Benché il confronto parlamentare sul caso Almasry sia stato serrato e le opposizioni non abbiano concesso nulla alla sciatteria e alla demagogia governativa in materia tanto di immigrazione quanto di diritti umani, tanto di relazioni politiche estere quanto sulle carenze evidenti della maggioranza e dell’esecutivo laddove ci si riferisce alla considerazione del Parlamento come il centro vitale della Repubblica, non si può, in tutta onestà, parlare di un serio dibattito nella questione in oggetto.
In prima battuta perché Nordio e Piantedosi non hanno dato dei chiarimenti, ma hanno ribadito, e in alcuni casi si sono persino contraddetti reciprocamente, le precedenti versioni date sulle tempistiche e sulla disorganizzazione istituzionale nel pasticciaccio brutto del comandante e torturatore libico. In secondo luogo, perché dai banchi dei partiti di maggioranza è arrivato non un calzante sprone critico, ma soltanto una sequela di panegirici e di osanna nei confronti della Presidente del Consiglio (marcare: assente) e dei suoi ministri.
Bisogna ammettere che gli interventi di Schlein e Conte sono stati all’altezza della situazione, ma non così tanto da smuovere il gioco delle parti da sé stesso e impostare, per l’appunto quel necessario vero dibattito, quella vera e propria dialettica parlamentare che avrebbe permesso un po’ a tutte e tutti di farsi qualche idea chiara in più su una vicenda di cui ormai sappiamo tutto e, per questo, rimarranno due versioni: quella ufficiale del governo e quella vera di chi governo non è e può permettersi di dire pane al pane e vino al vino.
Qui preme più che altro rimarcare la stucchevole immobilità dei lavori del Parlamento; non tanto segnata dalle pulsioni aventiniane di questi giorni proprio riguardo la fuga del governo dalle sue responsabilità sul caso Almasry, quanto il logoramento incessante, da almeno tre anni a questa parte, delle prerogative delle Camere, del loro essenziale ruolo legiferante che deve poter prescindere dall’attività di Palazzo Chigi e non inseguirla, starle appresso diventando il notaio delle decisioni meloniane, singole o corali che siano.
Non è purtroppo una impressione dettata da una marcata critica nei confronti delle destre oggi alla guida del Paese. Piuttosto si tratta di una fisionomia nuova dei rapporti istituzionali, voluta da questa maggioranza che stravolge e perverte l’equipollenza tra i poteri dello Stato e, dunque, inficia naturalmente anche l’essenza della Repubblica democratica e parlamentare, tentando di trascinarla sul terreno dell’obbedienza alle formule del governo senza troppo discutere, senza quindi coinvolgere nel processo decisionale anche le opposizioni. A questa si lascia un diritto di tribuna e pochi spazi di agibilità nel contributo critico.
Quanta considerazione abbia il partito meloniano nei confronti della pluralità delle idee, dell’indagine giornalistica e, quindi, del non prescindibile controllo democratico e popolare su quanto avviene nelle stanze del potere politico, lo si è potuto vedere nei tanti anatemi lanciati contro i giornali non condiscendenti, nell’evitamento delle conferenze stampa, dei confronti in televisione e, conseguentemente, nel tentare di sminuire il lavoro dei cronisti, di ridicolizzarlo, di porlo ai margini della più complessa critica della ragion di Stato. A La7 ne sanno qualche cosa. Ma anche qualcosa ne sanno dalle parti di “Report“.
C’è chi ritiene superflui questi timori di limitazione della libertà di espressione, di indagine giornalistica, di critica a tutto tondo, senza tenere conto delle provenienze e dei colori della politica. La replica più facile è sempre la stessa: il governo è costantemente sotto assedio da parte di un insieme di oppositori che vanno dai conduttori televisivi emigrati dalla RAI alle televisioni private fino agli intellettuali, ai cantanti, agi scrittori, a tutti quegli imprenditori e a tutto quel mondo del lavoro che non si può riconoscere nell’estremizzazione iperliberista del governo Meloni. Per non parlare, ovvio, dei magistrati che, ancora ieri alla Camera e al Senato, sono stati oggetto delle invettive del Ministro della Giustizia.
Alcuni, secondo Nordio, sarebbero – al pari dei partiti di opposizione – colpevoli di ignoranza nei confronti delle vicende riguardanti il caso Almasry, oppure volutamente e pervicacemente capziosi nella ricostruzione di un filo illogico del comportamento dei poteri dello Stato che erano preposti alla cattura e all’esecuzione degli ordini di custodia in carcere per un criminale ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Il governo, piuttosto di ammettere di aver scientemente reso irrisolvibile un “vizio di forma” rilevato dai giudici, per permettere ad un torturatore di migranti di continua a fare il suo ignobile e sporco lavoro in Libia, così da limitare gli sbarchi in Italia, getta fango sulla CPI e ne disconosce il ruolo preminente.
Il caso Almasry pone sotto una luce molto chiara il metodo del governo Meloni in materia di gestione delle questioni che possono aprire varchi di crisi internazionale: offrire la sponda al migliore offerente che possa garantire la stabilità stessa dell’esecutivo e, unitamente a ciò, delegittimare tutte le altre possibili ricostruzioni, le stigmatizzazioni e le obiezioni che sono largamente condivise tanto dalle forze umanitarie, sindacali, sociali e politiche. Meloni e i suoi ministri voltano le spalle a qualcosa di più di una metà della popolazione che non la pensa come loro.
Questa superbia governativa, questa prosopopea d’altri tempi (vecchi, tragici tempi…) in cui la democrazia era divenuta solamente un ricordo, riporta al piano di ridefinizione della struttura democratica della Repubblica in un regime autocratico, certamente severamente disciplinato secondo la cultura e la morale esclusivamente della maggioranza che diventano dettame etico-politico generale e che si inverano così non solo mediante la subordinazione del Parlamento a Palazzo Chigi, ma anche tramite la sistematica occupazione dei centri di diffusione delle notizie e di interpretazione di quelli che dovrebbero essere i fatti e invece vengono ridotti a circostanze su cui il governo esprime una verità per tutti.
Viene progressivamente meno un’ossigenazione pluralistica che è l’ambito di ricrescita continua della dialettica fra le parti e si trattano gli oppositori non come dirimpettai critici necessari allo sforzo di gestione del Paese, ma come fastidiosi ingombri rispetto al comando che il governo vuole avere sul Paese stesso. Meloni governa soltanto quando non comanda. E quindi governa molto poco, perché comanda molto. Dai postfascisti ci si poteva attendere qualcosa di realmente diverso? La nostra Costituzione ci ha, per ora, ancora preservato da una torsione realmente autoritaria a tutto spiano.
Esistono tutt’ora dei limiti invalicabili che, se oltrepassati, farebbero nascere manifestazioni, scioperi e proteste spontanee e prolungate (almeno si spera…) in tutta Italia: per cui il governo autoritario deve tollerare che in televisione vadano anche le opposizioni; che i giornali non siano tutti compiacenti nei confronti del melonismo; che qualcuno in Parlamento si possa alzare e denunciare le malefatte della maggioranza, anche se l’insofferenza palpabile è il primo segno di un disprezzo molto alto della democrazia. I postfascisti non lesinano lusinghe e plausi al regime repubblicano, ma evitano accuratamente di abbracciare l’antifascismo, la religione civile dell’Italia post-bellica e resistenziale.
Hanno imparato dal berlusconismo a gestire il potere rimanendo uniti proprio nei momenti in cui la fragilità delle contraddizioni evidenti emerge con più prepotenza: perché sono fallibili, eccome se lo sono… Ma si destreggiano in questi cunicoli del chiaroscuro in cui nascono i mostri in un tempo dove l’insipienza del mancato fronte progressista è la premessa di un successo ininterrotto di una destra altamente resiliente e capace di inebriarsi del vento mondiale che soffia a suo favore dalle Americhe all’Europa e viceversa.
Quando Nordio afferma di non essere «semplicemente un passacarte» non esprime un concetto poi così bislacco: è ovvio che un ministro può accertarsi di quello che gli capita tra le mani e che, quindi, transita per i corridoi e le stanze del suo dicastero. Ma nel caso di Almasry era tenuto a trasmettere gli atti che, invece, non ha trasmesso. Il comportamento del governo, nel suo insieme, è – ripetiamolo – un indice di tenuta in considerazione non tanto delle prerogative proprie quanto di disattendimento delle altrui: a cominciare dal carattere sovrano del Parlamento che è il detentore della fiducia nei confronti dell’esecutivo.
La vicenda del torturatore libico ha il solo pregio (se così si può dire…) di mettere ancora una volta a nudo il re. In questo caso la Presidente del Consiglio e la “filosofia” politica che ispira la sua azione di governo: tutta volta a preservarsi come potere, ma apertamente a-costituzionale. Prescinde da troppi fattori democratici e ne considera altrettanti che sono in evidente distonia con la Carta del 1948, con l’equilibrio fra i poteri dello Stato, con l’impianto più complessivo della Repubblica che è, quindi, interazione col corpo sociale e civile della nazione.
Questo governo sovverte la Repubblica ogni volta che afferma di lavorare nell’interesse del Paese: agisce per nome e conto di una ideologia liberista che è il compromesso tra il passato impianto nostalgico di un potere autoritario e sovraordinatore di tutto e tutti e un neo-ipernazionalismo alla Trump con cui Giorgia Meloni va d’accordo, pur nel contesto delle compatibilità europee. Sia monetarie, sia atlantiste e belliche. Vanno fermati, nell’interesse dell’Italia che lavora, che patisce le conseguenze della crisi economica e che fa sempre più fatica a sopravvivere ed arrivare alla fine del mese.
Questo governo vive in una sconnessione complessiva con la realtà concreta del disagio diffuso. Non pensa che a salvaguardare i ricchi, a proteggere i profitti e fa ricadere sugli indigenti più poveri e raminghi l’ultimo pesante anello di una catena sempre più corta. L’opposizione deve poter avere una sua cultura: di confronto e scontro con la maggioranza ma anche di costruzione di una reale alternativa sociale, civile e democratica a tutto ciò. Ribadiamolo: serve un fronte progressista. Realmente tale, che metta insieme libertà e giustizia sociale.
Noi non siamo degli attori che stanno a guardare. Non siamo nemmeno dei passacarte del governo o degli esecutori passivi, taciti e acritici degli ordini di Palazzo Chigi. Se rappresentiamo ancora una parte dell’anima critica dell’Italia moderna, facciamo valere la capacità interattiva che abbiamo e mettiamo insieme tutte le esperienze cumulate per dare al Paese, quanto prima, una ritrovata condivisione tra politica di governo e politica di piazza. Mettiamo fine al governo del comando, creiamo i presupposti per un governo che gestisca la fase della crisi dal punto di vista del mondo del lavoro.
A questo serve la sinistra di alternativa. A governare oggi per cambiare la società domani. A gestire un mutamento sociale che sia anche civile, umano, animale, ambientale e pacifico.
MARCO SFERINI
6 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria