margaret; suo padre (Hedda Hopper), disposto a tutto pur di separarlo dalla showgirl; Mannix (Eugene Bartels), un uomo rozzo; Cleaver (Lawrence Grant), un ambizioso riformatore sociale; e il dottor Lindquist (Gustav von Seyffertitz), medico geloso. Tutti sono stati amanti della O’Dell, e tutti, in un modo o nell’altro, ricattati da lei. Malgrado settimane di indagini, la polizia brancola nel buio, fino a quando il procuratore si rivolge all’intuitivo detective Philo Vance (William Powell) per dipanare l’intricata vicenda.

Il film, giallo con venature da commedia, che si distingue soprattutto nella seconda parte, quando Vance usa una partita a poker per inchiodare l’assassino. Ma ciò che rimane più impresso è la figura enigmatica di Margaret “la canarina” O’Dell: una donna fredda, calcolatrice e irresistibilmente affascinante, che Louise Brooks interpretò con magnetismo glaciale e seducente impassibilità. Girato originariamente come film muto, venne successivamente adattato al sonoro da Frank Tuttle. La “canarina” fu tuttavia doppiata da Margaret Livingston. Perché? Perché Louise Brooks non c’era. Era partita per l’Europa.

IL VASO DI PANDORA

A Girl in Every Port, uscito negli Stati Uniti il 22 febbraio del 1928, era stato distribuito anche nel vecchio continente. Ottenne un grande successo in Francia, col titolo semplicemente tradotto Une fille dans chaque port, più tiepida, invece, l’accoglienza in Italia dove uscì, tra il 1929 e il 1930, come Capitan Barbablù e in Germania. Qui il film venne proiettato pubblicamente per la prima volta a Berlino il 30 novembre 1928 e distribuito nel mese di dicembre col titolo Blaue Jungs – blonde Mädchen (tradotto Ragazzi blu – ragazze bionde). Ma prima di allora si erano tenute alcune proiezioni private, ed è proprio in una di queste che un regista, anziché lasciarsi incantare da una ragazza bionda, si innamorò di un caschetto nero.

5. Georg Wilhelm Pabst

Quel regista era Georg Wilhelm Pabst che dopo aver realizzato Die Freudlose Gasse (La via senza gioia) e Geheimnisse einer Seele (I misteri di un’anima), era alla ricerca della protagonista del suo prossimo film tratto da due opere del drammaturgo tedesco Frank Wedekind all’epoca considerate scandalose e perfino “pornografiche”: “Erdgeist” (“Lo spirito della terra”) pubblicato nel 1896 e “Die Büchse der Pandora” (“Il vaso di Pandora”) uscito nel 1904. Proprio quest’ultimo divenne il titolo del film del regista.

La protagonista dei due drammi si chiama Lulù: una donna travolgente, guidata da desideri insaziabili, che distruggeva chiunque le stesse vicino, compresa se stessa. Pabst, come Wedekind, vedeva in lei il simbolo di un’energia vitale che, proprio in quanto inarrestabile, finisce per corrodere le basi stesse della società. La sceneggiatura venne curata da Ladislaus Vajda, Joseph Fleisler e dallo stesso regista.

Il cinema della Repubblica di Weimar era tra i più influenti al mondo, e Pabst aveva un talento raro nel valorizzare le sue attrici. Lo aveva già dimostrato con Greta Garbo, Asta Nielsen e Brigitte Helm. Quando Louise Brooks ricevette l’invito a lavorare con lui, pensò inizialmente a uno scherzo. Ma era tutto vero. E mentre tutti guardavano a Hollywood come alla Mecca del cinema, lei scelse di andare in controtendenza: partì per l’Europa, si imbarcò per Amburgo, e da lì raggiunse Berlino in treno. Ad accoglierla, il 14 ottobre 1928, trovò lo stesso Pabst e un enorme mazzo di fiori. Il 9 febbraio 1929 uscì Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora).

