L’estensione del conflitto in Medio Oriente è un dilemma che si va via via sempre più chiarendo, ora dopo ora, tra veti incrociati, minacce altrettanto tali e prospettazione di scenari immediatamente presenti di un allargamento della guerra su scala davvero interregionale e sempre più incedente verso una dimensione planetaria. La Russia avverte: se Khamenei sarà assassinato da Israele o dagli Stati Uniti d’America, letteralmente «si aprirebbe il vaso di Pandora». Tutti i mali del mondo rovesciati in questo primo quarto del primo secolo del nuovo millennio. Un bel modo per cominciarlo, non c’è che dire…
Con questa premessa, il minimo che la sinistra può fare è ricompattare un grande movimento internazionale per la pace e, non di meno, per consolidarla, per una giustizia sociale degna di questo nome. Se deve esistere una alternativa a questo sistema capitalistico, liberista che fomenta tutti gli imperialismi possibili, accettando la cifra dei nazionalismi come nuovi protettori degli interessi privati su ogni tipo di scala, tanto locale quanto globale, è bene che sia formato da un binomio che non prescinda dal rapporto tra pacifismo e uguaglianza, tra disarmo e implementazione delle risorse da destinare ai più fragili della società.
Invece il Parlamento europeo che cosa fa? L’esatto contrario: nella furia bellicista di von der Leyen e della maggioranza che sostiene la sua Commissione, approva una proroga dei finanziamenti del PNRR con una importante e tutt’altro che trascurabile precisazione. Quei fondi potranno anche essere utilizzati per scopi bellici, per dare sostegno alle filiere produttive di armamenti. L’esatto contrario di quello che serve all’Europa per entrare nel merito dei conflitti con un piglio diplomatico, come auspicato da Gran Bretagna e Francia anzitutto.
Se non stupisce che le destre di governo votino senza alcun rilievo critico il provvedimento del riarmo nascosto tra le pieghe dei soldi da dare a profusione alle amministrazioni (anche italiane) per sistemare molte incongruenze sul piano soprattutto infrastrutturale e gestionale dei singoli comuni, desta davvero indignazione che il PD faccia il giochetto del votare contro gli articoli del pacchetto che prevedono tutto ciò e poi votare a favore dell’intero documento. Prima NO e poi SÌ. Le spiegazioni di questo comportamento che, molto metaforicamente, si potrebbe definire “ambiguo” possono essere tecnicamente tante. Ma poi è il risultato politico quello che conta.
Vediamo il documento nei particolari: il punto 15 effettivamente apre alla possibilità concreta di dirottare i fondi del PNRR «per contribuire agli obiettivi della Piattaforma per le Tecnologie Strategiche», mentre il punto 18 asserisce che i fondi stessi possono essere «riorientati per stimolare la competitività, la resilienza, la difesa». Saltando al punto 43 si legge che viene richiesto «di consentire investimenti mirati nelle catene di approvvigionamento della difesa, nelle scorte strategiche e nell’innovazione nel settore della difesa dell’Ue». Dunque il provvedimento non assegna direttamente dei fondi alla produzione degli armamenti, ma fa balenare l’ipotesi che, nel caso occorrano e vi siano, i soldi si possono utilizzare anche in quella direzione.
Può una forza progressista, che marcia nelle piazze insieme alla sinistra della pace e del disarmo, poi a Strasburgo votare un testo simile? Evidentemente no. Ma è anche evidente che la discussione nel Partito democratico c’è e ci sarà ancora, visto che una univocità in merito non è mai stata del tutto raggiunta e i distinguo vi sono sempre stati: tanto quando si parlava di risoluzioni in direzione della pace senza se e senza ma, quanto nel momento in cui vi era da affrontare, sia nel Parlamento italiano sia in quello europeo il problema del riarmo e, dunque, dare sempre più sostegno ad una illogica (ma redditizia per le industrie di armi) economia di guerra.
Il PD ha quindi, in questi tempi di guerra quasi globale, la responsabilità davvero storica di scegliere da che parte stare: a costo di separarsi anche da una parte della sua attuale dirigenza e della sua base. Ovvio che, se la scelta fosse quella di andare verso un pacifismo che si accompagni anche alla giustizia sociale e, naturalmente, viceversa, il salto di qualità positivo sarebbe notevole e determinerebbe una presa di posizione certamente ultracritica dell’area bonacciniana, ossia di quella che un tempo si sarebbe definita “la destra del partito“. Quest’atto di coraggio, però, il PD non riesce a farlo, perché gli manca una maturità politica che rompa il cordone ombelicale della sua nascita.
La dualità, la simbiosi tra cultura socialdemocratica e cultura popolare, tra, appunto, giustizia sociale e compromesso con il liberalismo e, almeno nella fase renziana, col peggiore liberismo rappresentato politicamente in veste di forza di governo contro il mondo del lavoro, contro i più poveri di questa Italia pseudo moderna. Al momento, la tenuta su posizioni progressiste è data dal binomio formato tra Alleanza Verdi Sinistra e Movimento 5 Stelle. Per quanto, ad andare indietro nel tempo, di contraddizioni se ne incontrino. Un po’ per tutte e tutti. Meglio quindi riferirsi al presente e osservare evoluzioni e involuzioni delle forze politiche contestualmente a quanto avviene nel mondo.
Si citava al principio di queste righe la “dimensione” del conflitto o, se vogliamo, dei conflitti. Ma nello specifico, ora si pensa alla questione Medio Orientale, dimenticando colpevolmente il fronte di guerra ucraino-russo e le tante altre conflittualità sparse per il mondo o quelle pronte a divampare (Taiwan tra le altre…). La ricostruzione in Italia di un fronte progressista non può, in questo contesto così complesso e dirimente, esimersi dallo strutturalizzare il tema della guerra, proprio come conseguenza dell’ingiustizia sociale, della disparità delle ricchezze globali e locali. Se si ritiene che invece si possa fare a meno di una analisi che metta al primo punto “pace, pane e lavoro“, allora non c’è nemmeno discussione.
Ma la sinistra e il progressismo in Italia devono ripresentarsi come forze capaci di un nuovo internazionalismo. Di una cultura della condivisione dei valori universali con quelli dei singoli popoli: la guerra è uno strumento del capitale e tale rimane. Davvero è paradossale che una critica in tal senso emerga sempre più dalle decisioni e dai programmi del Movimento 5 Stelle rispetto invece ad un partito come il PD che, per lo meno storicamente, proviene dalle trasformazioni governiste fatte subire al PCI nel nome della compatibilità con un sistema che si è rivelata fallace e che ha costretto la sinistra ad un radicale ridimensionamento nell’includerla entro schematizzazioni nutrite con un altrettanto finto pragmatismo.
La vera politica reale per una alternativa alle destre deve prendere il via da una simbiosi tra uguaglianza e pace: uguaglianza civile e sociale che, senza una prospettiva di fine dei conflitti e di disarmo conseguente, sono – come molto bene e stentoreamente proclamava Sandro Pertini – impossibili da realizzare nella vita di tutti i giorni. Il PD oggi più di ieri deve decidere come posizionarsi: ha giustamente l’ambizione della guida di un fronte progressista, essendone il partito di maggioranza relativa. Ma per offrire al Paese una vera differenza con la fase meloniana occorre anzitutto che, partendo dalle politiche economiche, si cerchi un legame con le politiche estere in un’ottica di disarmo, di allontanamento dal mito del PIL piegato alle percentuali pretese dalla NATO.
Soltanto la Spagna di Sanchez, pur tra molte contraddizioni interne al campo di governo, sta facendo sentire la sua voce in merito. Se un futuro governo progressista avesse questo coraggio, avremmo certamente di che dire che un passo in avanti lo si è fatto. E tuttavia non sarebbe sufficiente per ammettere che si è su una indubitabile inversione di rotta rispetto tanto al passato del centrosinistra quanto al presente delle destre-destre. Occorrerebbe un piano di rimodulazione degli interessi sociali, di attualizzazione dei diritti del mondo del lavoro, mettendo avanti a tutto il primato del pubblico rispetto al privato come, del resto, prevede la Costituzione della Repubblica.
L’urgenza del compattamento di un grande movimento per la pace non deve farci dimenticare che, per dare a questa impostazione una solida continuità, davvero rivoluzionaria per i tempi in cui sopravviviamo, è urgente una nuova narrazione sociale che sia percepita fattivamente dalle lavoratrici e dai lavoratori, dai precari, dai più deboli socialmente parlando. Per questo non si può essere credibili se si dice SÌ ai referendum della CGIL e poi ci si astiene sul piano di riarmo o fa il giochetto del NI al pacchetto dei finanziamenti del PNRR. Con questa ambiguità di fondo non è possibile ragionare in termini di un fronte progressista ampio.
Eppure ve ne è grande bisogno, perché le destre stanno facendo strame dei diritti civili, di quelli sociali e di una cultura solidale diffusa che prima, proprio grazie alla grande esperienza dei partiti di massa e, nel concreto, dell’alternativa rappresentata dal PCI, era un argine ad ogni tentativo di degenerazione in chiave militarista tanto della democrazia quanto dell’economia dell’Italia repubblicana tanto dei primissimi decenni del secondo dopoguerra quanto di quelli successivi. L’autocrazia che avanza un po’ ovunque, sull’onda del populismo di destra, va obbligatoriamente fermata. Ma non solo elettoralmente.
Un’altro modo di pensare viene soltanto da un altro modo di essere e di vivere nella cruda quotidianità di un immiserimento sempre più esteso. Viene da un contenimento della povertà stessa che può realizzarsi soltanto se si inizia a mettere in prima istanza una economia sociale e non più di guerra, il disarmo e non il riarmo, un multilateralismo delle posizioni in politica estera e non preconcetti da un lato e acquiescenza dall’altro. Dobbiamo essere pronti al confronto con nuove forme di accordi e anche di alleanze. Ma certe ambiguità, da parte soprattutto del PD, devono essere superate.
MARCO SFERINI
20 giugno 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria