Della libertà si parla tanto quanto dell’assenza della medesima: poiché ci si rende conto della necessità di un qualcosa, anche di un semplice concetto da mettere quotidianamente alla prova e, dunque, in pratica, nell’attimo in cui questa stessa viene ad essere meno e poi a sparire del tutto. Ma se ne parla, il più delle volte, a sproposito. E non è nemmeno detto che, in questo caso, qui ed ora, se ne stia parlando a proposito…
Dipende dal fatto se si ritiene possibile ontologizzare la libertà, o concetti comunque simili per la loro enormità morale, civile e sociale, si fa un azzardo non di poco conto. Se parliamo di libertà assoluta dovremmo, per somiglianza, parlare anche di verità assoluta: visto che è molto difficile ritenere di poter essere liberi nella menzogna (anche soltanto parziale). L’insicerità ci vincola ad obblighi che, soltanto in esplicita assenza di empatia verso gli altri, possiamo trascurare senza troppi scrupoli.
Ma se, invece, abbiamo un briciolo di rispetto tanto per noi stessi quanto per chi ci sta intorno, ci è impossibile non fare riferimento ad un codice morale non scritto che ci abita ancestralmente: non come insieme di idee innate; semmai come un istinto che ci è congenito, che sta nel nostro DNA di animali umani e che riguarda anzitutto il rapporto tra soggetto e soggetti, tra l’uno e il molteplice, tra il singolo e la moltitudine. Il micromondo che ogni giorno viviamo in noi lo mettiamo continuamente in relazione con tutti gli altri.
La solitudine della monade qui può rappresentare la metafora (e forse qualcosa di più della stessa) per significare non l’isolamento ma la condivisione delle esperienze pur nel rispetto del proprio ambito esistenziale. La libertà può consistere, dunque, nella reciprocità di questo comportamento: la non invasione del perimetro altrui ma, nello stesso istante, anche la interscambiabilità delle singole dinamiche di vita.
Nel rapporto stretto con un concetto assoluto di verità, e quindi di verità propriamente “assoluta“, Emanuele Severino si pone una domanda affascinante: «Come è possibile dunque un abbandono della fede nell’esistenza della verità assoluta, il quale abbia il carattere della verità assoluta, ma non sia a sua volta una fede?». Se riteniamo che ciò che è vero sia continuamente soggetto all’interpretazione singolare, quanto meno ne dovremmo desumere che esistono molte verità e che ognuna lo è di per sé ma che, proprio per questo, è impossibile ridurle ad una solamente.
Nel Vangelo di Giovanni (18:38) ci si fa la fatidicissima domanda: «Quid est veritas?». La pone il procuratore romano Pilato a Gesù nel momento in cui si sente dire che lui, il Nazareno, sarebbe nato e venuto al mondo per “rendere testimonianza” alla verità. “Alla” e non “sulla“. Quello che, dopo Paolo, diverrà il “Figlio di Dio“, è dunque il testimone della Verità con la vu maiuscola. Qui siamo oltre il relativo e l’assoluto; persino oltre l’ontologizzazione del termine e, quindi, del concetto.
Perché libertà e verità, entro la cornice evangelica, sono verbum Dei: pertanto non si possono discutere, ma soltanto assimilare come essenza di un determinismo che è dettato dall’amore della divinità per tutte le sue creature. Se ci collochiamo nell’impossibile, che è il mondo delle religioni, nell’astrazione, nella metafisica e nel fideismo (nonché nel successivo filone deistico, molto, molto posteriore rispetto ai fatti appena narrati), allora non c’è molto da dire.
Ma se anche per noi, come per Pilato, la domanda sulla verità (ed anche sulla libertà, sempre per analoga estensione reciproca dei concetti eticamente lati) è e rimane qualcosa di strettamente riconducibile alla sensorialità, all’oggettività data dalle percezioni unitamente all’esercizio della vista, del tatto, del gusto, dell’olfatto, dell’udito, non si può fare altrimenti e, quindi, la domanda rimane – come avrebbe scritto a proposito del concetto dialetticamente materialistico e storicamente dato del “comunismo” il Nichi Vendola dei “Soggetti smarriti” – «aperta sul mondo».
Se la verità è più propriamente ascrivibile al metodo conoscitivo scientifico, la libertà è indagabile sul terreno dello ius, del diritto moderno, così come di quello più antico. Ma, il fatto che siano naturalmente parte di due campi di indagine se non opposti quanto meno diversi fra loro, non è un discrimine per ricercare una sintesi o, per meglio dire, una tangenza tanto tra i due concetti quanto tra le potenzialità che essi hanno nella quotidianità dell’umano nel mondo.
Proviamo a fare questo esercizio qui: Aristotele afferma, parlando del “libero arbitrio” (e quindi della sostanziazione della libertà idealmente intesa ed intendibile) che, anzitutto, le nostre azioni sono movimento e che, in quanto tali, si svolgono in un dato spazio e in un dato tempo. Per il filosofo di Stagira che cos’è, dunque, quest’ultimo? Se il movimento è un passaggio dalla potenza all’atto, è pure vero che questo stesso si svolge in una continuità che è innegabile. Il tempo ci appare come sfuggevole solamente perché è incessantemente continuo, fluido e irrefrenabile.
Verità e libertà sono dentro il tempo, non ne prescindono; per il semplice, se vogliamo pure elementare, fatto che noi siamo parte della temporalità che è una delle cifre dell’esistente (oltre che dell’esistenza che ci riguarda direttamente). Così, il tempo è qualcosa di infinitamente potenziale, di non riducibile al solo presente, non pensabile esclusivamente nelle categorie del passato o del futuro. Qui tocca citare il famoso esempio della battaglia navale. Se domani, infatti, sappiamo che si terrà uno scontro per mare tra due flotte, dovremmo anche ritenere vero il fatto che i comandanti dovranno attaccarsi.
Ma se la battaglia navale non si dovesse invece svolgere, sarebbe falso il presupposto della necessità da parte degli ammiragli di darsi allo scontro. Quindi possiamo affermare che queste proposizioni sono vere o false in ragione del domani e non dell’oggi? Sono dunque corrispondenti al vero soltanto se accadono? Questo è il problema dei “contingenti futuri” che, come è abbastanza chiaro, riguarda la verità e anche la libertà umana qui ed ora, nonché nell’immediatezza del giorno o dei giorni seguenti.
Per essere sintetici: il valore della verità è determinabile o indeterminabile a seconda del tempo in cui si svolgono quelli che devono o dovranno divenire dei fatti? Il campo delle illazioni è quanto di più libero si possa sperimentare nel momento in cui si presuppone che qualcosa possa andare in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma, così facendo, si va a cozzare contro quell’assoluto veritiero di cui si faceva cenno poco sopra. La verità è nel presente soltanto, oltre che nell’analisi del passato, mentre è indeterminabile nel futuro?
Sembrerebbe di sì, anche se le argomentazioni deterministiche risolvono semplicisticamente la questione – o per lo meno la argomentano dal loro punto di vista metafisico – affermando che esiste una “divina onniscienza” e che ad essa si demanda qualuque tipo di interrelazione tra l’essere e il divenire dell’essere; se vogliamo, possiamo intenderlo propriamente come l’esistente entro, però, la teleologizzazione dell’universalità di quello che, in questo caso, è il “Creato“.
Molto diverso è l’approccio scientifico cui si faceva cenno e che, nel Novecento, cambia radicalmente, nei confronti del tema della verità e della libertà di conoscenza, di essenza di noi stessi e del nostro rapporto con l’esistente. Questa rivoluzione anche cognitiva dello spazio, del tempo e del classico approccio meccanicistico alle relazioni della materia con altra materia e nella materia medesima, si verifica nella presa d’atto che in ogni momento della nostra vita possiamo fare altrimenti rispetto ciò che stiamo facendo. Abbiamo una possibilità di scelta in molte occasioni.
A volte possiamo, quindi, optare per una strada piuttosto che per un’altra. Altre volte, invece, la casualità introduce una inspiegabilità delle e nelle nostre azioni. Se, per esempio, una persona si trova nella necessità di essere soccorsa, magari a causa di un gravoso incidente stradale, noi possiamo fare appello al nostro senso etico, all’empatia e, quindi, dare aiuto a quella persona. Ma possiamo, di contro, fare la scelta opposta: scrollare le spalle, voltarci dall’altra parte e, molto cinicamente, fingere che non sia accaduto nulla. Quanto meno per noi e, ergo, non prestare soccorso.
