Lenta, continua consunzione della democrazia repubblicana

Ci sono molti modi per ostacolare dei normali processi democratici: primo fra tutti è l’autoritarismo manifesto delle forze che si trovano al governo di un paese e che decidono,...

Ci sono molti modi per ostacolare dei normali processi democratici: primo fra tutti è l’autoritarismo manifesto delle forze che si trovano al governo di un paese e che decidono, seguendo le loro tendenze culturali, ideali e gli interessi più materialmente intesi cui fanno riferimento, di operare nel senso di un cambiamento delle regole del gioco. Le chiamano “riforme”, ma il più delle volte sono delle vere e proprie “controriforme”. Tanto più si vuole agire in senso contrario rispetto alle costituzioni degli Stati liberal-democratici, così si finge di avere a cuore – come dice qualche esponente di destra presenzialista in molte trasmissioni televisive – “la più bella costituzione del mondo”.

Ci potevamo attendere tutto, qualunque calamità possibile e immaginabile, ma che un neo o post-fascista che sia si metta a decantare ed elogiare la Costituzione della Repubblica nata dal partigianato e dal fenomeno resistenziale (che prende forma fin dai primi anni del regime mussoliniano), ma questo francamente no. Ed invece avviene, con una sfacciataggine che è la misura un po’ dello stato dell’arte nell’Italia meloniana: qui e ora la verità è molto più capovolta rispetto ad altri contesti. Qui ed ora al governo se le inventano tutte pur di tenere fermo un equilibrio mobile, fatto di contraddizioni molto evidenti.

La consunzione della democrazia è, a onor del vero, non figlia solamente dell’oggi. I tentativi golpisti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono lì a dimostrare che il regime repubblicano fondato dall’Assemblea costituente è stato un po’ sempre in pericolo o, se vogliamo dirla meglio, non è mai stato completamente al sicuro. Questo perché ha rappresentato, soprattutto nel dopoguerra, un forte elemento di discontinuità con il passato regime, con la monarchia e, prima di ogni altro fattore, con un presente capitalistico che si stava rinnovando esattamente in coincidenza con il finire del secondo conflitto mondiale.

Piuttosto curioso è il fatto, ovviamente spiegabile dati alla mano, che nel corso della cosiddetta “prima repubblica” la presenza dei grandi partiti di massa aveva permesso lo sviluppo su vasta scala di ideologie che avevano coniugato sociale e politico, stabilendo delle precise fisionomie tanto popolari quanto istituzionali: il “partito” era prima di tutto una idea, una concezione della società, per come sarebbe dovuta essere, per quel che avrebbe dovuto rappresentare. I soggetti politici erano, quindi, espressione di un sentire comune: chi si definiva democratico cristiano, chi comunista, chi socialista, chi repubblicano, chi liberale, chi socialdemocratico.

E così pure chi anarchico e chi fascista, come cantava Guccini ne “L’avvelenata”… Non si era un po’ tutto e il contrario di tutto. La gente, in particolare le masse, quelle umili, disadorne di cultura, prive di un sapere che era ancora piuttosto elitario e concesso ai figli della borghesia perbenista e tanto poco perbene, avevano una capacità critica notevole data dalla coscienza del loro essere sociale. Non c’è dubbio che questo sia stato, per lungo tempo, il terreno più adatto per una crescita della democrazia italiana e che, proprio dalla riunificazione popolare sotto l’egida benevola della Costituzione, abbia preservato la Repubblica dai tentativi di sovvertimenti che le sono stati mossi contro.

Il “partito” era, dunque, un intellettuale collettivo e, se vogliamo, anche una sorta di inconscio altrettanto tale, perché, pur non avendo grandi doti intellettuali (ma molte doti intellettive) contadini, operai, casalinghe e proletari in genere erano in grado di discernere quali fossero le forze politiche capaci di fare i loro interessi e quali invece da contrastare: partendo proprio dalla partecipazione a quella conquista giovanilmente viva che era (e che dovrebbe rimanere) il voto. Recarsi alle urne significava esercitare la “sovranità”, essere protagonisti delle mutazioni della politica nazionale e, quindi, interpretare compiutamente il dettame costituzionale in merito.

Poi, la rivoluzione di Tangentopoli ha scoperchiato un meticoloso reticolato di malaffare, di commistioni velenose tra pubblico e privato, di consociazioni altrettanto tali, da disilludere anche il più onesti dei cittadini che, sul momento ha pensato si trattasse di qualche fenomeno isolato o di più episodi accomunati da una comunque vasta rete di corruttele e disonestà in gran pompa.

Così, la democrazia ha finito per essere somigliante non a chi si era tenuto fuori dal quel verminaio ed aveva mantenuto comportamenti consoni al benessere comune, sociale ed anche all’integrità morale singola e collettiva. La democrazia è stata, dietro le pressioni della propaganda delle prime leghe che venivano avanti per reclamare privilegi regionali e non solidarietà nazionale, bollata come intrinsecamente fragile, priva di anticorpi e contrappesi capaci di far valere le ragioni anzitutto sociali.

La classe politica del Pentapartito, incapace di rappresentare adeguatamente gli interessi della grande impresa e della borghesia italiana, è stata a quel punto sostituita, nel governo del Paese, dall’imprenditoria stessa: il berlusconismo è esattamente questo. L’intuizione nefasta che dietro alla guida di un padre e padrone della nazione si sarebbe potuto accodare tutto un parterre di politicanti un tempo all’ombra, relegati nell’a-costituzionalismo del post-fascismo missino, nonché ridare nuova vita ad una sequela di corifei che parevano caduti in disgrazia per sempre: il riciclaggio di democristiani e craxiani di lunga lena avvenne proprio così.

Nel mentre tutto questo appariva a tantissime persone come un rinnovamento complessivo della vita sociale, politica e persino culturale dell’Italia di fine Novecento, si ponevano invece le premesse per un lungo trentennio di alti e bassi in cui Berlusconi avrebbe consolidato non solamente il potere proprio (sia politico, sia economico e finanziario) ma avrebbe aperto la strada ad una nuova classe dirigente: inizialmente fatta di molti ripescaggi nel recente passato che lo aveva sostenuto in ogni momento di difficoltà propriamente imprenditoriale; di seguito fatta, invece, di quelle che si potrebbero definire “nuove leve” la cui onda lunga si è manifestata soltanto dopo la fine politica e poi biologica del capo.

Ed è esattamente dal 1994 in poi, con lo sprigionarsi della nuova era berlusconiana, che gli italiani scoprono la possibilità – apparentemente molto democratica – di non vincolare più il voto a ciò che realmente pensano, alla loro cultura formatasi in famiglia, nel luogo di lavoro, a scuola… Ma di cambiare continuamente il loro consenso a seconda della novità che arriva. E la novità è quasi sempre rappresentata dalla sostituzione del precedente leader con uno che sembra nuovo ma che, in realtà, proviene da palestre politiche di lungo corso. Servono almeno vent’anni perché tutto questo prenda una forma che sia anche oggettiva sostanza.

L’ondata di destra, fermata brevemente dalle parentesi piuttosto infelici dei governi a guida Prodi, induce all’autogenerazione del populismo più becero, della riduzione delle diseguaglianze a colpa individuale in un’ottica di spersonalizzazione, di decostruzione del cittadino come elemento portante della collettività e di questa come supporto solidale del singolo. Se un mutamento antropologico e culturale avviene in Italia in quel periodo, questo si colloca proprio nel decennio tra l’effetto Tangentopoli, che spinge la politica all’individualismo leaderistico, alla prevalenza del volto rispetto alle idee, al rampantismo in salsa statunitense, al revisionismo storico nel nome della “pacificazione nazionale”.

La mutazione politica, in quanto sovrastrutturale, è mutazione anzitutto strutturale economico-sociale. Ed infatti, l’elettorato che cambia ad ogni tornata di voto il consenso e transita da un partito all’altro con una impressionante disinvoltura, è quello più disagiato, ai margini delle periferie di grandi come di medie città. Si insegue la speranza di un cambiamento che sia radicale e che, invece, puntualmente delude: con le privatizzazioni dei beni pubblici, con la flessibilità del mondo del lavoro, con la precarietà e la fine dei contratti collettivi nazionali (o per lo meno il loro drastico ridimensionamento nelle trattative e nelle piattaforme tra sindacati ed aziende). Il malessere economico viene strumentalizzato.

Le risposte governative quando non deludono, come nel caso del centrosinistra, allarmano. La destra però finisce per esaurire la carica propulsiva sommersa da numerosi scandali, prodotto della mala gestione del potere (inevitabile quando si fa politica per mantenere in salute i propri affari a scapito della “naturale” concorrenza capitalistica) e così subentrano nuove sperimentazioni sempre fisiognomicamente riconducibili alle fattezze populistiche più propriamente tali: la prima stagione del Movimento 5 Stelle. L’elettorato premia il partito grillino con il 25,5% dei voti, ne fa la forza di maggioranza relativa. Poi arriva Renzi, rottama qua e là, e trasforma il PD in una forza di centro sempre meno di sinistra.

Il risultato è: la novità viene premiata e i democratici volano al 40.8%. Ma nel 2018 i Cinquestelle recuperano sull’onda della protesta dei “Vaffaday” e arrivano al governo con la Lega che ha il vento in poppa di un salvinismo crescente. Ma la luna di miele dura poco e gli italiani decidono, dopo la crisi del governo giallo-verde innescata dalla voglia di capitalizzare i consensi del nuovo Carroccio a trazione nazionale, che i consensi vanno dirottati proprio lì, dove la destra istituzionale inizia a farsi estrema, molto estrema. Passano soltanto pochi anni ed è la volta di Fratelli d’Italia, dopo le parentesi del Conte II e del governo Draghi.

Non l’impressione, ma la realtà dei fatti è che l’elettorato, da più di un lustro a questa parte, vota ciò che gli viene presentato come “il nuovo”. Parimenti sale l’astensionismo che l’effetto primo di questa causa: nonostante i tanti cambiamenti, sembra non venire fuori una società italiana diversa da prima e, anzi, aumentano povertà, mancanza di servizi sociali, infrastrutture pubbliche, tutele e garanzie dal lavoro alla scuola, dalle pensioni alla sanità. Il lento declino della democrazia repubblicana non è dunque terminato, non conosce soste e il melonismo è soltanto l’ultima tappa, cronologicamente parlando di un lungo percorso di inedia.

Proprio di pochi giorni fa è la notizia che il governo, prendendo in contropiede sia le opposizioni sia la sua stessa maggioranza, tirato nuovamente fuori la riforma costituzionale del premierato dal cassetto polveroso in cui giaceva. Il tutto mentre sta per essere legge il decreto-paura-sicurezza che limiterà tante libertà, tanti diritti di manifestare, di criticare legittimamente ciò che fa l’esecutivo. L’allarme sociale porta con sé quello democratico. La lotta per i diritti è una soltanto: oggi più che mai.

MARCO SFERINI

31 maggio 2025

Foto di Element5 Digital

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