Tra gli argomenti esclusivamente aristotelici che riguardano un finalismo dato dal moto degli eventi, delle cose, della realtà si scorge il presupposto su cui poggia la prima della cinque “vie” che Tommaso d’Aquino adotta per tentare la dimostrazione dell’esistenza di Dio. La questione riguarda precipuamente il movimento, l’incessante divenire del tutto e di ogni particolare in questo. La perpetuità del moto non può procedere all’infinito, perché altrimenti se non vi fosse un motore primo da cui inizia il processo stesso del movimento, nulla vivrebbe nella continua mutazione e nella trasformazione che invece è sotto gli occhi di tutti. Quindi, ne conclude Tommaso, questo principio cinetico primordiale altro non può essere se non Dio stesso.
L’argomentazione poggia sull’affermazione di un assunto oltremodo logico e constatabile empiricamente: il muovere è esso stesso sinonimo di trazione dalla potenza all’atto. Qualcosa che è in divenire lo è perché spinta verso una sorta di conclusione di un ciclo di evoluzione, di mutamento. Se dal presupposto di sé medesima diviene concretezza di sé stessa, raggiunge quindi la sua naturale e giusta conclusione (che tuttavia non è imperitura ma soggetta alle trasformazioni successive). Sembrerebbe oggettivo, quasi ontologico supporre che ad una azione ne corrisponde un’altra e a questa un’altra ancora. Perché non esiste niente di separabile dal mondo nel mondo stesso e, dunque, tutto si condiziona, se non direttamente, certamente indirettamente.
L'”effetto farfalla” ante litteram, dunque. La prova dell’esistenza di Dio, dunque, sarebbe data, sempre si intende nell’ambito del creazionismo, dal fatto che il moto non nasce da solo, non esiste senza una causa che conduce ad un effetto, ma questo rapporto dialettico deve avere un inizio pur non riuscendo ad intravederne una fine. Per quanto ci si possa sforzare di stabilire che questa causa è Dio, l’argomentazione non può avere un carattere ontologico in sé e per sé, visto che l’aposteriorismo delle cinque argomentazioni di Tommaso sull’esistenza della divinità non poggiano su elementi concreti ma rimangono pur sempre delle mere supposizioni. Il “suppositus“ è qualcosa che si mette sotto, che quindi non è all’origine del discorso ma che viene, per l’appunto dopo delle premesse.
Non vi è quindi la realtà convenibile e constatabile dell’esistenza di Dio per poter dimostrarne l’esistenza stessa. Chiaro e lapalissiano è il fatto che, ogni volta che si vuole tentare di dimostrare l’esistenza di un qualcosa di metafisico, si parte dal prescindere dal fisico e, dunque, ci si deve affidare ad una presenza divina nel mondo supposta, ipotizzata per chi non ha fede – direbbe Anselmo d’Aosta – e affidata invece alla reale conoscenza acquisibile mediante la fede. Qui si capovolgono razionalità e credenza: per cui dalla prima, se si tratta di Dio, non può venire alcuna certezza dell’esistenza dello stesso, visto che il divario tra mente umana e mente divina (definiamola così…) è tale da non potere essere colmato dalla logica, dal raziocinio.
Ci si deve quindi affidare ad un livello di oltre-ragione, che non solo sorpassa il mondo del sensibile e se ne distacca per elevarvisi, ma che determina le condizioni essenzialmente fondamentali per arrivare timidamente a comprendere il mistero divino, la sua esistenza certa visto che è «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore». Mentre Anselmo sceglie la dialettica come metodo di elaborazione concettuale che permetta di addivenire ad una sorta di veridicità dei suoi costrutti concettuali, Tommaso stabilisce quasi aprioristicamente che la Fede da sola non è sufficiente per spiegare, per intendere, per comprendere l’esistenza di Dio. La Ragione deve poterla supportare. Questa affermazione nasce dalla considerazione che anche quest’ultima è un prodotto divino e, dunque, se ne deve rispettare la funzione.
