Persino Tv2000, il canale televisivo della Conferenza episcopale italiana, in un passaggio interlocutorio tra conduttori ed ospiti in studio, durante la diretta per i funerali di papa Francesco, non ha mancato di sottolineare come oggi, sul sagrato della basilica di San Pietro a Roma si trovino davanti alla bara del pontefice una serie di potenti della Terra che, quando era in vita, lo hanno non solo contrastato e non ascoltato sui temi che riguardavano i migranti, le disperazioni sociali e le guerra, ma persino apertamente deriso.
Stride e non poco, quindi, il contrasto netto tra la presenza nei banchi istituzionali di personaggi come il presidente argentino Javier Milei, quello ungherese Viktor Orbán e, ovviamente, il presidentissimo americano Donald J. Trump. Casi eclatanti, su cui cade l’attenzione perché quelle problematiche sono tutt’ora apertissime e, anzi, rischiano, proprio venendo meno la voce di pace del pontefice, di conoscere, almeno nella fase strettamente attuale, di non avere più nella Chiesa cattolica un contraltare di buon senso.
La messa esequiale per Francesco è diventata un’occasione per un confronto fra una serie di leader di Stato e politici che mai prima d’ora si erano ritrovati tutti quanti, in un preciso istante e nello stesso luogo riuniti per un evento internazionale. A metaforizzare e interpretare i segni del destino, si potrebbe dire che è l’ultimo lascito del papa del popolo: costringerli – se così si può dire – ad incontrarsi, a guardarsi un attimo negli occhi e a stringersi cortesemente delle mani più per protocollare obbedienza, invece che per sincera affezione.
In politica internazionale le cortesie per gli ospiti prevalgono sulle sincere intenzioni di ognuno. Il perseguimento degli interessi particolari finisce, inevitabilmente, per oltrepassare il confine anzitutto morale di un tentativo di conciliazione delle grandi divisioni su drammi veramente epocali e, per questo, globali. A voler stare nell’ambito di un raffronto tra interpretazione laica e politica e declinazione religiosa degli eventi, ci si ritrova nelle parole di Matteo (24: 35-36):
«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre».
Eppure la fine di questo mondo, quand’anche del mondo propriamente inteso come casa comune devastata e vilipesa dal profitto, dal mercato, dal neo-ordoliberismo ipermoderno, sembra sempre più vicina. L’impressione che si ricava dalla congiunzione degli eventi di crisi internazionale, sommati allo sconvolgimento planetario del clima e dell’ambiente, è che la nostra era va incontro ad un passaggio dirimente da cui difficilmente si potrà tornare indietro se non a prezzo di altrettante catastrofi che saranno subite dai miliardi di individui (animali compresi), quelli più derelittamente poveri.
I potenti della Terra che oggi sono riuniti in piazza San Pietro davanti alla bara di Francesco sanno benissimo di trovarsi ormai di fronte ad un simbolo accettato tanto dai cattolici, dai credenti, quanto dai laici che hanno visto nel pontefice l’ultima voce critica nei confronti di un capitalismo onnivoro, incapace di autoregolamentarsi e confermante quelle che sono sempre state le analisi scientifiche marxiane sull’anti-eticità del sistema che persegue, come unico fine, quello dell’accumulazione progressiva, esponenziale.
Fare richiami morali a questi signori che reggono le sorti dei più grandi agglomerati di interessi del mondo è parlare al vento, è sprecare fiato. Questo lo sapeva anche papa Francesco che, infatti, discuteva, lanciava messaggi ma che, nella sostanza pratica dei fatti, agiva mediante missioni di pace e viaggi apostolici in paesi in cui le crisi erano divenute verticali e imprendibili per essere ridotte ad uno stato di sopportabilità, quanto meno apparente.
L’eterogenesi dei fini, poi, ha fatto la sua parte e ha indotto il capitalismo a fare i conti con uno stravolgimento naturale che è l’unico fattore veramente rivoluzionario capace di porre un freno alla prepotenza del profitto e della ricchezza in mano a sempre meno individui. Le potenzialità rivoluzionare tanto del socialismo moderno, ritrovato o meno dopo le grandi tragedie del finire novecentesco nell’ignominia della rovina di giganti più che popolari, titanicamente burocratici e per niente alternativi all’Occidente, così come quelle del cristianesimo di base, sono rimesse in gioco dagli eventi.
C’è stata per lungo tempo la necessità quasi frenetica di un mutamento radicale che sembrava, a dire il vero, a portata di mano dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ma, poi, il tutto-cambi si è rivelato la conferma gattopardesca del “perché tutto rimanga come è“. E la conservazione ha prevalso sul progressismo: complice una simbiosi di interessi anche molto differenti fra loro che si sono saldati contro il mondo del lavoro per far prevalere una logica commerciale e finanziaria che mettesse al riparo il capitale dalle crisi cicliche che affronta.
La fase unipolare, dominata dagli Stati Uniti d’America dal finire degli anni Novanta del secolo scorso ai primi quindici del secolo attuale, si è sbriciolata sotto il peso dell’aumento della produttività in paesi in cui lo sfruttamento della forza lavoro era notevolmente più conveniente rispetto al cosiddetto “asse occidentale” (quindi a quello rappresentato dal connubio tra America del Nord ed Europa). La voce di Francesco si è levata contro un disordine mondiale che ha prodotto quella “terza guerra mondiale a pezzi” che, ogni anno che trascorre, è sempre più tragicamente evidente.
Quell’espressione aveva sintetizzato con grande acutezza il tema della interdipendenza dei conflitti: non più considerabili come “regionali“, se non nella loro particolarità geopolitica, e, per questo, necessariamente inquadrabili in un contesto globale, in una “governanza” della fase neoliberista che si stava acutizzando proprio dalla fine dell’unipolarismo nord-atlantico con la comparsa del multipolarismo quale fenomeno nuovo rispetto persino al bipolarismo della vecchia Guerra fredda.
Francesco, al di là delle considerazione che ognuno di noi, da comunista, marxista, anticapitalista e laico possa fare criticamente nei confronti della dottrina cattolica e della religione in senso più lato, ha rappresentato un controcanto rispetto alla narrazione dell’inevitabilità delle guerre come mezzo di sistemazione delle arbitrarietà di questo o quel polo di potere economico e finanziario. Non solo il papa, anche tanti studiosi di varia provenienza culturale e non necessariamente progressisti, leggono nella commistione tra “governance” neoliberista e perturbabilità globale il nesso di una questione enorme.
Qualcuno ha teorizzato il sempre minore impegno pubblico, la relativizzazione dello Stato rispetto all’economia più generalmente intesa come struttura portante della società. A partire, per l’appunto, dagli anni Settanta del secolo scorso, sono proprio i maggiori sostenitori del nascente liberismo ad impartire la lezione, non tanto del laissez-faire, quanto semmai della presa d’atto che lo Stato, se proprio vuole avere un ruolo nella formazione dell’economia moderna, ebbene deve averlo al servizio del privato.
Molti di coloro che oggi sono davanti alla bara di Francesco e fingono di piangerne la scomparsa, sono stati e sono tra i maggiori teorizzatori di un “anarco-liberismo” che, tradotto in parole più semplici, è la totale deregolamentazione del mercato, delle sue possibilità di intromissione in ogni sfera un tempo sociale, collettiva e, oggi, subordinata alle variabili dipendenti dalle grandi centrali del liberismo, della finanziarizzazione e del profitto a tutto spiano. Francesco ha detto e scritto: «Questa economia uccide» (“Evangelium gaudium“, 2013).
Va notato un particolare non di poco conto: il papa critica questa economia e non il capitalismo a tutto tondo. Dice che questo tipo di impostazione economica è omicida e non che lo è il sistema nel suo insieme, nella sua primissima come ultimissima accezione più moderna. Ma nella fase attuale della torsione liberista vede comunque, sebbene al riparo da una intenzione stigmatizzante di tipo sociale o socialisteggiante, un elemento di grave incrinazione dell’equilibrio globale e del rapporto tra natura e umanità e viceversa.
A maggiore precisazione di questa breve analisi delle parole del pontefice e del suo pensiero riguardo gli sconvolgimenti attuali (derivanti da decenni di altri sconvolgimenti), nell’enciclica “Laudato si'” del 2015 precisa: «…i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono a ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente». La forbice delle diseguaglianze, infatti, si è allargata spaventosamente e i fenomeni migratori sono lì a testimoniare la disperazione provocata dalla fame e dalle guerre che divampano in Africa, nel Medio Oriente e in Asia.
Non esiste un interesse planetario condiviso da una istituzione che rappresenti la sintesi dei singoli intendimenti e delle singole specificità. Alle Nazioni Unite, mai come in questo momento, è riconosciuto un ruolo formale e non sostanziale nel tentare di fermare i conflitti in atto, di interporsi come elemento dirimente di dialogo e di pacificazione. Sprezzanti nazionalismi e imperialismi, come quello israeliano, quello nordatlantico e quello russo, si confrontano in una dinamica di rapporti in cui prevale sempre e soltanto un solo interesse: il proprio.
Molto bene ha scritto Carlo Rovelli in “Helgoland” (Piccola Biblioteca Adelphi, 2020), in una considerazione più ampia sulla rivoluzione della fisica quantistica, che il mondo in cui viviamo e che possiamo osservare «si frantuma in un gioco di punti di vista, che non ammette un’unica visione globale. È un mondo di prospettive, di manifestazioni, non di entità con proprietà definite o fatti univoci». Siamo, quindi, davanti ad una modernità in cui, partendo dalla novità del multipolarismo, ci si prospetta un cambiamento veramente da “era“, come fase di transizione e, allo stesso tempo, di riconfigurazione del tutto.
Il capitalismo è ad un passaggio storico importante, così come lo sono i movimenti sociali che lo criticano senza appello e che, loro sì su un piano anche etico, oltre che politico (nel senso più concreto del termine), dovrebbero ritentare l’internazionalizzazione di una lotta che deve parametrarsi con la globalizzazione delle grandi problematiche della crisi verticale dei tempi. Nonostante la loro potenza economica, finanziaria e militare, c’è una oggettiva difficoltà per gli imperi moderni a progettare un futuro anche solo prossimo, a dettare legge su un piano universale.
Questo dimostra che delle brecce si possono aprire e si deve far leva, essenzialmente, sulla crisi ambientale come grande prodotto di una contraddizione capitalistica insostenibile ancora a lungo. Chi ha provato a trasformare Francesco nel “papa anticapitalista” ha fatto un cattivo servizio alla propria capacità di analisi, al ruolo del pontefice e, se vogliamo, anche alla sua critica nei confronti del sistema economico. Questa necessità di dare delle etichette è improduttiva e impedisce di capire veramente il fondo delle questioni poste da una figura non di secondo piano come il capo della Chiesa cattolica.
Francesco non era un anticapitalista, ma un critico dell’economia nella sua concretizzazione attuale. Nel 2019, rivolto al “Consiglio per un Capitalismo Inclusivo” (il che presuppone non il superamento del capitalismo, ma il suo temperamento, la sua connessione con certe esigenze sociali su vasta scala…), il papa scrive che occorre «…rendere il capitalismo uno strumento più inclusivo per il benessere umano integrale. Ciò comporta il superamento di un’economia di esclusione e la riduzione del divario che separa la maggior parte delle persone dalla prosperità di cui godono pochi».
L’approccio è tanto ingenuamente etico quanto volutamente e velleitariamente riformista: il capitalismo non può essere inclusivo al punto tale da garantire un benessere umano integrale per tutti gli esseri viventi. Quel “superamento” dell’economia che esclude è un richiamo ad una trasformazione dei rapporti di produzione in senso meno competitivo, per fare in modo che i bisogni almeno primari siano soddisfatti, ma non è una critica a tutto tondo al capitale. In quanto rappresentante di oltre un miliardo di credenti nel mondo, il papa non può che mediare tra esigenze tanto diverse.
Si rende conto, perché è oggettivo, che questo sistema porta all’autodistruzione dell’umanità e alla fine delle altre specie sul pianeta, nonché all’alterazione degli equilibri naturali che, per lui, sono frutto della creazione divina. E, per evitare tutto questo, propone una riconsiderazione degli interessi capitalistici. L’appello è anche nobile, ma è del tutto vano. Ciò non toglie che, aver massmediaticamente posto spesso l’accento sull’ingiustizia globale dell’economia di mercato, lo ha reso un alleato della voce più critica ancora che proviene da settori oggi inascoltati dell’anticapitalismo moderno.
Per questo, se un sincero cordoglio oggi è esprimibile, lo è da parte di tutti quelli che nelle sue parole hanno letto un tentativo di riscatto umano nei confronti degli umani e del resto del pianeta. Non c’è altro cordoglio vero se non questo. Milei, Orbán e Trump possono mostrarsi contriti e addolorati, ma persino le mura della basilica petrina sanno che è solo scortesia istituzionale e nulla più.
MARCO SFERINI
26 aprile 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria