Partiamo dal genio in quanto derivazione del verbo latino “gignere” (quindi “generare, produrre“). La generazione è per l’appunto ciò che segue in quanto proveniente da quel che già c’era e che ne ha dato seguito, vita, esistenza. Tra i tanti prodotti dell’umanità, uno di questi è il concetto di “identità” su cui si sono costruite società, si sono inventati popoli, nazioni, Stati, su cui si è cultureggiato a proposito e a sproposito.
Quel genio che è stato (e rimane) Carmelo Bene, nella sua ingenerazione, decostruzione dell’esistente come granitico emblema costante della coerenza a tutto tondo, maledice l’identità, nel senso che ne dice proprio male. Altro non sarebbe se non qualcosa di cui sbarazzarsi, di cui liberarsi. Altro non è, a pensarci con una certa accuratezza, se non un vero e proprio «intrattenimento dell’essere con sé stesso»: da Parmenide fino a nostri tempi.
Perché ci occupiamo della nostra identità? Perché ne abbiamo bisogno a partire dall’autocoscienza che ci riguarda un po’ singolarmente nel regno dell’animalità e degli esseri senzienti. Sappiamo di esistere e siamo istintivamente portati ad assumere, oltre la nostra fisicità, anche una immagine morale di noi, una fisionomia ideale che si attaglia a quella oggettivamente visibile e riscontrabile attraverso i sensi. L’identità non è qualcosa che si può toccare, odorare, respirare. Ma, se partiamo dal presupposto che vi è una certa correlazione tra “somiglianza” e, appunto, l'”identità“, allora è più facile comprendere come ciò che diciamo di essere riguarda prima di tutto ciò che ci caratterizza unicamente.
Prima di tutto l’identità della specie: nella complessità dell’esistenza, l’animale umano somiglia all’animale non umano scimmia. Ma non al delfino. Non al gufo, non alla lucertola. Dunque, l’identità è anche somiglianza, visto che non può essere uguaglianza in tutto e per tutto. Gli esseri umani differiscono per tratti somatici, colore della pelle e molte altre peculiari caratteristiche. Quel “divenire” che Carmelo Bene riprende da Deleuze, e che è la negazione di qualunque possibile formulazione dell’identitarismo come corrente cultural-antropologica che declini ontologicamente l’essere dell’identità, nega proprio il fatto che identità voglia significare perfetta sovrapposizione degli identici.
Nessun essere vivente, nessuna cosa è identica ad un’altra. Le differenze permangono e, a partire dall'”Aguzzate la vista” di enigmistica memoria, e nulla è mai identico a sé medesimo da un istante all’altro. Il continuo mutamento della materia di cui è composto l’Universo ne è la prova: l'”identicità” non esiste se non come concetto astratto, come elucubrazione mentale e continua masturbazione quasi fisiologica di una voglia di impertubabilità propria dell’essere autocosciente umano.
Siamo, quindi, nel campo della mera finzione – riconosciuta anche da Jung – nel momento in cui ci proniamo ad adorare il feticcio dorato dell’identitarismo come elemento quasi sovraculturale e sovraordinante le nostre pseudo-moderne società del neonazionalismo imperante. Chi costruisce sull’identità, alla fine costruisce sul nulla. Su un breve, medio termine potrà anche rivendicare un risultato nell’aver individuato quella determinata connotazione etnico-social-culturale… Ma, la mutevolezza del tutto, che è visibile nella storicizzazione, quindi nell’acquisizione esperienziale del passato, dovrebbe insegnarci che non vi è nulla di immarcescibile.
L’Italia esisteva ieri ed esiste oggi. Tra qualche secolo o millennio potrebbe non esistere più nemmeno come l’abbiamo imparata a conoscere geograficamente: i continenti si muovono, la terra subisce il processo di trasformazione che è proprio di tutte le cose visibili e invisibili. Quindi lo Stivale si contorcerà, sarà spazzato via dalla risalita delle acque (sempre più vicina, vista la devastazione ambientale cui sottoponiamo il pianeta), e l’identità italiana sarà un mero ricordo. Quel voler essere a tutti i costi qualcosa è una prigione in cui ci poniamo per sentirci “qualcuno“, per non essere anonimi.
