Nessuno sfugge al confronto con la costante complessità degli avvenimenti che sono prodotti dall’antropocentrizzazione del mondo nei confronti del mondo stesso. Siamo noi “animali umani” (perché siamo animali) ad aver introdotto ormai da millenni una mutazione radicale della natura in quanto tale. Mettiamoci a paragone con gli altri “animali non umani“: da esseri senzienti vivono seguendo il loro istinto, magari anche scelgono come comportarsi. Ma lo fanno sempre e comunque entro la naturalità della Natura con la enne maiuscola.
Il loro habitat di vita non è il frutto di una alterazione propriamente materiale dell’ambiente circostante: il castoro costruisce sulle ricche rive di argilla le sue dighe in cui dimora. Gli uccelli trovano riparo tra le frasche degli alberi. Volpi, tassi, orsi si rifugiano nelle tane più o meno grandi e delimitano i loro territori con il loro odore e, ovviamente, con la loro presenza. Noi animali umani, invece, abbiamo utilizzato la nostra potente intelligenza autocosciente per intervenire direttamente nei processi naturali.
Abbiamo, come appunto si definisce questo processo oggettivamente ancora oggi ineluttabile, “antropizzato” il territorio e, dunque, abbiamo costretto la Natura e tutti gli altri esseri viventi a venire a patti con le nostre condizioni di esistenza. Non ci siamo curati molto di un rapporto empatico tra noi e quella che gli indiani d’America così come quelli d’Asia chiamano “la grande Madre“. L’energia primordiale dell’Universo, ricondotta all’osservazione ammirata e ammagliante dello spettacolo naturale, è stata messa da parte.
L’umanità si è estraniata dalla sua animalità e ha fatto di sé stessa la padrona incontrastata di una abitazione globale che la comprende, ma di cui non è l’unica abitante. Noi stessi, tramite la nostra buona che si esprime nella ricerca scientifica (fino là dove non utilizza e sfrutta altri esseri viventi per avere magiore conoscenza…), riconosciamo che tutta la vita sulla Terra è costituita per l’82% da piante, per il 13% da batteri, per il 5% da animali non umani e soltanto dal 0,01% dall’animale umano.
Siamo una nettissima minoranza che, con una inversione proporzionale davvero straordinaria, possiede un’autocoscienza che ci rende – per nostra volontà – i dominatori assoluti del pianeta. La strutturale crisi economica in cui oggi ci troviamo, oltre le soglie del liberismo più spinto nello sfruttamento di tutte le risorse naturali, compresi gli animali non umani allevati massivamente come cibo (negandone quindi l’essenza di individui, di vite che hanno il diritto di esprimere le loro particolarità in modo libero e non sotto l’egida dell’animale umano), è un tutt’uno con la crisi ambientale.
Scrive Rosa Luxemburg a proposito dei grandi passaggi rivoluzionari nella Storia (non solo “umana“) che c’è una sorta di autogoverno del processo evolutivo, anche e soprattutto quando ogni cosa pare persa in un turbinio di eterogenesi dei fini che impediscono di scorgere chiaramente dove e come si va nelle braccia di un futuro inconoscibile per le tante incognite del presente. Nota la grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata tedesca) che «quel che vi è di più prezioso, perché permanente in questo rapido su e giù dell’onda, è il suo precipitato spirituale: la crescita intellettuale e culturale».
Nonostante i rapporti di forza tra le classi determinino oggettivamente il tipo di interazione tra l’animalità umana (quindi tra l'”umanità“), gli altri animali e il complesso meraviglioso dell’equilibrio naturale globale, l’elemento conoscitivo, dettato dal presupposto culturale, quindi dall’apprendimento tramite l’esperienza dei rapporti di causa-effetto esistenti tanto nel nostro micromondo terrestre quanto nell’Universo osservabile (ma altamente inconoscibile), non è affatto secondario rispetto alla nuda e cruda materialità delle cose.
Il processo dialettico della Natura ci include in senso proprio, perché ne facciamo parte in tutto e per tutto, ma ci consegna, con l’evoluzione complessa del nostro cervello, della nostra mente-coscienza, un compito tanto alto quanto è la potenzialità dell’autoconsapevolezza dell’essere e dell’esserci. Senza scadere in un discorso di oziosità ontologica, basterebbe assumere su noi stessi un portato etico da inquadrare antropologicamente anche nello sviluppo complessivo dell’essenza dell’animalità umana in quanto espressione di una differenza dall’alto contenuto valoriale.
Noi siamo un valore, appunto, per la Terra, per il mondo intero, solamente se sappiamo mettere a frutto la nostra spiccata intelligenza e la nostra autoconsapevolezza senza farne uno strumento di privilegio, ma disponendone, in parte scientificamente e cognitivamente, come mezzo per il miglioramento dell’esistenza di ogni ambito naturale, di ogni essere vivente senziente o meno che sia. Rosa Luxemburg lega la lotta per l’emancipazione umana ad una evoluzione completa dell’esistente. In questo perimetro di umanesimo di nuova generazione, la critica all’economia politica borghese è rivolta anche culturale.
Così, essendo non solo espressione di una ribellione meramente materiale, la lotta di classe assume i connotati di una liberazione molto più ampia rispetto al ristretto (eppure importante) concetto di “emancipazione umana“. La disumanizzazione del sistema capitalistico è l’ultimo, ma non ultimo…, prodotto dell’antropocentrizzazione del mondo e della scissione della specie umana in sottospecie nazionalizzate, rese nemiche le une delle altre nel nome di una peregrina ricerca della sopravvivenza a tutti i costi e a scapito di intere comunità, di popoli esclusi dalla sovrapproduzione e, quindi, dalla ripartizione dei “surplus” generati.
La maledizione mondiale si chiama, dunque, “economia“. Non è un prodotto naturale, se non in relazione alla sovraordinazione tutta umana oltre l’animalità che la riguarda, oltre ogni minima considerazione del rapporto con il resto dell’esistente, della vita, della Natura. La politica in quanto tale, come esercizio sincretico del pensiero, del rapporto empirico con la determinazione tra causa ed effetto nella formazione dei fatti, quindi l’esperienza propriamente tale, sono fenomeni intrinseci alla socialità umana ma Rosa Luxemburg si proietta anche oltre tutto questo.
Questa umanità svalorizzata dal capitalismo, orientata soltanto alla perpetuazione dei privilegi di classe, la riguarda anzitutto come questione complessa e interagente con il resto della naturalità. Lo stesso concetto di “democrazia” che si trova nei suoi tanti elaborati critici dell’ortodossia (anti)marxista propria di quelli che si pensavano in allora gli eredi del Moro nella postulazione socialdemocratica delle azioni politiche, parlamentari e non, è profondamente eterodosso e smentisce tutta una narrazione banalizzante che ha inteso ridurla ad una romantica sognatrice rispetto al pragmatismo leninista.
Oggi più che mai, scavalcato il limite del punto di non ritorno nel dramma cogente della crisi ambientale, del disastro anti-ecologico in cui ci troviamo a sopravvivere, l’attualità del pensiero luxemburghiano è più che evidente. Il Novecento è il secolo delle guerre e delle rivoluzioni ed è, quindi, il contesto in cui la forza si impone sulla debolezza che, quindi, viene considerata come una sorta di pericoloso inganno deturpante la bellezza tanto futuristica della purificazione bellica quanto quella socialisteggiante della liberazione umana dalle catene del profitto.
L’invito di Rosa Luxemburg, invece, va ovviamente nella direzione della rivoluzione ma, andando per questa via, non tralascia di rivalutare la fragilità e la caducità dell’esistenza di cui è impossibile afferrare il senso. Le sue lettere a Leo Jogiches rappresentano una affascinante commistione tra personale-privato e politico-pubblico, dimostrando l’assoluta non contraddizione del mostrarsi come donna, come essere vivente nel contesto di una società troppo sicura di sé stessa, che non tradisce emozioni se non per sopraffare.