5. Die Büchse der Pandora (1929) di Georg Wilhelm Pabst

Lulù (Louise Brooks), ex fioraia dal fascino irresistibile, sogna una carriera nel mondo del varietà. Vive grazie alla protezione di uomini influenti, tra cui il dottor Ludwig Schön (Fritz Kortner), suo amante, che però intende troncare la relazione per sposare Charlotte Marie Adelaide (Daisy d’Ora). Un giorno, Lulù riceve la visita del suo vecchio protettore Schigolch (Carl Goetz), che le propone di esibirsi in un numero acrobatico con Rodrigo Quast (Krafft-Raschig), artista di varietà goffo e volgare, ma affascinato da lei. Questo incontro segna l’ingresso di Lulù nel mondo dello spettacolo. Intanto, Alwa (Franz Lederer), figlio di Schön e giovane commediografo, anch’egli innamorato di Lulù, la scrittura per una sua pièce teatrale.
Durante la prima dello spettacolo, Schön viene colto da Charlotte in atteggiamenti intimi con Lulù e, sopraffatto dalla passione, decide di sposarla. Ma il matrimonio si rivela un fallimento sin dal principio. Durante la festa nuziale, Schön, infastidito dalla presenza di Schigolch nella stanza di Lulù, esplode in una crisi di gelosia. In un impeto disperato, le consegna una pistola e le ordina di togliersi la vita; nella confronto che ne segue, Schön muore per mano di Lulù.
Processata e condannata, la ragazza riesce a fuggire grazie a un diversivo creato da Alwa, con l’aiuto della contessa Anna Geschwitz (Alice Roberts), anch’ella innamorata della giovane. I tre fuggono in treno ma vengono riconosciuti e ricattati dal marchese Casti-Piani (Michael von Newlinsky), che li conduce su un battello adibito a bisca clandestina, con l’intento di vendere Lulù a un ricco egiziano. Con l’aiuto di Schigolch, riescono a scappare ancora una volta e a rifugiarsi a Londra. Ridotti in miseria, vivono in una soffitta. Per sfamare sé stessa e i suoi compagni, Lulù si prostituisce. È la notte di Natale, incontra Jack lo Squartatore (Gustav Diessl), che la uccide.

Il film di Pabst operò una trasformazione radicale dell’interpretazione del personaggio femminile: se nella pièce Lulù incarnava la forza primitiva degli istinti, smascherando la corruzione del mondo borghese, nella visione di Pabst la protagonista – pur lasciando dietro di sé una scia di tragedie – perde i tratti demoniaci per assumere le sembianze di una vittima della propria sensualità amorale, spensierata e vitale. Un simbolo dell'”innocenza infantile del vizio”.

6. Louise Brooks indimenticabile Lulù

Pabst sottrae ogni intento moralizzatore al racconto e restituisce una narrazione in cui il tono resta lucido, ma privo di prediche: un realismo che, pur intriso di suggestioni espressioniste, non indulge mai nell’enfasi. Persino la figura di Jack lo Squartatore, che nel testo originale non aveva particolare rilievo, acquista nel film un peso tragico e un pathos imprevisto, chiudendo il cerchio in un finale tanto crudele quanto simbolico.

Fondamentale alla riuscita dell’opera fu la presenza di Louise Brooks, che Pabst preferì contro il parare di tutti a Marlene Dietrich. Il suo volto perfetto, incorniciato dal celebre caschetto nero, e la sua recitazione sobria ma intensissima – capace di attraversare umiliazioni e passioni restando miracolosamente “pura” – fecero di lei una figura di culto. Il pubblico, colpito dalla sua magnetica presenza scenica, vide in Lulù “un’icona dell’amour fou, una ribelle anarchica, una vittima della morale ipocrita e insieme eroina tragica di un melodramma ardente” (Mereghetti).

Inedita per l’epoca è anche la rappresentazione dell’attrazione omosessuale attraverso il personaggio della contessa Geschwitz, che ama Lulù con devozione e, nel finale, sembra essere l’unica a offrirle un affetto sincero. Un aspetto che suscitò scandalo e che venne censurato in alcuni paesi: in Francia, ad esempio, la versione distribuita eliminò ogni riferimento omosessuale, trasformando la contessa in un’amica d’infanzia e il figlio di Schön in un semplice segretario. Anche la figura di Jack lo Squartatore venne del tutto rimossa. In Italia uscì solo nel 1930 e fu subito censurato. Venne riscoperto nel dopoguerra e presentato come Lulù Il vaso di Pandora.

7. l’attrazione tra la contessa Geschwitz e Lulù

Anche in Germania il film fu accolto freddamente: la censura tedesca del 1929 ne vietò la visione ai minori, la critica lo bollò come un fallimento, e infine, il 9 aprile 1934, su richiesta del Ministro del Reich per l’Istruzione pubblica e la Propaganda, Joseph Goebbels, Die Büchse der Pandora venne ufficialmente proibito. Rivalutato solo molti anni dopo la sua uscita, Il vaso di Pandora è oggi considerato uno dei massimi capolavori del cinema muto tedesco e uno dei vertici della filmografia di Georg Wilhelm Pabst: un’opera che, pur ambientata in un mondo dominato da uomini, ruota interamente attorno a una figura femminile indimenticabile, fragile e fatale, innocente e sovversiva (oggi, dopo diversi restauri, esiste per l’home video la versione integrale da 132 minuti).

Terminato Il vaso di Pandora, Pabst iniziò a elaborare un nuovo progetto costruito attorno alla “sua” attrice, Louise Brooks, e ambientato nel mondo dei concorsi di bellezza. La Société des Films Artistiques (SOFAR), fondata nel 1924 dal produttore russo Romain Pinès e attiva tra Berlino e Parigi, si mostrò interessata alla produzione del film. Ai primi abbozzi della sceneggiatura collaborarono lo scrittore Heinrich Fraenkel, lo stesso Pabst e il regista francese René Clair, che però declinò l’invito alla regia: impegnato a studiare le potenzialità del nascente cinema sonoro, preferì non occuparsi del progetto, che nel frattempo aveva assunto il titolo Prix de Beauté. Anche Pabst, probabilmente a causa di divergenze con la casa di produzione, si defilò. Ma con Louise Brooks ancora in Europa, ne approfittò per girare, nell’estate del 1929, un nuovo film in Germania.

DIARIO DI UNA DONNA PERDUTA

Scelse di adattare, insieme a Rudolf Leonhardt, un romanzo di Margarete Böhme. Il 22 ottobre 1929 uscì Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta).

8. Tagebuch einer Verlorenen (1929) di Georg Wilhelm Pabst

Thymian Henning (talvolta italianizzato in Thymiane, Louise Brooks), giovane figlia del farmacista Robert Henning (Josef Rovenský), riceve un diario in dono dalla zia (Vera Pawlowa) in occasione della prima comunione (l’attrice all’epoca aveva 23 anni, la protagonista 16). Nello stesso giorno, la domestica di casa, forse molestata dall’assistente di farmacia Meinert (Fritz Rasp), viene licenziata e si suicida. Al suo posto arriva la fredda e calcolatrice Meta (Franziska Kinz), che ben presto seduce e sposa il padre di Thymian.
Anche Thymian cade vittima di Meinert, che la seduce e la mette incinta. Quando la famiglia cerca di convincere l’uomo a sposarla, questi rifiuta, sostenendo che la farmacia è ipotecata e la dote insufficiente. Per evitare lo scandalo, la neonata viene affidata a una balia, mentre Thymian è rinchiusa in un riformatorio femminile, dove subisce una rigida disciplina imposta dal direttore (Andrews Engelmann) e dalla sua crudele moglie (Valeska Gert), senza alcuna compassione o possibilità di riscatto.
Nel riformatorio, Thymian stringe un forte legame con un’altra ragazza, Erika (Edith Meinhard). Con l’aiuto del giovane e sfortunato conte Osdorff (André Roanne), le due riescono a fuggire. Cercando di ricostruire la propria vita, Thymian scopre che la figlia è morta e finisce col rifugiarsi nel bordello dove lavora Erika. Anche lei, così, diventa una prostituta. Tra i clienti vi è anche il dottor Vitalis (Kurt Gerron), che tenta invano di imporre regole morali. Una sera nel locale, Thymian incrocia lo sguardo del padre, che muore poco dopo, senza riuscire a parlarle. Thymian apprende la notizia dal giornali ed eredita una cospicua somma di denaro. Decide però di donarla a Meta, rimasta sola con i figli dopo essere stata cacciata di casa da Meinert. Deluso da questa scelta e dalla perdita di ogni speranza, Osdorff si suicida. Al funerale, Thymian incontra il vecchio zio del conte (Arnold Korff), che la prende con sé e finisce per sposarla. Grazie a lui, Thymian ottiene un ruolo come protettrice in un riformatorio: lo stesso dove era stata rinchiusa anni prima.
Quando le viene presentata Erika come “un caso difficile”, Thymian rifiuta di condannarla,prende le sue difese e denuncia apertamente l’ipocrisia e la crudeltà delle istituzioni borghesi, rifiutando di rinnegare il proprio passato e affermando, con dignità, la solidarietà verso tutte le donne “perdute” come lei.

Uno dei film più duri e radicali di Pasbt, che si muove formalmente nei confini del melodramma, ma li trascende con una forza critica e visiva di rara intensità. La protagonista attraversa un percorso di degradazione sociale e morale che non cerca mai la facile redenzione, ma mette impietosamente in luce le ipocrisie della società borghese. Un universo chiuso e opprimente, dove famiglia, riformatorio e bordello sono tre volti della stessa istituzione repressiva.

9. Thymian, la protagonista di Diario di una donna perduta

Thymian è un personaggio complesso e sorprendente, più sfaccettato perfino della ben più celebre Lulù. Vittima di un abuso, respinta dalla famiglia e poi costretta alla prostituzione, non perde mai del tutto la capacità di osservare il mondo con lucidità. La sua apparente innocenza convive con un crescente senso critico. In origine, la sceneggiatura prevedeva che diventasse maitresse del bordello, ma il finale, in cui sposa l’anziano conte Osdorff non è affatto conciliatorio: il suo rifiuto di condannare la vecchia amica Erika è un atto di ribellione morale, un’accusa senza sconti al perbenismo ipocrita delle istituzioni filantropiche, le “dame di carità”.

Nonostante i tagli della censura, il film conserva una potenza visionaria e simbolica straordinaria. Indimenticabili le scene nel riformatorio, pervase da un sadismo quasi kafkiano, come pure l’erotismo cupo e privo di compiacimento che attraversa il bordello. Louise Brooks sensuale e indimenticabile.

MISS EUROPA

Nel frattempo Prix de Beauté, come annunciato dalla stampa il 24 agosto 1929, aveva trovato un regista, l’italiano Augusto Genina, che per la SOFAR aveva appena girato Quartier latin. Erano gli anni in cui il cinema stava scoprendo il sonoro e al film, iniziato come muto, furono inserite a metà riprese delle sequenze parlate in quattro lingue: inglese, francese, tedesco e italiano. Uno dei primi casi di doppiaggio nella storia del cinema. Hélène Regelly prestò la sua voce a Louise Brooks per la versione francese, Donatella Neri per la versione italiana.

10. Prix de beauté (1930) di Augusto Genina

Dopo un’anteprima a Milano il 12 aprile del 1930, il film, accompagnato dal titolo Miss Europa, venne presentato a Parigi il 9 maggio dello stesso anno.

Lucienne Garnier (Luciana nella versione italiana, Louise Brooks) è una giovane dattilografa parigina di umili origini che lavora nello stesso giornale in cui il fidanzato André (Georges Charlia) e l’amico Antonin (Augusto Bandin) fanno i tipografi. Convinta da una collega, e senza dirlo al compagno, partecipa a un concorso di bellezza internazionale. Eletta trionfalmente “Miss Europa”, Lucienne viene catapultata in un mondo scintillante fatto di viaggi, fotografie, attenzioni e promesse di successo. Tra i suoi corteggiatori, oltre ad un maharaja (Yves Glad), c’è il ricco principe Grabovsky (Jean Bradin), ma la ragazza rifiuta le sue avances per restare fedele al suo fidanzato. Tuttavia, il rapporto con André si incrina rapidamente: l’uomo, ossessivamente geloso, mal sopporta la crescente notorietà della giovane (riceva tra l’altro centinaia di lettere), e vorrebbe che tornasse alla vita modesta di un tempo. Quando Grabovsky le propone una carriera nel cinema, Lucienne accetta, desiderosa di realizzare i propri sogni, e abbandona André. Un giorno, mentre in una sala cinematografica si proietta il suo primo film, André, consumato dalla gelosia e incapace di accettare il cambiamento della donna che amava, la raggiunge e la uccide. Mentre Lucienne esala il suo ultimo respiro, la sua immagine continua a vivere sullo schermo, icona tragica di un sogno infranto.

Un melodramma che ruota attorno al desiderio erotico suscitato dallo sguardo altrui. Louise Brooks, restò fedele al suo personaggio di diva anticonformista e spregiudicata, irresistibilmente attratta non solo dagli sguardi del principe Grabovsky, ma soprattutto da quello – ben più potente – della macchina da presa, simbolo di fama e successo.

Tra preziose annotazioni di costume – come il mondo effimero dei concorsi di bellezza degli anni Trenta (ne venne creato uno finto, quindi le reazioni del pubblico sono vere) – e sottili giochi di seduzione, il film scorre con un ritmo insolitamente pacato per il genere. Al centro c’è un erotismo rarefatto, diffuso, che trova il suo contrappunto nella monotonia e nella frustrazione della vita coniugale borghese, rappresentata nel rapporto con André.

11. God’s Gift to Women (1931) di Michael Curtiz

Il film, come i precedenti diretti da Pabst, fu un insuccesso. La sua recitazione naturale, non venne apprezzata dal pubblico dell’epoca più abituato ad interpretazioni teatrali. Louise Brooks decise così di tornare negli Stati Uniti nonostante l’invito di Pabst a rimanere. Rientrata negli USA recitò in God’s Gift to Women (1931) del futuro regista di Casablanca Michael Curtiz, It Pays to Advertise (1931) ancora diretta da Frank Tuttle e Windy Riley Goes Hollywood (1931), diretto dal “rinnegato” di Hollywood Roscoe “Fatty” Arbuckle sotto lo pseudonimo di William Goodrich.

Sempre nel 1931 William A. Wellman, che l’aveva già diretta in Beggars of Life, la contattò per interpretare la protagonista, accanto a James Cagney, di The Public Enemy (Nemico pubblico). Poteva essere l’occasione del rilancio, ma Louise rifiutò per recarsi a New York a trovare il suo amante dell’epoca, George Preston Marshall. La parte andò così a Jean Harlow, che da quel film lanciò definitivamente la sua carriera. Secondo il biografo Barry Paris: “rifiutare la parte in Nemico pubblico segnò la vera fine della carriera d’attrice di Louise Brooks”. Ironia della sorte finì anche il rapporto con Marshall. Per sopravvivere, Louise Brooks lavorò come ballerina nei night club. Lo faceva divinamente.

Nel 1933 visse un breve matrimonio, durato cinque mesi, con il milionario di Chicago Deering Davis. Ebbe quindi una relazione con William S. Paley, fondatore della CBS. Amava speculare sulla sua sessualità e benché fosse eterosessuale raccontò di aver trascorso anche una notte di sesso, ovviamente mai confermata, con la divina Greta Garbo.

12. al fianco di John Wayne in Overland Stage Raiders (1938) di George Sherman

Tornando al cinema, tentò un rientro nella seconda metà degli anni Trenta, ma riuscì a recitare solo in quattro film. Ottenne una piccola parte nel western Empty Saddles (1936) di Lesley Selander; apparve, non accreditata, come membro di un coro in When You’re in Love (1937); fu presente in alcune scene, poi tagliate, di King of Gamblers (1937), pare con qualche richiesta di troppo da parte del produttore. Infine, fu protagonista, ma irriconoscibile, con lunghi capelli, in Overland Stage Raiders (1938) di George Sherman, accanto a un giovane John Wayne. Poi, più nulla.

“C’È SOLO LOUISE BROOKS”

In tanti, a partire da Pabst con quale dopo aver finito di girare Lulù ebbe un’unica notte d’amore, l’avevano avvertita che a Hollywood senza più film, avrebbe fatto la escort. “Le uniche persone che volevano vedermi erano uomini che volevano andare a letto con me” dirà anni dopo. Tornò in Kansas, dove fu disprezzata dagli abitanti per la sua “dubbia moralità”. Si trasferì allora a New York, tentando senza successo di aprire uno studio di danza. Lavorò in radio, scrisse articoli di gossip e finì per fare la commessa in un negozio sulla Fifth Avenue. Quindi di nuovo la escort. Pensò anche al suicidio.

Tutto sembrava finito. Louise Brooks, la diva silenziosa del cinema muto, era scomparsa dalla scena e dalla memoria collettiva. Ma nel 1953 il critico Henri Langlois, direttore della Cinémathèque Française, la riportò alla luce con una frase destinata a diventare leggendaria: “Non c’è nessuna Garbo! Nessuna Dietrich! C’è solo Louise Brooks!”.

Fu la (tardiva) riscoperta. La ritrovarono anche fisicamente. Se ne stava rintanata in un piccolo appartamento a New York con più alcol nelle vene che sangue. James Card, curatore cinematografico della George Eastman House, la convinse a scrivere delle storie di cinema, tra autobiografia e curiosità. Una biografia l’aveva anche scritta, ma in un momento di depressione l’aveva data letteralmente alle fiamme.

Sette saggi di memoria, splendidi per acume e concisione, sul tramonto feroce del cinema muto, “Dal Kansas a New York”, “Sul set con Billy Wellman”, “La nipote di Marion Davies”, “Humphrey e Bogey”, “L’altro volto di W.C. Fields”, “Gish e Garbo” e “Pabst e Lulu”, vennero raccolti nel volume “Lulù at Hollywood” (“Lulù a Hollywood”, edito in Italia da Ubulibri), uscì nel 1982 quando i suoi grandi film europei erano tornati sullo schermo.

13. “Non c’è nessuna Garbo! Nessuna Dietrich! C’è solo Louise Brooks!”

Negli ultimi anni, Brooks evitò le luci della ribalta ma mantenne rapporti con storici del cinema come John Kobal e Kevin Brownlow. Apparve in documentari come Memories of Berlin: The Twilight of Weimar Culture (1976), prodotto e diretto da Gary Conklin, e Hollywood (1980) diretto da Brownlow e David Gill. Non solo. Lo scrittore cinematografico Kenneth Tynan la descrisse nel suo saggio “The Girl in the Black Helmet”, nel 1982 il giornalista Tom Graves raccontò un incontro avuto nel suo piccolo appartamento. Una sua rara intervista video è anche in Lulu in Berlin, girato negli anni settanta ma uscito solo nel 1984. Praticamente un testamento.

L’8 agosto 1985, all’età di 78 anni, Louise Brooks morì per un infarto nel suo appartamento di Rochester, New York, dopo aver sofferto per molti anni di osteoartrite degenerativa all’anca e di enfisema polmonare. Oggi riposa nel cimitero Holy Sepulchre di Rochester.

