In cima al monte, nel cuore del Mugello, sta Barbiana. Tutto è tranne che un centro abitato propriamente pensabile, dicibile e intendibile. Una ventina di case a cui il bosco fa da collante e, poi, la parrocchia. Quella dove don Lorenzo Milani ha creato un modello anche di scuola ma, prima di tutto, di riavvicinamento ai valori della condivisione sociale, civile, morale e culturale per una piccolissima comunità che non era più tale e che era completamente separata dal resto della sua provincia, dalla Toscana, dall’Italia, dal mondo.
Quando da ragazzi si andava a scuola, il primissimo pensiero era il “dovere“. Perché, benché pubblica, laica e repubblicana, la scuola era subita piuttosto che voluta, ambita, ricercata e vissuta, come dovrebbe essere, in quanto parte di una evoluzione individuale e collettiva al tempo stesso. Ho un’età che mi permette di ricordare che, seppure per poco tempo, anche io mi sono alzato in piedi da piccino quando entrava la maestra e, quando a varcare la soglia dell’aula era il preside, lo scatto era perentorio e seguiva il “Attenti“, militarmente sfoggiato dalla tonante voce del docente.
Ad una domanda sull’istruzione pubblica, Carmelo Bene sbottò: «La scuola è riportare nella comprensione, nel pratico tutto ciò che è incomprensibile e complicato. Bisogna chiudere le scuole! L’istruzione obbligatoria? Ma che cos’è? La Siberia? Ma perché bisogna istruirsi, su che cosa poi? E poi chi deve istruirmi, lo Stato?». Fatte tutte le debite considerazioni sulla provocazione beniana che, comunque, rimanda a problemi non certo di secondaria importanza (come ad esempio il rapporto tra istruenti e istruiti), il principio è sostanzialmente questo: non c’è una educazione impartibile per disciplina e per Legge.
Se istruzione deve essere, come è giusto che sia per provare a dare alle ragazze e ai ragazzi gli strumenti primordiali perché si forgino da loro, nel proseguimento degli studi accademici, una coscienza altamente critica e indomitamente ribelle nei confronti di qualunque certezza possibile e propinabile, allora che lo sia sul modello anarchico e libertario di Barbiana. Attenzione alle parole: qui per “anarchico” si intende esattamente ciò che il termine etimologicamente esprime: senza un potere. Che non risponde quindi a nessun altro principio se non a quello della conoscenza.
I figli dei contadini dell’Italia appena postbellica, dove echeggia ancora il “Me ne frego!” di mussolinana memoria, non hanno mai oltrepassato i confini di quel monte: non sanno come sia fatto il mare. Non hanno mai visto un lago, forse nemmeno un fiume. Qualche ruscello, le piante della selva che colora di verde il tutto intorno alle loro povere case. Quel prete che viene dal capoluogo, sembra bizzarramente folle. Il proletariato agricolo qui è davvero la prima espressione della manovalanza che viene impiegata nei campi e che ad altro non serve se non a perpetuare una condizione di miseria.
L’Italia del boom economico che verrà è, per il momento, un sogno. Le macerie nelle città sono ferite ancora aperte. Mancano le abitazioni e si fa a gara a chi le occupa per primo: sfollati, profughi e chi non ha mai avuto un tetto sotto cui poter dormire. L’indigenza è generale: un’intera nazione ha bisogno prima di tutto di mangiare e poi, certamente, anche di riprendersi dallo shock del ventennio fascista, dai cinque anni di guerra, dai morti, dall’insensatezza che avvolge e preme sulle coscienze anestetizzate. Don Lorenzo Milani sale a Barbiana in un esilio tutt’altro che dorato. Ma per lui, alla fine, quello sarà. Il posto in cui realizzare compiutamente la sua missione pastorale.
Se vogliamo uscire per un secondo dal sacro e stare nel profano quotidiano, lì il priore (come lo chiamano i suoi ragazzi e la gente del luogo) comprende che il mondo lo si può cambiare partendo da un differente rapporto con la conoscenza del mondo medesimo. Non è vero che le parole se le porta solamente via il vento. Se adoperate con cura, scritte, rilette e pensate, rimangono anche nel vento delle nostre passioni, nei trasvolamenti delle idee oltre i confini del materiale e permettono di aprire la mente a nuovi viaggi critici, fomentando benevolmente il dubbio.
Non ci dovrebbe istruire un potere, ma dovremmo poterci istruire comunemente, insieme, confrontandoci, relazionandoci. Ovvio: in questa società capitalista, piramidale, antropocentrica e fondata sull’antietica del successo come elemento discriminante tra valore e disvalore, serve una scuola, un luogo dove poter riunire i giovani e consegnare loro quel minimo di fondamentali che possano loro permettere di sviluppare un presupposto critico tutt’altro che pregiudiziale.
I ragazzi di Barbiana pensano, scrivono e don Lorenzo, leggendo le cronache sulla scuola pubblica dell’epoca, fa di loro dei redattori di un pensiero stimolante che induce alla ribellione, al “fare baccano” in mezzo ad un silente conformismo che abitua a considerare normale la morale borghese: una borghesia, un ceto medio da cui lui proviene, ma in cui molto poco si riconosce se non per affetto familiare. “Lettera ad una professoressa” (rieditata da Mondadori in occasione del centenario della nascita del priore) è uno straordinario esempio di scrittura collettiva, un prodotto di una condivisa elaborazione concettuale, un coro di esperienze che si intersecano e danno vita a qualcosa di più di una mera sintesi.
Nella semplicità dei pensieri espressi dai ragazzi di Barbiana, la mano di don Milano interviene solo per renderli ancora più comprensibili per chiunque: soprattutto per quei più fragili e privi di strumenti di comprensibilità dell’esistente. Tutte e tutti devono poter leggere, scrivere, apprendere e offrire un contributo ad una Italia del dopoguerra in cui il tasso di analfabetismo è davvero impietosamente e negativamente importante. Soprattutto al sud. La prosa è tagliente, a volte sferzante: i concetti sono diretti, come dirette e senza troppi giri di parole sono i quesiti dei bambini e dei ragazzi. Loro vogliono sapere “il perché” di quello che gli accade intorno. Vogliono delle risposte.
Sono esattamente queste domande schiette a destabilizzare una società che, troppo facilmente, si lascia sedurre dal compromesso delle concettualità che distinguono, creano presupposti e preconcetti, alterando la genuinità delle verità che sono, alla fine, sotto gli occhi di tutti. La scuola della neonata Repubblica italiana è certamente altro rispetto all’educazione di regime del fascismo. Vi si tenta una democratizzazione del sapere, una inclusività che, nonostante gli sforzi di tanti docenti, risente ancora troppo del classismo, della separazione delle classi sociali in classi scolastiche. I bravi con i bravi, i meno bravi con gli ancora meno bravi.
E così i figli del proletariato rimangono privi, nella sostanza, di una anche sola costituzionale, civile ed umana possibilità di avere le stesse possibilità dei figli della buona borghesia imprenditoriale, del ceto medio, di quello che un tempo si poteva definire “padronato“. Tra i tanti pensieri che si leggono nella polifonia emozionante messa nero su bianco dai ragazzi di Barbiana, si legge: «È l’aspetto più sconcertante della vostra scuola: vive fine a se stessa». Don Milani, nel mettere insieme tutti questi frammenti di disperazione e di disagio, si rende conto che, per quanto si possa ignorare la dinamica sociale, c’è già nei giovani la percezione dello scontro di classe.
L’analfabetismo del bracciantato agricolo non impedisce di evincersi del fatto che i ricchi si arricchiscono sempre di più e i poveri sono costretti a consentirglielo da un sistema economico che trova nel risvolto politico la sua protesi di controllo obiettivamente antisociale. L’esperienza fatta dal priore nei suoi primissimi anni di sacerdozio, accanto alle maestranze delle fabbriche fiorentine, vicino alla miseria di chi moriva per la mancanza di cure, a causa di una semplice febbre o del tetano, sarà utile nell’accostamento tra realtà urbana e realtà di montagna.
Due mondi apparentemente lontanissimi fra loro ma che, proprio a pochi chilometri da Firenze, si sintetizzano nell’incontro che i ragazzi dovranno fare col resto del mondo. Ogni scritto di don Lorenzo Milani ha inevitabilmente fatto quel baccano che voleva fare. Dal riconoscimento del diritto alla disobbedienza come elemento, anche qui, non di cieca ribellione fine a sé stessa, semmai di presa di consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri oltre le guerre, il militarismo e una concezione della nazione esclusivamente in chiave bellicista, fino alla necessità di una nuova scuola.
Una scuola pubblica che non doveva e deve intendersi come parte dello Stato, ma come servizio pubblico oltre il potere: per questo l’istruzione deve essere libera e non può avere canoni politici che la uniformino e ne determinino i programmi. Tutto deve poter essere detto, pensato, riflettuto e metabolizzato. Quando si ritiene di poter vietare qualcosa a scuola, si fa torto in primis al principio costituzionale dell’insegnamento come parte fondante della libera espressione dell’individuo nella società. Come i giudici sono soggetti soltanto alla Legge, così gli insegnanti dovrebbero essere soggetti soltanto al sapere.
Se anche sono dipendenti pubblici, non dovrebbero rendere conto se non alla verità dei fatti, alla loro coscienza e a quella dei loro alunni, del loro operato. Parimenti, i ragazzi dovrebbero essere liberi di vivere il loro rapporto giovanile con l’istruzione come un momento della loro esistenza in cui non vi sono certezze ma solo dubbi; a cui si dà, di volta in volta, una o più risposte, permettendo così al “punto di vista” di essere l’occhio critico sul limitrofo così come su un più ampio spettro del mondo. Certo, dal 1954 ad oggi il mondo stesso si è rivoluzionato.
Ma ciò che indusse don Lorenzo a mettere per iscritto la “lettera” è vivo e ci parla in mezzo ad una ridonante comunicazione di massa che spoglia l’essenza delle individualità delle potenzialità espressive, induce a tante coazioni a ripetere pseudo-concetti e idee che ammutoliscono i pensieri critici, annichiliscono i presupposti del dubbio e ci fanno seguire la corrente di quella “viralità” delle condivisioni social che sono un martellamento omologante in tutto e per tutto. Per difenderci da tutto questo, dovremmo riabituarci a considerare ciò che è davanti a noi non come un dato di fatto.
Dobbiamo recuperare lo spirito ribelle di Barbiana: fermarci un attimo, guardare il mondo con una propensione alla lentezza piuttosto che alla dinamicità e soffermarci su un problema alla volta. La scuola pubblica del 2025 è, non di meno di quella del 1954, uno dei pilastri dell’inefficienza del potere per il potere; è stata piegata ai disvalori mercatisti, resa una fucina di psuedo-talenti da affidare alle imprese per fare profitti e mortificare le intelligenze. Si fa tanto parlare delle “start up“, delle innovazioni, della genialità dei nostri giovani, ma la maggior parte di loro fugge all’estero.
Per cercare una realizzazione delle proprie esperienze di studio e per avere una remunerazione adeguata al loro ciclo accademico. Se don Lorenzo Milani potesse osservare oggi lo stato della nostra scuola, una cosa è certa: non starebbe in silenzio. Ecco, quindi, che rileggere “Lettera a una professoressa” è il miglior modo per continuare a “fare baccano“…
LETTERA A UNA PROFESSORESSA
SCUOLA DI BARBIANA
MONDADORI, 2023
€ 12,50
MARCO SFERINI
26 febbraio 2025
foto: particolare della copertina del libro
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