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Marco Sferini

L’intercapedine polacca nel confronto imperialista tra NATO e Russia

Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi la Polonia ha, nei suoi nuovi confini dall’Oder-Neisse alla linea Brest-Litovsk, assunto il ruolo di paese centrale dello sviluppo di quella che gli stessi polacchi, ma in generale gli slavi dell’Est chiamano l'”Europa centrale“. Noi occidentalissimi abitanti del Vecchio continente siamo abituati a pensarci come il cuore tanto dei Ventisette quanto più geograficamente parlando, a metà tra la penisola iberica e le remote lande che si stendono poi sui territori un tempo dell’Unione Sovietica e dell’Impero russo.

Dovremmo ripensare la nostra collocazione, assumendo un punto di vista altro, mettendoci nei panni degli ex paesi di Visegrad, provando così a capire quale può essere, da quell’altro “centro” rispetto a noi, la percezione della guerra, in Ucraina, di quella che il segretariato generale dell’Alleanza atlantica chiama “la minaccia russa” nei confronti dell’intera Europa, dopo aver portato le proprie basi, le proprie truppe e i propri missili a ridosso sia degli alleati di Mosca, sia degli stessi confini russi. Lo sconfinamento dei droni russi (o almeno presuntamente tali) in territorio polacco, nel caso si trattasse realmente di ciò, pare evidente rappresentare, oltre alla provocazione insita nell’atto, un test, una prova.

Una prova della reazione della NATO in termini di prontezza rispetto ad un eventuale attacco nei suoi confronti; ma può anche voler significare che Putin sta provando a forzare i tempi del confronto per la risoluzione del problema ucraino. Anche se riesce difficile ritenere possibile che la Federazione russa possa alzare così tanto il livello del rischio di una guerra mondiale per poter avere contezza di tattiche o strategie militari che gli stessi servizi segreti sono certamente in grado di conoscere e acquisire con classiche attività di spionaggio.

Gli esperti di armamenti militari suggeriscono anche di non trascurare il fatto che i venti droni che hanno sorvolato la Polonia erano disarmati; non avevano quindi un portato offensivo, ma semmai esplorativo. Oppure questi marchingegni bellici si sono davvero cortocircuitati e perduti nel loro aereo magari fino ad andare oltre la linea di confine tra Varsavia, Minsk e Kiev. Zelens’kyj sembra cogliere la palla al balzo e i telegiornali della sera riportano le sue dichiarazioni in cui si dice, apertis verbis, che gli alleati europei parlano, parlano ma alla fine non fanno nulla di concreto per aiutare l’Ucraina a resistere e a vincere la guerra.

Qui viene l’altro sospetto: che la fase delle operazioni sotto false bandiere non sia ancora finita e che magari qualcuno abbia anche potuto mettere insieme dei droni di fabbricazione iraniana, usati dalla Russia, e caduti sul territorio in guerra, utilizzandoli per creare incidenti, diversivi, portando a pensare il contrario del reale, l’opposto del vero. Si fa così, del resto, quando c’è una guerra. Meravigliarsene è un po’ da ingenui ma tanto da ipocriti. Sia andata come sia andata, la Polonia è balzata all’onore delle cronache per il suo situarsi proprio nel brutto mezzo di un conflitto che si sta allargando oltre la linea del fronte che avanza debolmente.

Zelens’kyj piange miseria in quanto ad armi, ma sono tutti gli armamenti dati da America ed Europa ad avergli permesso fino ad oggi di resistere allo sfondamento del fronte da parte russa. Senza il sostegno della NATO l’Ucraina oggi sarebbe già in mano russa. Il prolungamento della guerra, poi, è anche dato da un disimpegno degli Stati europei sul terreno meramente diplomatico. La Polonia, dal suo canto, ha nel corso degli ultimi anni guardato ad un ristabilimento delle relazioni con i Paesi Baltici (entrati nell’Alleanza atlantica nel 2004) anche per dare man forte a quella che in gergo viene chiamata la “Nuova cortina di acciaio“: il confine politico consolidato militarmente dalla presenza occidentale che va dalla Lapponia fino alla Lituania.

In quel punto meridionale che è il triangolo confinario tra Bielorussia, Lettonia e, appunto, Lituania, la situazione si fa più complessa e, più che opportunamente, la linea di demarcazione tra Est ed Ovest è stata invece qui definita come un “settore meridionale poroso“, capace di essere penetrabile dalle ingerenze moscovite e quindi, proprio per l’ingombrante presenza di Minsk nell’area (il che vuol dire, senza mezzi termini, Russia a tutto tondo), un fattore obiettivamente ad alto rischio. Non di meno, mandando a memoria una carta geopolitica dell’Europa, ci si deve anche ricordare del fatto che proprio tra Lituania e Polonia c’è l’exclave russa dell’oblast’ di Kaliningrad, erede mutilato della vecchia Prussia Orientale.

Dopo la Seconda guerra mondiale il territorio venne diviso in tre parti: Memel, annesso dai Hitler al Terzo Reich fu reso alla Lituania, mentre la regione di Königsberg (oggi, appunto, Kaliningrad) venne spaccata in due da una linea retta di confine tra Russia e Polonia. Alla seconda andò la regione della Masuria (già oggetto di plebisciti confermativi o meno del suo essere parte della Germania sconfitta dopo il 1919), mentre la patria di Kant finì sotto l’egida sovietica. In questo brevissimo excursus storico-geopolitico, è facile intravedere tutta la complessità della composizione e scomposizione di Stati che, addirittura, a volte sono persino scomparsi dalla carta europea.

È proprio il caso della Polonia, dopo la spartizione tra Prussia, Austria e Russia (in tre distinti momenti, tra il 1772 e il 1795) quando la cosiddetta “libertà dorata” dell’unione polacco-lituana andò in frantumi e la Repubblica delle due nazioni crollò sotto il peso degli imperialismi nazionali che stavano via via emergendo (Federico II a Berlino, Maria Teresa d’Austria a Vienna e Caterina la Grande a San Pietroburgo). Nella storia travagliata della nazione polacca i problemi esterni – come del resto per molti altri paesi – hanno rappresentato sempre un elemento di esacerbazione di quelli iterni: non c’è alcun dubbio sul fatto che, oggi, la questione della sicurezza abbia assunto un valore determinante.

Date le condizioni storiche, non fosse altro che per la memoria degli ultimi tre secoli, tra spartizioni, invasioni e restaurazioni nazionali, Varsavia fa della difesa dei suoi confini relativamente nuovi un primo punto imprescindibile per garantire anche la sua crescita economica e il suo consolidamento internamente all’Unione Europea: dopo la fine del blocco sovietico e del Patto militare che lo reggeva, la conversione economico-sociale al capitalismo occidentale ha segnato la Polonia in un verso dal segno negativo, facendola rimanere a lungo nel purgatorio dei paesi a minore qualità della vita.

Adesso le occasioni storiche non mancano per uscire da quella condizione e, dopo la fase del legame industriale con la vicina Germania federale, lo sguardo viene rivolto oltre l’asse con Berlino: il puntare a nord, verso i Baltici ha, di conseguenza, un senso non solo sul terreno prevalentemente militare-difensivo, ma anche finanziario, economico a tutto tondo. Per realizzare questi propositi, in pratica di assurgere a paese con una maggiore qualità della vita, la Polonia deve avere la garanzia di non essere oggetto di una nuova colonizzazione da Est, mentre invece accetta di buon grado quella da Ovest, partendo dalla presenza della basi americane e NATO sul suo territorio.

Hanno acutamente scritto in merito numerosi analisti polacchi, di varie tendenze culturali e politiche, ma tutti convinti che il loro paese si stia in pratica candidando a sostenere uno sforzo militare nuovo, internamente al contesto dell’Alleanza atlantica, per rappresentare una “deterrenza” di prima linea insieme ai Baltici. Quanto possano Polonia, Lettonia, Lituania ed Estonia essere l’uno nei confronti dell’altro una garanzia di sicurezza è altamente difficile da poter dire. L’adattamento della NATO alla nuova situazione sviluppatasi nel corso dell’ultimo decennio è stato, a differenza di quello che si può pensare guardando una progressione temporale dell’espansionismo ad Est, piuttosto lento.

Questo può dirsi ovviamente in chiave di approntamento militare fino ad un certo punto: quando il presidente francese Macron ebbe a dire che ormai l’Alleanza era in stato di morte cerebrale (eravamo nel 2019, quindi alcuni anni prima della guerra in Ucraina), si riferiva più che altro ad un disimpegno statunitense che appariva sempre più evidente. Un dato che pareva essersi accentuato con la seconda presidenza di Donald Trump. Un dato che, a onor del vero, è ancora tutto da verificare oggi nel prosieguo degli eventi grandi e terribili (per dirla un po’ con Gramsci…).

C’è, sullo sfondo di queste osservazioni, un dato che dovrebbe essere piuttosto evidente per il cosiddetto “Occidente“, inteso come pretesa altisonante di rappresentare un unità di paesi liberi capaci di dettare la morale (da far arrivare sulle ali di piombo dell’imperialismo atlantico, e non solo…): dopo tre anni di conflitto in Ucraina, è sempre più risultato chiaro il fatto che i membri europei dell’Alleanza atlantica non hanno le capacità militari per proseguire in una guerra di lungo (o lunghissimo) periodo. Non hanno nemmeno le potenzialità industriali per poter ipotizzare una resistenza di questa natura nei confronti della Russia e, peggio ancora, di un asse sempre più definito tra Mosca e Pechino.

Trump, del resto, punta proprio a questo: a separare i due giganti euro-asiatici e a fare in modo così di ristabilire un primato statunitense con un dividei et impera che, però, al momento è una trappola in cui né Putin né Xi Jinping intendono cadere. Se si dovesse arrivare ad un cessate-il-fuoco e i reciproci imperialismi si prendessero una pausa nella contesa scatenata nell’Est europeo, è abbastanza certo che Mosca avrebbe la possibilità di dare una accelerazione alla propria produzione bellica, ricostruendo tutto il suo arsenale nel giro di cinque anni. Questo in particolar modo se il sostegno cinese sarà garantito. E, ad oggi, non c’è motivo – purtroppo – per credere che non possa essere così.

La Polonia intanto diventa, al pari dell’Ucraina, un terreno di confronto (per ora ancora non di scontro…) e, per quanto possa affidarsi alla interessata protezione della NATO, non farà altro se non implementare le ragioni di un nuovo conflitto se aumenterà la sua spesa militare (come del resto sta facendo da tempo, portando il tutto al 4,7% del PIL, circa 45 miliardi di euro) a scapito di garanzie sociali già piuttosto deficitarie e povere. Lo scenario più complessivo risponde sempre a queste precise linee fisiognomiche: tanto ci si confronta sul terreno dello scontro bellico, quanto si allargano le file dell’indigenza di massa.

Povertà e riarmo vanno di pari passo, uguali e contrari l’uno rispetto all’altro, ma preannunciano sempre, da sempre, nuove guerre, nuovi disastri per l’intera umanità.

MARCO SFERINI

11 settembre 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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