La debolezza diventa, come scrive Dario Renzi in una bella biografia della rivoluzionaria polacco-tedesca, «la forza della sensibilità» che è sprone autocritico continuo, impedimento al rilassarsi su opinioni preconcette, su affastellamenti di elucubrazioni che hanno dimenticato i primordiali spiriti effervescenti che fecero scrivere a Marx e ad Engels tanto i primi atti della Lega dei comunisti quanto il “Manifesto” per antonomasia.
La vita in quanto ricchezza di singolarità e di contraddizioni è per Rosa Luxemburg un continuo intersecarsi di relazioni che sono processi molteplici nella loro espressione relazionale col plurale così come nell’intima rielaborazione disperantemente solipsistica che, dunque, trova il compimento del proprio agire in un microcosmo tutto proprio e che, via via che si proietta nel macro, nel grande, nell’immenso, nell’eterno e nell’infinito, disperde questa ragione d’essere e tutto le appare meno importante, trascurabile ma non per questo privo di un conturbante fascino.
L’esistenza della sensibilità è, quindi, la ragione della lotta per la sua difesa: nessuna sofferenza merita di essere prodotta, indotta, causata. Sono sufficienti quelli già disposte dalla Natura che, per questo, può anche sembrare matrigna oltre che madre. La benedizione della condizione intelligente è mortificata dalla presunzione di quella che Kafka chiama l'”angoscia della posizione eretta” e che viene sintetizzata così in una delle “Lettere a Felice [Bauer]”, la sua fidanzata:
«Se non ti fossi sdraiata in terra in mezzo agli animali, non avresti potuto contemplare il cielo stellato e non saresti stata salvata.. Forse non saresti neanche sopravvissuta all’angoscia della posizione eretta. Lo stesso succede anche a me; è un sogno che abbiamo in comune, che tu hai sognato sia per te che per me».
Che cos’è quello stare in piedi, su due piedi? Quel bipedismo dritto e stiloso, esibito tronfiamente da molti animali umani è l’umanità come portamento dell’alterigia, dell’essere appunto altro dagli altri in senso specista, come superiori al resto del pianeta. Parte della Natura ma anche dominatori della medesima. Per percepire quell’umanesimo egualitario e socialista che Rosa Luxemburg persegue ovunque e comunque, bisogna fare come nel sogno di Felice: sdraiarsi a terra.
Da lì, dal contatto geo-antropologico con la nudità del pianeta, si è direttamente in connubio con la superficie e non si è più tanto oltre la stessa. Non la si tiranneggia, ma si cerca di assottigliarsi al punto da diventare parte della Terra medesima. Però, si badi, non è un appiattimento morale, una costrizione antietica, una violazione del codice intimo della sensibilità nel nome di una uguaglianza livellatrice a tutti i costi. Tutt’altro.
È qualcosa di veramente rivoluzionario: il cambio del punto di vista, dell’altezza vera e propria dell’osservazione. Non è più dall’alto in basso, ma assolutamente circostante: noi diventiamo l’intercapedine tra cielo infinito e terra finita e finibile tramite l’antropocentrismo, lo specismo e ogni sorta di contorsione malevola del sistema economico che ci ostiniamo a tollerare. Siamo quindi l’ago di una bilancia che oscilla perigliosamente verso un annullamento di noi stessi.
Come il nome di Kafka stesso che – nota acutamente Elias Canetti – finisce per annullarsi e scomparire tra le pagine dei suoi libri e delle sue lettere. Un rattrappimento di sé stessi che non è incoscienza, voglia di inconsapevolezza, eremitaggio soliloquente. Ma è il dramma della presenza in un mondo in cui il dolore sovrasta la bellezza dell’esistenza, della vita, di ogni specificità e pluralità. Contro questa drammatica involuzione dell’animalità umana nella più feroce umanità proclama e difesa, il socialismo dell’oggi ha il dovere di porse come movimento di liberazione totale: non solo per i sapiens, ma per qualunque essere vivente.
MARCO SFERINI
9 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria