Tanto nei dibattiti televisivi quanto in certi commenti sui più noti siti di informazione su Internet si adombra il sospetto che la Russia voglia presto attaccare l’Europa e, quindi, di conseguenza aprire un conflitto diretto con l’Alleanza Atlantica. Non basterebbe, insomma, quello per procura che già la popolazione ucraina sopporta da oltre tre anni a questa parte. Per determinare la ferocia del nemico dell’Est serve, dunque, un’ulteriore guerra. Di portata a dir poco mondiale e globale: perché se Mosca e la NATO si fronteggiassero, per quanto Donald Trump finga di non avere molto a che fare con quest’ultima, avrebbe pochi margini di manovra geopolitica e militare per tirarsi indietro.
Ma il presidentissimo ha già garantito che, se non si chiamerà fuori, quanto meno lascerà che a fronteggiare il conflitto sia quel Vecchio continente che lui reputa un insieme di deboli, stanche forze, di nazioni prive di un vero collante che possa fare da contraltare o anche solo timidamente gareggiare nel regime concorrenziale ipermoderno del neoliberismo dominante. Poniamo che questa narrazione corrisponda al vero e che, ieri, oggi e domani Vladimir Putin voglia continuare a tenere la NATO sulla corda con provocazioni ai confini degli Stati baltici, della Romania, della Polonia e persino dell’Alaska. C’è una domanda che, per così dire, sorge spontanea: perché mai la Russia dovrebbe muovere guerra ad uno dei Ventissette?
La risposta potrebbe essere: per alimentare ancora di più la sua sete imperialista che, quindi, non si fermerebbe all’Ucraina che – è bene ricordarlo – dopo tre anni di conflitto non è stata conquistata se non molto parzialmente (circa il 25% del suo territorio). Quindi qui si pongono altre domande: la mancata conquista di Kiev, almeno in un primo momento, poteva essere ascritta ad una tattica male pensata e male impostata che, infatti, nei primissimi giorni dell’invasione portò ad un rientro delle truppe russe dal nord e dall’est per dirigerle poi quasi tutte sul fronte del Donbass e su quello più allargato degli Oblast di Cherson e Zaporižžja, ma è realmente così? Non si sarà trattato invece di una tattica nella tattica e quindi di un atto dimostrativo anche in quel febbraio-marzo del 2022 quando le truppe russe puntarono sulla capitale ucraina?
Sarà forse la Storia con la esse maiuscola a dirimere questa controversia su opinioni molto diverse fra loro, ma un dato di fatto c’è: passati più di mille giorni dall’inizio della cosiddetta “Operazione militare speciale“, il fronte non avanza se non di poche decine di chilometri in trimestri di combattimenti che non determinano un capovolgimento della situazione da parte ucraina né una affermazione da parte russa. Tuttavia, Mosca continua a bombardare le città e i villaggi, prende di mira anche la sede del governo di Kiev e lancia droni a tutto spiano. Non di meno l’Ucraina spinge i suoi armamenti volanti fin dentro il cuore della Federazione putiniana, colpendo città che distano migliaia di miglia dal confine e lasciando intendere che i giochi sono tutt’ora aperti.
La NATO, si diceva poco sopra, fa una guerra per procura ma lo stanziamento di truppe occidentali non è ancora avvenuto, se si escludono, naturalmente, il personale militare che addestra gli ucraini, che fornisce armamenti sofisticati e che gestisce gli apparati di difesa anche in prossimità della linea del fronte. La guerra, quindi, non è direttamente svolta, ma concepita come un banco di prova su cui si stanno logorando le pedine, dove continuano a morire ogni giorno civili e soldati da ambedue le parti. Anche in questo frangente, come in quello che riguarda con molta più ferocia e intensità la piccola Striscia di Gaza, il ruolo delle Nazioni Unite non si percepisce nemmeno da lontano. La partita è giocata nella triangolare tra Washington, Mosca e l’Alleanza Atlantica.
Se, quindi, Putin provoca per sondare le reazioni della NATO rispetto ad eventuali nuovi tentativi di espansione russa, poniamoci una ulteriore domanda: in che direzione vuole dirigersi, chi vuole invadere? La risposta più strategicamente logica sembrerebbe riguardare i tre Paesi baltici che, unitamente a Bielorussia ed Ucraina costituirebbero, se riportati in seno all’impero russo, il vecchio confine post-Seconda guerra mondiale. L’Oblast di Kaliningrad è lì a imperitura memoria della spartizione della Prussia Orientale tra Polonia e Russia e simboleggia un po’ quella voglia di revanchismo che certamente alberga nel sogno neozarista di un presidente eternizzatosi alla guida di un grande paese che sta riemergendo da un recente passato fatto di ricostruzione industriale, economica e finanziara, ricomposizione sociale e politica.
Posto che sia questo l’obiettivo, nel momento in cui mette piede in Estonia, Lettonia o Lituania, Putin sa che dà il via alla guerra mondiale con la NATO, con l’Europa e con gli Stati Uniti che, per bocca di Trump, hanno fatto una potente inversione ad u nelle dichiarazioni sui rapporti con lo stato di guerra ad Est, schierandosi ora con il ridicolizzato Volodymyr Zelens’kyj. La Russia vive la fase multipolare da protagonista del cambiamento mondiale e, quindi, è in una risalita che annuncia una maggiore capacità competitiva. Una guerra in più, oltre quella che sta combattendo da tre anni in Ucraina, la potenzierebbe o, invece, ne comprometterebbe questa nuova era di ricrescita nell’ambito e anche oltre il perimetro dei BRICS?