“Sono una bionda con i capelli neri”, disse di sé. Quei capelli corvini, quel celebre caschetto, diventati fonte di ispirazione per molte attrici nel corso dei decenni. Liza Minnelli si ispirò a lei per creare il personaggio di Sally Bowles in Cabaret (1972) di Bob Fosse. Allo stesso modo, Melanie Griffith, in Something Wild (Qualcosa di travolgente, 1986), interpretò la protagonista che si fa chiamare Lulù. Anche Isabella Rossellini, nel film Death Becomes Her (La morte ti fa bella, 1992), ne evocò l’eleganza e il mistero. Fino ad arrivare al celebre caschetto nero di Uma Thurman in Pulp Fiction (1994), altra citazione dell’immagine indelebile lasciata da Louise Brooks.

L’inizio della sua carriera è stata, inoltre, raccontata in The Chaperone (2018) diretto da Michael Engler. Nel film la giovane e ribelle Louise Brooks (Haley Lu Richardson), lascia la sua città natale per studiare danza a New York. A farle da accompagnatrice (la “chaperone”) viene scelta Norma Carlisle (Elizabeth McGovern), una donna della buona società, conservatrice e apparentemente irreprensibile.

Ma Louise Brooks non è stata fonte di ispirazione solo per il cinema. La sua figura è richiamata in diversi romanzi, tra gli altri, “La invención de Morel” scritto dall’argentino Adolfo Bioy Casares, “American Gods” di Neil Gaiman, “Just One Day” e “Just One Year” di Gayle Forman che chiama la sua protagonista Lulù.

E poi c’è la musica. Gli Lotus Eaters nel 1985 inserirono spezzoni dei suoi film del videoclip della canzone “It Hurts”, nel 1991 il gruppo inglese OMD dedicò all’attrice la canzone “Pandora’s Box”. Nel 2011 la omaggiarono anche Metallica e Lou Reed nel loro album “Lulu”.

14. Louise Brooks vista da Davide Sacco

E in Italia? Nel 1985 i Litfiba pubblicarono, all’interno dell’album “Desaparecido”, la canzone “Lulù e Marlene”, inutile precisare le fonti di ispirazione. Dichiarato e diretto è anche l’omaggio di tre celebri fumettisti. Hugo Pratt realizzò un ritratto ad acquarello dell’attrice, intitolato semplicemente Louise Brooks; inoltre, nella serie “Favola di Venezia”, introdusse un personaggio chiamato Louise Brookszowyc, con evidenti riferimenti all’attrice. Come quelli di Attilio Micheluzzi che si ispirò a lei per creare la sua eroina più nota, la sensuale e intraprendente Petra Chérie. Infine, l’omaggio forse più celebre: Guido Crepax si ispirò a Louise Brooks per disegnare la sua iconica Valentina, diventata a sua volta un simbolo di femminilità libera e moderna.

Femminista ante litteram, anticonformista, ribelle, antirazzista (polemizzò frontalmente con l’ex compagno Marshall), attenta al problema degli ultimi e degli emarginati (come emerge da suoi scritti tra gli anni ’50 e ’60), Louise Brooks rimane una figura irripetibile del panorama culturale del Novecento. Ma per gli appassionati di cinema di tutto il mondo e di ogni generazione, fu, è e resterà Lulù, l’incarnazione dello “spirito della terra”, l’emblema della femminilità allo stato puro e incosciente, il simbolo dell’amore che finisce per distruggere se stesso. Una delle più grandi attrici del cinema muto. Il più grande regalo fatto da Hollywood all’Europa.

MARCO RAVERA

redazionale


Fonti e bibliografia
“Lulu a Hollywood” di Louise Brooks – Ubulibri
“Georg Wilhelm Pabst” di Enrico Groppali – Il Castoro
“Augusto Genina. Il prezzo della bellezza” – Cineteca di Bologna
“Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco” di Siegfried Kracauer – Lindau
“Da Caligari a M. Cinema espressionista e d’avanguardia tedesco” – Museo del cinema
“Guida al film” a cura di Guido Aristarco – Frabbri Editori
“Storia del cinema e dei film” di David Bordwell e Kristin Thompson – Lindau
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2023” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

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