Ma l’anonimato non è sinonimo di annichilimento, di inesistenza. Tutto ciò che noi osserviamo, se prescindesse da noi, come del resto prescinde, non avrebbe una “identità” che noi pretendiamo abbia proprio ontologicamente parlando. La pietra è una pietra perché noi le abbiamo dato questa identità. Ma la pietra è e basta. Certo: noi sentiamo il bisogno di dare a tutto ciò che ci circonda, e a noi stessi per primi, un senso e una correlazione, una interdipendenza. Facciamo parte di un’esistenza di cui è impossibile scoprire proprio il “significato” e, quindi, il minimo che possiamo fare per sopravvivere con questa angoscia è creare un piccolo sensato mondo.
L’antropizzazione del mondo è, in fondo, un disperato grido lanciato nell’Universo per dire: ecco, noi siamo gli esseri umani e siamo coscienti di esserlo. La nostra identità è questa e quella degli altri è proprio quella che abbiamo dato loro e che ci è familiare perché è il frutto di una nostra catalogazione meticolosa. Il codice funziona: sebbene gli umani parlino lingue molto differenti fra loro, l’identità, che procede per gradi, ha una logica (se dicessimo “sua” le conferiremmo quel carattere ontologico che invece non le è proprio).
Francesco Remotti, professore emerito di Antropologia culturale presso l’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia dei Lincei, ha, tra le tante sue opere illustri, scritto un interessante saggio proprio su “L’ossessione identitaria” (Laterza, 2017 – 2019) che mette in luce proprio il rapporto stretto che intercorre tra l’identità e quello che viene definito l'”impoverimento culturale” che ne è premessa, mantenimento e conseguenza ulteriormente aggravata da una sempre maggiore esagerazione. Remotti riconosce senza troppa difficoltà che la ricerca dell’identità ha un suo presupposto ma l’identitarismo la perverte.
La fa, in sostanza, divenire altro da quello che è: la necessità tutta umana di darsi un posto in questo mondo e di non impazzire guardandosi intorno e facendosi quelle mille, eterne domande che l’umanità si fa da quando ha maturato biologicamente la possibilità di comprendere, di comprendersi, di avere consapevolezza dell’esistenza. Fatto sta che l’identitarismo è una semplificazione delle caratteristiche degli esseri viventi, tale da condurre ad una trattazione superficiale delle differenze che, per questo, vengono stigmatizzate invece che valorizzate.
L’identità, come scudo di protezione contro l’incomprensibilità, è esacerbata dalla preservazione a tutti i costi di sé stessa. All’identitario – sostiene Remotti – restano due strade da percorrere: un permanentismo dell’essere in quanto tale, di noi come se fossimo imperturbabili e imperituri, e dunque l’identità ha un suo significato quasi mitologico, oppure la condiscendenza rispetto al fatto che la mutevolezza dell’esistente è irrefrenabile e che ne siamo parte. Dunque non esiste nessun “IO” proclamabile con la sicura certezza che sia tale.
Ognuno di noi pensa di essere IO ma è un molteplice assemblaggio di altri concetti e anche di tante esperienze che ci condizionano tanto da impedire una (ci risiamo…) ontologica unicità. L’unicità non è pluralizzabile: non esistono gli unici, ma ognuno è e rimane unico proprio per le differenze che, nelle somiglianze, porta con sé. Noi le accantoniamo e pensiamo che l’identità sia un qualcosa per cui farci valere e primeggiare: abbiamo così tanto timore di non esistere per quel che vorremmo essere, che siamo pronti a razzistizzare tutto, a farci la guerra per sopravvivere a discapito di altri.
Anzi, degli altri che non ci somigliano, che sono un tantino più diversi da noi rispetto a chi lo è di meno e che, quindi, può considerarsi nostro afferente e degno di considerazione. La pochezza dell’identitarismo, vera pochezza culturale è anche qui. Non tutta, ma in buona parte si ritrova qui. Nell’astrazione dal contesto più grande dell’esistente e dal recepimento del senso della vita nel micromondo della patrie, delle nazioni, nonché dagli usi, dai costumi. Remotti lo definisce un tentativo di “riduzione della complessità” che fa dell’identità un mito anche e soprattutto dei nostri tempi.
I sacerdoti politici del patriottismo a buon mercato vezzeggiano le masse, le seducono con le promesse di mantenere intatte quelle caratteristiche del loro essere che, per proiettarsi quasi metafisicamente oltre l’angoscia della certezza della morte, vengono fatte rivivere eternamente in un sogno di perpetuazione della propria specie e, nel contesto propriamente dis-umano, del proprio ceppo etnico, della propria nazionalità. Sapere che un giorno ci saranno dopo noi altri bianchi, con i tratti somatici simili ai nostri, ci illude di essere partecipi di una eternità che non è e non sarà mai tale.
Ai giovani del suo tempo, Carmelo Bene invia una supplica: «Regalatela l’identità, regalatela davvero. Fa male lasciarsi strumentalizzare da questi pseudo filosofi che sono dei fascsimili guasti, dei derelitti dell’artigianato di Dio». L’invito è a lasciari andare nell’abbandono mistico, a considerare l’estasi e la perdita di qualunque identità che è gabbia della mente e dell’animo, recrudescenza dell’istinto primordiale di dover sapere “chi siamo“. Non siamo ciò che pensiamo d’essere, perché ciò che noi diciamo d’essere è appunto una formulazione di una autoconsapevolezza unica.
Ci venisse almeno in soccorso un doloroso, ma necessario, relativismo identitario pirandelliano… Oggi si parla spesso di “fluidità” dell’identità di genere. Ma l’intero comparto identitario è soggetyo alla fluidità, perché nel corso dell’esistenza noi siamo a noi stessi mille volti differenti. Le maschere le indossiamo senza indossarle: le nostre espressioni sono fisiognomicamente le caricature di comportamenti e di emozioni che ci abitano e che ci vengono a trovare di volta in volta.
Noi siamo mai veramente solo una persona. Fisicamente sì, anche se lo stesso nostro corpo cambia di continuo fino al decrepitizzare verso la naturale consunzione e la morte. Siamo nel non essere, perché l’essere presuppone una qualche staticità. Ma questa staticità è riscontrabile solamente nell’indecifrabile esistenza dell’Universo che ci comprende, ci include. L’identità è così grettamente piccola e inutile da risultare davvero una mortificazione per quel poco di specialità che noi riteniamo di rappresentare nel silenzio del cosmo, nell’ontologica presenza di ciò che c’è e che, se provassimo a non nominare più, ci parrebbe allora davvero molto più lontana da noi di quello che oggi è.
Dell’identità non fissa e non fissabile, sempre in divenire ci dice praticamente tutto questa semplice espressione di CB: «Io non sono io, e non sarò mai io». Ampiamente (e volutamente) fraintesa dalla conveniente, intrinseca, subconscia voglia di non negarsi in quanto tali, è un epitaffio che meriterebbe una dis-attenzione in-concreta: riconoscervisi non vuol dire aver capito di non essere, ma aver per lo meno intuito che tutto ciò che fino ad oggi abbiamo ritenuto con certezza di essere è invece quanto di più effimero ci non-rappresenti.
L’identità non è, come la volontà, mai veramente buona. L’identitarismo è ancora peggio. Ma continuiamo, per sopravvivere alle angoscianti ciance delle nostre domande irrispondibili, a pensare di essere qualcuno, di rappresentare qualcosa, di avere un qualche ruolo nell’affascinante mistero dell’Universo.
L’OSSESSIONE IDENTITARIA
FRANCESCO REMOTTI
LATERZA, 2017 – 2019
€ 12,00
MARCO SFERINI
25 giugno 2025
foto: particolare della copertina del libro
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