Oppure ci stiamo clamorosamente traendo in errore e Putin vuole davvero espandersi ad Ovest, riportare i confini al vecchio status del 1945 e, quindi fare della Galizia l’ultima regione orientale incuneata ancora una volta nel cuore dell’Europa dopo aver sottomesso completamente l’Ucraina. Siamo nella fantapolitica? In parte sì, in parte no, perché le premesse per un’esacerbazione della conflittualità da entrambe le parti ci sono tutte: i quotidiani sorvoli di droni qua e là in molti paesi europei non lasciano ben pensare. Le domande sull’appartenenza espongono sempre ad accuse di complottismo, ma sarà anche lecito pensare che qualcuno possa cercare quello che, da millenni, è il pretesto utile per agire per primo: il casus belli.
Una ricerca del principio del bellicismo che riguarda entrambe le parti e che, quindi, a seconda da dove potrebbe provenire dice molto sulle eventuali motivazioni dell’eventuale, scongiurabile, conflitto. Ovvio constatare che il rischio di una guerra tra l’Alleanza Atlantica e la Russia non è mai stato così alto come lo è ora. Non passa giorno in cui non vi siano segnalazioni di aerei Tupolev che pattugliano cieli al limite dei confini occidentali, di sorvolamenti di porzioni di territorio o di mari appartenenti a Stati europei che si indignano ma che poi non fanno praticamente nulla per abbassare i toni, per disarmare piuttosto che riarmare. Certo, si dirà, se la Russia mi vuole attaccare, io disarmo? Ma è proprio questa la logica del riarmo a tutto spiano.
Il casus belli non è soltanto utile a far scoppiare un conflitto, senza sapere poi dove andrà a parare e quando mai potrà avere fine; ma è soprattutto utile per preparare l’opinione pubblica, per ammansirla e addestrarla psicologicamente all’eventualità dell’inevitabile che diviene sempre più probabile, disponendo così un cambio di mentalità radicale nel concepirsi da uno stato di pace ad uno di guerra sul campo. L’impressione abbastanza diffusa (e non solo dai telegiornali, dai dibattiti in tv e dai commentatori che si fanno già la guerra vomitandosi addosso insulti e insulsaggini di ogni tipo) è che il cui prodest non stia solo da una parte, ma stia nel pieno della multipolarizzazione attuale: siccome la debolezza americana lascia spazio all’emersione delle nuove potenze sino-russo-indiane, c’è bisogno di un rimescolamento delle carte.
Il cinismo criminale dei capi di Stato e dei governi che inneggiano al conflitto e lo cercano in tutti i modi è il prezzo che paga una politica che ha abdicato al ruolo di condivisione delle speranze, di costruzione di un mondo senza più guerre di aggressione: il sogno di chi istituì ed istruì i processi a Norimberga è ormai passato in cavalleria. Così anche la verità fa le spese di una nuova stagione di menzogne artatamente messe in essere dalla propaganda di entrambi gli imperialismi che si vogliono fronteggiare nella nuova epoca multipolare. Le centrali del grande capitalismo di rapina, dal FMI alla Banca Mondiale, passando per la più modesta ma non residuale BCE nel contesto vecchiocontinentale, hanno lanciato l’allarme da tempo: il liberismo rischia di soffocare nella sua declinazione occidentale.
La predominanza americana vacilla e i tentativi sovranisti di salvare il salvabile non stanno avendo gli effetti sperati. Lo dimostra Milei in Argentina che è sommerso dal malcontento, dagli scioperi e da una presa di coscienza della popolazione che si vede sempre più povera, reietta, dimenticata da tutto e tutto e ai margini del pianeta. Se la guerra tra Russia e NATO fosse davvero così vicina, c’è da farsi una ulteriore domanda: sono pronte militarmente entrambe ad una simile eventualità catastrofica? Chi è meglio armato, chi ha più probabilità di reagire prontamente e di vincere una guerra di simili disastrose proporzioni? Sappiamo che Mosca riesce ad essere sufficientemente autonoma in questo versante di approvvigionamento bellico. Per la NATO invece il discorso riguarda tutti i suoi paesi membri.
Data per quasi morta da Emmanuel Macron non molto tempo fa, oggi i più informati commentatori sostengono che prima del 2030 sarà impossibile per l’Alleanza avere una capacità di risposta pari a quella di Mosca e, magari, anche di Pechino, caso mai il conflitto dovesse allargarsi nel Pacifico e riguardare – tanto per fare un esempio piuttosto noto – anche Taiwan, oppure la Corea del Nord. Quando un domino di questa natura si innesca, è davvero molto complesso poter fermare la caduta della tessera che spinge l’altra tessera a cadere… Le minacce di reazioni alle azioni valgono per i fronti opposti: nessuno escluso. A minaccia dell’Est risponde l’Ovest e viceversa. Quindi il cortocircuito delle relazioni internazionali è già in atto.
Il punto è se degenererà in un conflitto senza tregua alcuna, senza confine. Una volta sotto attacco il territorio della NATO, anche l’Italia sarà inclusa in questa ipotetica catastrofe globale. Speriamo sia solo uno scenario apocalittico da ricordare come timore preconcettuale, come esagerazione di quello che si ha sotto gli occhi e che si ascolta con un udito sempre più fine. Mentre ancora non sappiamo di marca, modello e provenienza sono i droni che hanno volato sopra le città polacche, danesi e le navi tedesche, ci accingiamo ad assistere ad un aumento della bellicosità verbale. Una premessa indispensabile per andare verso un baratro da cui pochi resteranno fuori.
MARCO SFERINI
26 settembre 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria







