Leggere il paesaggio

Il paesaggio è il contorno che ci rende leggibili a noi stessi, ché nessuno in sé sarebbe se non vi fosse l’altro come termine di paragone. Leggere il paesaggio,...

Il paesaggio è il contorno che ci rende leggibili a noi stessi, ché nessuno in sé sarebbe se non vi fosse l’altro come termine di paragone. Leggere il paesaggio, dunque, equivale ad imparare a leggersi, scoprendo ciò che è in noi attraverso ciò che ci sta intorno, in un eterno principio di azione e reazione per cui siamo ciò che è il nostro essere sociale e l’essere sociale è ciò che sono i componenti della società, e i termini non sono mai aritmeticamente sommabili, così da dare alla natura umana quel carattere di indeterminatezza, di “casualità”, di “fallibilità” – umano, troppo umano – che, eterni secondi rispetto agli dei, ci rende eguali in quanto egualmente fragili.

Oggi, nel tempo in cui inedite e totalizzanti forme di potere economico e politico sembrano voler distruggere la coscienza civile, trasformando gli individui, da cittadini, a massa di manovra e complementi oggetti del predicato capitalistico, la capacità di cogliere gli aspetti temporali e ambientali del paesaggio, la sua diacronicità, la complessità pluristratificata di ciò che sta dentro di esso e di ciò che appare, si pone come terreno di lotta culturale contro l’omologazione: una massa che vive in un eterno presente e in un eterno non luogo si muoverà inevitabilmente senza consapevolezza, e tale inconsapevolezza sarà l’inconsapevole filo con cui verrà mossa.

Il paesaggio, e nella fattispecie il paesaggio europeo, mediterraneo e italiano, non è un prodotto della natura, ma un manufatto, ossia la risultante di molteplici interventi umani i quali, a partire dal neolitico ad oggi, hanno modificato lo stato di natura mediante il taglio del bosco, la riduzione a coltura e a pascolo,la regimentazione delle acque e la creazione di infrastrutture ed edifici, quell’ “immenso deposito di fatica” di cui palava Carlo Cattaneo nel guardare alla Pianura padana: ecco perché, attraverso esso, noi possiamo leggere la storia di chi lo ha modificato, costruito, pensato, pianificato, ahimé devastato, così da avere una vera e propria “stratigrafia” dei diversi interventi nel corso della storia.

Per ottenere tale visione d’insieme, così presente in ogni istante della nostra vita da essere divenuta impercettibile, basta fare un esercizio semplicissimo: passeggiare per le strade in cui mettiamo piede tutti i giorni ed osservare le componenti del paesaggio, dalle case, ai parchi pubblici, ai boschi, alle strade, ai corsi d’acqua, soffermandosi su ciascun particolare con lo sguardo domandante di chi si chiede: “Cosa ho di fronte? Come è stato costruito? Che storia ha alle spalle? Cosa c’era o non c’era prima? E’ sempre stato così?”. Così facendo, ben presto ci renderemo conto di come il consueto, l’ovvio, l’abituale, siano in realtà inconsueti, per nulla scontati ed inediti qualora siamo in grado di afferrarne le miriadi di componenti di cui sono costituiti: una pianta esotica in un parco reca seco la storia di viaggi lontani e di gusti formatisi in seguito ad essi; una facciata dipinta ci racconta di mode e stili ben precisi, così come un bosco o un campo coltivato ci narrano la storia di un paesaggio agrario determinato dalla risultante di secoli di attività umane e un canale, un fiume, un approdo portuale, portano dentro le continue interazioni fra uomo e natura, talvolta vincenti, talvolta drammaticamente perdenti, quando la cultura produttivista, che pure ha avuto i suoi meriti nell’emancipare l’essere umano, dapprima spaventato come l’islandese di Leopardi, dalla sua subalternità alla natura,ha rotto un equilibrio con linee di faglia che rischiano di compromettere irreversibilmente la vita stessa sul Pianeta.

Oggi, nell’epoca in cui le reti sociali hanno apparentemente (sottolineo l’avverbio) annullato le distanze ed il tempo, per paradosso, l’utopia dell’annullamento dello spazio nel tempo reale si è rivoltata nell’annullamento della coscienza dello spazio nel tempo virtuale: guardiamo il mondo attraverso gli schermi e tutto ignoriamo del mondo al di là delle nostre finestre, così da perdere la dimensione del divenire storico e del suo plasmare il territorio e le culture, sostituita da un eterno presente in cui al cittadino cosciente e consapevole, punto cardine della democrazia, si sostituisce il già citato sciame dell’ “homo consumens” (per citare Bauman) che, sempre più indebitato, distrugge persino il futuro di chi verrà dopo di lui, intrappolandolo col debito perenne ancor prima che nasca, mentre, vagando di centro commerciale in centro commerciale, di non luogo in non luogo, si intossica di passioni tristi, siano esse il consumo o la xenofobia, quando mancano i soldi per il consumo.

Esiste allora un legame fra la nostra capacità di cogliere ciò che ci sta intorno nella sua complessità e/o nella sua semplicità e la nostra capacità di esercitare l’empatia verso il prossimo in quanto essere vivente, e non statistica, flusso, escrescenza, esubero: tale legame è costituito dalla nostra capacità di guardare, di domandare su se stessi e sugli altri: un individuo sterilizzato culturalmente inevitabilmente diviene un individuo amorale e anaffettivo, dal momento che gli viene tolta la minima capacità percettiva di sé e dell’altro, fattore che altrettanto inevitabilmente porta all’insorgere di vere e proprie forme patologiche di delirio in senso etimologico, ossia di uscita dal solco, poiché un fiume troppo imbrigliato finisce per straripare, divorando tutto ciò che ha intorno, per finire a scomparire in una indistinta palude, sino a divenire, terminata l’alluvione, un’acqua stagnante e mefitica.

Testimonianza di tale distopia realizzata si può cogliere quotidianamente nell’apatia generalizzata ( a parte casi particolari legati a particolari luoghi, come la Val Susa ) con cui vengono subite da parte della “gente comune” le devastazioni dei territori, trasformati nella neolingua delle classi dominanti e dei loro megafoni in “piattaforme logistiche” per “opere strategiche”, tav, tangenziali, basi, aeroporti, lottizzazioni, quando non discariche di rifiuti tossici, radioattivi o luoghi di smaltimento per ecomafie politicamente presentabili o no.

L’accettazione di tutto ciò, comprese le morti determinate dall’inquinamento delle acque e dei suoli, spesso svenduti sotto il perenne ricatto di un lavoro che dovrebbe essere un diritto costituzionale e non un mercato, avviene come se le persone, le quali nella paranoia dell’ “invasione” e nei deliri “securitari” invocano presunte identità (viste erroneamente come elementi storici statici e non dinamici) da usare come clave contro i diversi e i capri espiatori di turno (Rom, migranti, minoranze etniche o politiche), non fossero in grado di cogliere neppure più le dimensioni “affettive”, estetiche, familiari dei luoghi in cui vivono, luoghi nei quali risulta completamente bandita la vita sociale, come corpi denudati di fronte alle intemperie, così da sterilizzare a priori qualunque forma di protesta e proposta che siano alternative alle narrazioni dominanti e alla legge del valore come unico metro di decisione e pianificazione.

Ecco dunque perché quando i devastatori entrano in scena, determinati a portare avanti i loro progetti al fine di aver garantiti i profitti desiderati, la politica locale di piccolo cabotaggio e la popolazione scoscientizzata si battono per le “opere compensative”, siano esse il campetto di calcio, la ristrutturazione dell’oratorio o una casa in sostituzione alla propria da demolire, perdendo di vista il generale in un “particulare” che appare sempre di più come una delle più deteriori costanti dello spirito italico, vera e propria via nostrana alla globalizzazione.

In conclusione, oggi la cultura, la capacità di leggere nelle forme della materia le forme dello spirito e nelle forme dello spirito il concreto disvelarsi storico dei rapporti egemonici delle culture in quanto espressioni dei modi di produzione e dei rapporti di classe costituisce una forma di lotta politica in quanto lotta repubblicana e cittadina, unica vera alternativa praticabile di fronte ad una globalizzazione che nella devastazione dei territori e delle menti sta mostrando il suo volto totalizzante e potenzialmente totalitario.

ENNIO CIRNIGLIARO

redazionale

4 giugno 2016

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