Dove però – sostiene Tommaso – la Ragione dovesse incappare in errori e incongruenze, allora il passo successivo, per rimediare a queste manchevolezze argomentative o dimostrative dell’esistenza di Dio (e riguardo ovviamente altri problemi di natura piuttosto teleologica), soltanto la Fede può rimediare e ristabilire una “logica” che eviti il contrasto e la dicotomia tra mente e sentimento, pensiero e presupposizione, freddo calcolo cerebrale e trasporto empatico verso l’accogliente, paterno, protettivo abbraccio dell’inclusione divina dell’essere umano nella complessità del Creato. Così, quasi a rincorrere un punto di principio sempre ontologico, Tommaso parla di “causa efficiente“, che supera le particolarità del sinolo aristotelico e si allarga al mondo intero come espressione sempre della volontà divina.
Anche in questo caso, riguardo questa seconda “via“, ci si ritrova nel processo di infinità non plausibile: ogni cosa può essere, logicamente e anche praticamente, considerata l’effetto di una causa. Ma questa serie di cause, a loro volta causate da altro, non possono farsi risalire all’indietro senza un limite, senza una fine o, per meglio dire, un principio del fine che le ha prodotte. La deduzione più semplice è data dalla “causa sui“, in sostanza dalla “causa non causata” che è, quindi, Dio, ingenerato, innato, nemmeno “infinito” perché sempre esistito oltre lo spazio e il tempo, oltre ogni possibile umana immaginazione. Ha ragione Anselmo: se si scorrono avanti e indietro le prove dell’esistenza del divino e i tentativi di accertarne la concreta presenza nel mondo, la nostra ragione sfugge, si allontana dalla possibilità della comprensione.
Stride quindi l’acuminatezza dei presupposti legati alla metafisica dei concetti e della concettualità, di contro, che comunque trova un riscontro nella realtà che ci circonda e di cui siamo parte. Cosa si propone invece Anselmo? Di far uscire l'”insipens” dal suo stato di incredulità, di apatia antiteologica, di esclusione della fede e dalla fede. Qui entrano in gioco tutta una serie di raccomandazioni sul potere della grazia divina, sulla luce che emanerebbe e sul fatto che chi la rifiuta impedisce a sé stesso di poter concludere un rapporto diretto con la conoscenza vera del mistero di Dio che, in quanto tale, dovrebbe – a rigor di logica – rimanere tale, non leggibile mediante le categorie limitatissime della mente umana. Eppure, un po’ come accade per i sacramenti che rimangono al miscredente che se ne vorrebbe separare da adulto, mentre la Chiesa li conferma come compresenti sempre nello status dello stesso, Anselmo tenta l’impossibile.
Ossia, prova a dimostrare che anche l’insipiente c’è quell’idea di un Dio di cui non è pensabile nulla di maggiore. Ed attenzione: qui non si tratta tanto di tradurre la frase «ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore» in “ciò che è maggiore di ogni cosa“. Non si tratta di una superiorità quantitativa, ma qualitativa: Dio è l’essere oltre cui nulla è pensabile, ipotizzabile, definibile. Dio è l’ultimo pensiero possibile perché è perfezione, assolutizzazione di tutto e nulla è al di fuori di Dio stesso. Del resto, se l’intenzione era quella di affermare che deve esistere per forza un principio primo di tutto, logicamente se ne deve dedurre che questo principio deve avere tutte quelle qualità opposte rispetto a ciò che qui ed ora esiste.
Se noi siamo parziali, Dio è totale, completo, intero. Se noi difettiamo in conoscenza, Dio è onnisciente. àSe noi possiamo trovarci in un momento dato in un preciso e unico luogo, Dio è invece ovunque. L’onnipresenza divina è una definizione teologico-filosofica che corre e ricorre nel pensiero tanto della patristica quanto dei pensatori che avranno un tratto nettamente laico e che resteranno affascinati da questa opposizione tra finito ed infinito, tra il confinabile e il senza confine alcuno, tra la circostanza singolare delle nostre esistenze e l’inimmaginabile del “SEMPRE ESISTITO” che riguarderebbe Dio e, se vogliamo declinare il tutto in una espressione un po’ differente e meno teleologica, l’Universo come Grande Mistero, questo sì, oggettivamente esistente.
Tutte le qualità che non sono riscontrabili nell’essere umano, negli animali e nella natura che è soggetta al ciclo di vita, morte, trasformazione continua, Tommaso le deve per forza attribuire a Dio. La loro pensabilità è una possibilità data all’intelletto autocosciente umano che è, per l’appunto, nel mondo del possibile che è reso tale, però, da cosa (o da chi)? La risposta che si dà, riguardo a questa prova dell’esistenza del divino, è il “necessario“: «Se dunque tutte le cose esistenti in natura sono tali che possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualcosa che è». Ed eccola l’ontologia che spunta e fa capolino… L’essere in quanto tale è e non può non essere, Parmenide docet.
Il ragionamento non fa, come si suol dire, una piega: sappiamo che quello che oggi può esistere domani può non esistere più. Sappiamo che, per esempio, molte specie esistenti lo sono state e oggi non lo sono più: pensiamo ai mastodontici dinosauri preistorici. Pensiamo anche alla nostra specie umana: non è certamente eterna. Ha avuto un’origine e avrà una fine. Noi stiamo facendo di tutto per accelerare antropogenicamente questa dipartita dall’esistente, ma è sicuro che un giorno, quando ancora la Terra avrà molta vita davanti, noi umani non vi saremo più. Forse saremo andati a colonizzare altri pianeti… Forze non rimarrà alcuna traccia del nostro essere esistiti in questo Universo. Quindi, Tommaso ha ragione: noi ci siamo oggi ma, si spera tra molto, molto tempo, non ci saremo più.
Quindi noi non possiamo essere definiti, al pari degli altri elementi naturali, come punto di origine del tutto. Soltanto chi è necessario, ed è quindi al di fuori del possibile, è questa origine, ossia Dio. Anselmo, al riguardo, torna sullo scetticismo dell’insipiens e tenta la dimostrazione della presenza dell’idea di Dio nella mente per effetto dell’ascolto delle idee di chi trae la certezza dell’esistenza divina da ciò che ne dice, dalle discussioni, dall’esperienza che, quindi, ne fa stando nel mondo in cui vi è una diffusa idea di Dio non esclusiva, singolare, ma collettiva, condivisa e, anche per questo, dibattuta. L’insipente deve farsi una ragione del fatto che colui che ha fede attribuisce all’esistenza di Dio l’idea di Dio e non viceversa. Il punto, però, sta proprio qui: detta con Cartesio, la res extensa generalmente intesa è priva del pensiero, perché è incosciente della sua esistenza.
L’essere umano è l’unico animale che è oltre ad essere materia è anche res cogitans. Ma di noi stessi siamo certi, sappiamo di esistere, di essere presenti a noi medesimi. Ma di Dio non abbiamo prove materiali della sua esistenza. Per cui il divino è cosmologicamente pensabile come unicità monistica, come perfettamente indentificabile con l’Universo nella sua interezza. Ma, per quanto lo si pensi tale, quindi res extensa e res cogitans compresi nell’esistente che si fa anche autocoscienza umana nella mutazione continua della materia, manca la presenza oggettiva, la di-mostrazione del fatto che è. E questa dimostrazione per noi umani è la presenza concreta e non riscontrabile e rintracciabile nella potenza della Natura, nel meraviglioso mistero del tutto…
Anselmo non può alla fine che prodursi in una professione estrema di fede: «Sic ergo vere es, domine deus meus, ut nec cogitari possis non esse («O signore, Dio mio, così veramente tu sei che non si può pensare che tu non esista»)». Pensare e credere che sia così, per quanto Ragione e Fede si possano interscambiare e sostenere vicendevolmente, è una questione del tutto personale, affidata tanto all’una quanto all’altra…
MARCO SFERINI
5 ottobre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