Non possiamo negare che l’essere umano, anche in questi frangenti, è istintivamente soggetto e oggetto della scelta. Ma nemmeno si può escludere, ed anzi nella maggior parte dei casi avviene così, che ci si identifichi nella sofferenza altrui e che, riconoscendola come potenziale sofferenza anche nostra, si presti immediatamente soccorso a chi è in uno stato di fragilità, di bisogno quando, nel peggiore dei casi, di rischio per la propria vita.
La meccanica quantistica oltrepassa il dettame precedente, per cui mi era possibile fare quello che volevo anche nella cornice del determinismo, lì dove la catena degli eventi permetteva quindi di operare delle scelte nonostante la predestinazione divina dell’esistenza umana e della vita in generale. Nella “linearità” temporale prequantismo, questa concezione del libero arbitrio è contestualizzabile perché concepibile in tal senso. Ma, invece, nella nuova concezione meccanico-quantistica, proprio il tempo viene ad avere quella che gli scienziati hanno chiamato una “struttura ad albero” e include tutta una serie di futuri possibili.
Tante prospettive ma, comunque, legate ad un presente e, soprattutto, ad un passato, unico. Possiamo ancora, dunque considerarci “liberi” di arbitrare il nostro destino entro questa ristrutturazione mentale e pratica del rapporto che abbiamo con l’Universo, con la materia che è altro da noi ma di cui, biologicamente e fisicamente facciamo parte? In realtà l’osservazione scientifica del nostro essere, modernamente inteso nella complessità degli studi che evolvono di continuo, non preclude la possibilità di un recupero – udite, udite – persino del determinismo.
Sappiamo che in noi esiste un dualismo tra mente e corpo. Sappiamo che la mente, forma fenomenica del cervello anatomicamente inteso, è la sede delle nostre scelte, quindi dei nostri comportamenti. Ma possiamo dire con assoluta certezza di essere liberi di agire e di non subire nessuna influenza fisica che, quindi, anteponendosi alla volontà frutto degli scambi neuronali, diviene, seppure parzialmente, un elemento condizionante dell’attività di ognuno di noi?
Io posso, per esempio, decidere di camminare. Quindi avanzo con i miei piedi, muovo le gambe. Posso fermarmi. Posso riprendere a camminare. E posso fare tutto questo perché i miei arti sono a questo preposti. Siamo, come è facile rendersene conto, entro un determinismo abbozzato, ma pur sempre riconoscibile in quanto tale. Siccome il mio corpo è impostato per fare tutta una serie di cose, ma non altre, io sono libero di agire, di pensare, di muovermi come di stare fermo: ma il tutto entro le capacità suddette che sono all’origine della mia esperienza di vita.
L’ultima osservazione riguarda il desiderio. Braccia e gambe possono anche essere preimpostate, come il resto di noi, nell’agire in un senso, nell’essere utili per un determinato fine. Ma ciò che ci abita interiormente, ossia le nostre emozioni, non sempre così ben visibili come gli arti che ci compongono, hanno dei limiti deterministicamente dati? Se nel caso della materialità e della fisicità i limiti sono oggettivamente riscontrabili mediante l’esperienza empirica, per quanto riguarda il campo immateriale delle emozioni, le risposte si fanno più nebulosamente difficili.
Quello che si può affermare è che siamo liberi di fare quello che possiamo fare ma siamo liberi di desiderare entro un limite? Se non esistono limiti al desiderio, allora siamo di fronte ad una indeterminabilità dello stesso? Non c’è soluzione a questo quesito. Ma di sicuro i confini della psiche sembrano molto meno rigidi di quelli della stretta fisicità dei corpi. Si può imprigionare un essere vivente, ma non si può essere certi di aver stretto tra le sbarre anche la sua mente che, infatti, può uscire dalle mura della galera, volare ovunque possibile.
Siamo, in sostanza, liberi di volere quel che possiamo realisticamente fare, per dare soddisfazione ai nostri desideri. Ma non siamo liberi volere in assoluto quel che altrettanto in assoluto vorremmo. Sarà pure frustrante ammetterlo, ma così stanno le cose… Sic stantibus rebus… la conclusione mettetela, liberamente, voi.
MARCO SFERINI
2 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria