Semplici e lineari, tragiche e truculente, accidentate e piene di imprevisti: con vacanze più o meno lunghe, con repentinità improvvise che allarmano e che lasciano increduli in un vuoto di potere che deve per forza essere colmato; pena la comune rovina o, quanto meno, la rovina delle cosiddette “classi dirigenti“. Che si tratti di partiti, movimenti o cortigiani di vecchio o nuovo stampo, quando un capo di Stato muore o termina il suo mandato elettivo si apre inevitabilmente il problema della successione.
Piuttosto singolare riuscire a trovare un saggio davvero coinvolgente e interessante che tratti questo argomento plurimillenario. Invece è stato scritto e ha riscosso anche un discreto successo: Alfonso Celotto, ordinario di Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato nell’Università degli Studi Roma 3, se ne è occupato molto accuratamente in “L’enigma della successione. Ascesa e declino del Capo da Diocleziano a Enrico De Nicola” (Feltrinelli, 2021).
Si può avere la tentazione di leggere questo libro con più approcci dissimili fra loro ma, ovviamente, riguardando lo stesso testo, compenetrabili fra loro: il primo di questi avvicinamenti riguarda la storia della successione in quanto fenomeno squisitamente politico. In questo senso prevale un po’ l’aspetto noir dell’avvicendamento tra i potenti che sono ricordati nella Storia e dalla Storia stessa. Anzitutto perché la lunga scia di sangue che ha interessato i passaggi da padre a figlio nel sedere su troni principeschi, reali o imperiali si perde davvero nella notte dei tempi e sconfina nel mitologico nonché nel più fantastico racconto biblico che, a sua volta, si rifà ad una tradizione quasi orale.
In seconda istanza, il libro di Celotto può essere letto, invece, con un piglio prettamente stroriografico e, quindi, qui prevale invece l’acutezza della circostanziazione, non tanto di dettagli che potrebbero apparire gossipari, ma delle metodologie che il potere stesso si è inventato per ripararsi dalle fughe in avanti di congiurati, di pretestuosi pretendenti rispetto ad una legittimità della linea dinastica che veniva affidata, per essere maggiormente protetta (quindi passivamente accettata soprattutto dalle corti infide e cospiranti) alla predestinazione divina e, in età più moderna, dopo la Rivoluzione francese, anche alla volontà della nazione.
Lo studio delle forme istituzionali del potere è necessario per comprendere le successioni: repubbliche e monarchie possono somigliarsi e, addirittura, convivere in uno stesso regime (come nel caso molto tipico dello statolderato olandese); così come presidenti, reggenti, capitani e quant’altro possono avere le stesse prerogative di un individuo che si è posto una corona sul capo e ha deciso che, da lui in avanti, i suoi figli l’avrebbero portata di diritto e di fatto. Ma, per quanta somiglianza possa ritrovarsi, è abbastanza chiaro che ciò che distingue la successione nelle monarchie da quella nelle repubbliche è il metodo.
Discendenza ed elezione non sono nemmeno lontani parenti e, tuttavia, possono anche esistere monarchie, peraltro assolute, in cui non esista una linea di discendenza e ci si affidi proprio all’elezione per tramandare e consolidare il potere. È il caso dello Stato della Chiesa prima e dello Stato della Città del Vaticano poi. Se il re d’Inghilterra regna ma non governa, il papa di Roma regna, governa e dispone su tutte le materie con piglio decisamente imperativo perché assolutisticamente dogmatico. Il pontefice, in quanto Vicario di Cristo, seppur pro tempore, è il sovrano incontrastato del più piccolo microstato del mondo e può davvero tutto. Tranne designare un suo successore.
Il limite e, se vogliamo, il pregio dell’elezione del papa distingue la linea di successione da tutte le altre conosciute: il successore di Pietro viene nominato con l’invocazione allo Spirito Santo («Veni, creator Spiritus»), quindi è indiscutibile a priori l’esito della votazione del collegio cardinalizio riunito nel Conclave. Può qualcuno rimproverare a Dio di aver ispirato i principi della Chiesa in un determinato modo? Certo che no. La trovata è molto intelligente e sagace: qui non si tratta nemmeno di sovrani che si dicono unti dalla divinità. Qui si offre la certezza che è direttamente Dio a dare alla Chiesa un viatico e nessuno vi può deviare.
La successione, quindi, come si vede, non è certo un qualcosa di dato sempre per scontato, a parte quando, come nel caso della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, si inventa la discesa di una delle tre persone divine a sancire la sintesa delle manovra intercardinalizie per guidare la “barca di Pietro” nella acque dell’attualità o, se si vuole, della cosiddetta “modernità“. L’antica disputo tra papato e impero, non fosse altro che per questi presupposti di auto-attribuzione del volere divino, è stata certamente vinta dagli inquilini antichi del Quirinale e poi dei palazzi apostolici in Vaticano. Per gli imperatori valeva il gioco acerrimo della politica che, fino ad un certo periodo, era valso anche per i papi.
Poi, siccome i cardinali, rappresentanti di tante fazioni e di interessi diversissimi, non si mettevano d’accordo, li chiusero “cum clave” e, Spirito Santo o no, gli imposero di rimanere esclusi dal resto del mondo fino a che non avessero trovato un successore del papa defunto. Presi dalle astinenze, più che dal mistico richiamo iperuranicamente divino, alla fine cedettero al compromesso. E da allora il papa è eletto pur rimanendo un sovrano assoluto di una fede religiosa e di un credo che non ha eguali sul pianeta. I traumi istituzionali, dunque, sono quasi sempre alla base di una successione che cade lì dove vi è un passaggio, per così dire, epocale.
Prendiamo il caso dell’Italia del secondo dopoguerra: se ne legge spessissimo la chiosa a margine che, tuttavia, rimane impressa proprio perché, anche in questo frangente, ci troviamo innanzi ad un unico nella Storia (dis)umana. Per la prima volta, infatti, il cambio di forma istituzionale (dalla monarchia sabauda compromessa col regime fascista alla repubblica democratica e parlamentare) avviene senza una cesura netta di una rivoluzione, senza sommosse di massa, senza stravolgimenti che riguardino direttamente quell’evento. Certo: la fine della Seconda guerra mondiale, della dittatura mussoliniana, la Resistenza antifascista e l’intervento alleato sono tutte premesse logiche di quello che avvenne nel 1946.
Ma, a dire il vero, già dalla “Svolta di Salerno” si era manifestata la chiara volontà condivisa dai partiti antifascisti di porre la questione della riforma dello Stato e di farlo dopo la fine del conflitto. La costituzione del cosiddetto “regno del Sud” nel Mezziogiorno via via liberato dalle truppo di Patton e Montgomery (oltre che da singoli e davvero emblematici episodi di partigianato improvvisato, come la “Quattro giornate di Napoli“) non era quindi la riproposizione defascistizzata del Regno d’Italia liberale conosciuto dal 1861 al 1922. Così come la Repubblica Sociale Italiana, fantoccia del Terzo Reich, non ne era una possibile e concreta alternativa.
La questione della forma dello Stato diveniva quindi una successione in tutto e per tutto: al fascismo doveva seguire una democrazia. Se repubblicana o monarchica l’avrebbe deciso il popolo. Il Decreto Luogotenenziale del 16 marzo 1946 stabiliva con nettezza i criteri di questo passaggio davvero importante perché concordato unanimemente da forze politiche tanto, ma tanto diverse fra loro: «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Repubblica, l’Assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto, eleggerà il Capo provvisorio dello Stato».
Ecco la successione. Umberto II, re di maggio, lascerà recalcitrando e minacciando quasi un colpo di Stato, il suo posto prima a De Gasperi, che avrà per pochi giorni quelle funzioni e, quindi, a colui che, dopo aver avuto per un anno e mezzo la carica di Capo provvisorio dello Stato, diventerà anche il primo Presidente della Repubblica Italiana: Enrico De Nicola. Particolarmente interessante è l’articolo 5 del citato decreto luogotenenziale: «Fino a quando non sia entrata in funzione la nuova Costituzione le attribuzioni del Capo dello Stato sono regolate dalle norme finora vigenti, in quanto applicabili».
Quindi le leggi del Regno, in merito alla disciplina dei poteri che erano del re, sarebbero valse anche per i primi anni della Repubblica e per il suo primo presidente. Celotto lo evidenzia: le successioni, che appaiono spesso scontate, invece assumono connotati tanto diversi fra loro perché non sono un meccanicistico passaggio di consegne, completamente scontato e quasi rasentante il formalismo. Sono, il più delle volte, complicatissimi viatici che ricordano le forche caudine. Difficili transiti da un potere all’altro pur nell’ambito di una continuità statale la cui solidità è imprescindibile per determinare, quanto meno, un avvicendamento certo pur in tutte le incongruenze del singolo caso.
Là dove, invece, è intervenuta la congiura, la mano armata di pugnale, di pistola, oppure la rivoluzione, si sono squadernate completamente le basi della contiguità in tutto e per tutto e, dunque, la successione è multistrato, molteplice: da vecchio a nuovo Stato, da vecchio a nuovo governo, da vecchio a nuovo regime, da vecchio a nuovo sovrano o presidente. Anche da quelle successioni che paiono democraticamente stabilite mediante un cammino legale e parlamentare, può venire fuori invece una cesura netta col presente che, quindi, determini una rottura persino traumatica: basti pensare, più che al fascismo, al nazismo. L’NSDAP prende il potere legalmente.
Nel farlo, in ogni comizio di Hitler, si parla della volontà di abolire il parlamentarismo. Quindi è chiaro che una volta in maggioranza, il partito nazista porrà la questione del superamento della dialettica democratica, della stessa struttura della Repubblica di Germania. Anche questa è una successione che riguarda il potere che, da espressione diretta della delega elettorale, diviene condivisione personale del nuovo cancelliere – capo di Stato (dopo la morte del maresciallo Hindenburg). Scrive Celotto che, quindi, la successione è tanto una manifestazione del potere quanto una sua mutazione e che questi due presupposti marciano sempre univocamente insieme.
Il precedente lascia il posto al seguente, ma non scorda di mostrare così la legittimità di cui si giova. Di per sé la successione non è mai neutra, non è nemmeno un concetto ontologizzabile e definibile in quanto certamente tale sempre e comunque. Si nutre di una temporalità che non è nemmeno determinabile, viste le tante variabili storiche che sono descritte dal professor Celotto nel suo argomentatissimo libro. Insomma, la successione è quanto di più incerto, instabile e impronosticabile possa trovarsi nel cammino umano, nelle migliaia di anni di Storia di cui siamo tutti un po’ protagonisti anche se dimenticati…
L’ENIGMA DELLA SUCCESSIONE
ASCESA E DECLINO DEL CAPO DA DIOCLEZIANO A ENRICO DE NICOLA
ALFONSO CELOTTO
FELTRINELLI, 2021
€ 19,00
MARCO SFERINI
30 luglio 2025
foto: particolare della copertina del libro
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