Legge elettorale, PD, M5S: miopie e opportunismi

La fragilità del sistema politico italiano si sta dimostrando in tutta la sua gravità con la riapertura del dibattito intorno al nodo della legge elettorale. L’approvazione dell’Italikum e il...

La fragilità del sistema politico italiano si sta dimostrando in tutta la sua gravità con la riapertura del dibattito intorno al nodo della legge elettorale.

L’approvazione dell’Italikum e il collegamento tra la legge elettorale e le “deformazioni costituzionali” sembrava aver bloccato il confronto, trasferendolo di fatto sul terreno referendario.

Invece l’esito dei ballottaggi del 19 Giugno ha rimesso tutto in discussione, la minoranza PD e SI (che ha presentato una apposita mozione) puntano a modifiche: una iniziativa dovuta anche all’approssimarsi dell’esame della legge stessa da parte della Corte Costituzionale.

Il M5S, che pure nell’occasione referendaria sembra propendere per il NO, sta assumendo invece una posizione di difesa dell’articolato così come uscito dall’approvazione parlamentare.

Posizioni dettate, entrambe, sia ben chiaro dall’assenza di una cultura politica che veda, come sarebbe giusto, la legge elettorale quale elemento costituivo di un sistema proiettato nel lungo periodo e soprattutto collegato con le istanze di fondo nei meccanismi della democrazia rappresentativa, così come questa è intesa nel testo della Costituzione.

In realtà chi si occupa di questa vicenda appare mosso più da determinazioni di carattere immediato, contingente, di utilità sommaria e non certo di analisi della prospettiva politica di sistema.

Ciò avviene, ed è molto negativo, perché i gruppi dirigenti della maggioranza del PD e del M5S appaiono formati in modo pressoché omologo da veri e propri “assetati del potere”( tra “vaffa” e rottamatori le assonanze sono evidenti, in un quadro di “pensiero unico” al servizio dei reggitori del ciclo capitalistico) che non intendono recitare un ruolo “pivotale” rispetto al sistema, ma pensano di utilizzare l’esito del voto per poter solidificare l’ormai già avvenuto passaggio a un regime autoritario in dispregio, prima di tutto, della dimenticata Costituzione Repubblicana.

La chiave di volta per ottenere questo risultato è la legge elettorale considerata soprattutto sotto l’aspetto dell’assegnazione del premio di maggioranza e di un meccanismo che riduca il più possibile il sistema a un bipartitismo che qualcuno ha già definito come “monopartitismo imperfetto”.

Sorge così l’ipotesi di assegnazione di un premio di maggioranza del 15% (soglia al 40% e 55% dei seggi assegnati), oppure, in assenza del 40%, attraverso un ballottaggio tra i primi due partiti.

Perché, s’insiste: di partiti (o liste) deve trattarsi e non di coalizioni.

Vale la pena di ricordare che l’entità del premio è pressoché identica a quella che prevedeva la famosa “legge truffa” del 1953, con due differenze importanti: i partiti “apparentati” (quindi una coalizione) avrebbero dovuto raggiungere il 50% più un voto per avere diritto al 65% dei seggi. Il primo punto di differenza riguarda quindi, in allora, la necessità di una coalizione; il secondo è che, allora, si trattava di un vero “premio di maggioranza” (occorreva cioè superare il 50% dei voti validi) e non di un “premio di minoranza” com’è stato nel caso della legge 270/2005 smantellata dalla Consulta e come continuerebbe a essere con l’Italikum.

Svolti questi necessari punti di analisi è il caso però di riprendere l’interrogativo di fondo: i soggetti politici attualmente presenti nel sistema politico italiano dispongono di un dato di rappresentatività politico – elettorale tale da giustificare l’assegnazione di un premio di maggioranza di tale portata?

I dati ci dicono che questa rappresentatività non c’è e che un sistema molto fragile come quello attuale potrebbe implodere per una seconda volta dopo quella del ’94 e aprire la strada a soluzioni, anche sotto l’aspetto formale, molto drastiche con il superamento della forma parlamentare della Repubblica.

Ricostruendo i dati elettorali dal dopoguerra in avanti rileviamo che fino al 1983 la percentuale dei due maggiori partiti (o liste) ha sempre superato il 50% degli aventi diritto al voto.

Nel 1948 la DC e il Fronte Popolare assommarono addirittura il 71,09% (ma il Fronte Popolare comprendeva assieme PCI e PSI), nel 1953 DC e PCI arrivarono al 56,10%, nel 1968 la somma dei due maggiori partiti rilevò, rispetto al totale degli iscritti nelle liste, una percentuale del 59,01% salita al 66,35% nel 1976.

Il calo iniziò fin dal 1983: in quell’occasione DC e PCI toccarono assieme il 52,07%

Una crisi del sistema, alimentata dall’avvio di Tangentopoli fece rapidamente discendere questa percentuale fino al 37,85% del 1992 (somma tra DC e PDS).

Ancora in calo la rappresentatività elettorale dei primi due partiti anche nella prima occasione di voto con il sistema misto proporzionale (25%) e maggioritario (75%): 1994 33,27%.

L’adozione di un profilo bipolare più marcato consentì, all’inizio del nuovo secolo di risalire la china: alle elezioni del 2001 la somma percentuale sul totale degli elettori tra Casa della Libertà e Ulivo toccò il 66,72%, una percentuale che fornì l’impressione di una possibilità di consolidamento del sistema.

Un’operazione di consolidamento messa a rischio dalla modifica della legge elettorale nel 2005 e dalla formazione del PD veltroniano “a vocazione maggioritaria”.

Nell’occasione delle elezioni del 2008 la somma tra PDL e PD toccò infatti il 55,42%: 11 punti in meno rispetto al 2001, segnale tangibile della frantumazione in atto del concetto bipolare.

Alle elezioni del 2013 si presentò, infatti, attraverso il M5S il fenomeno di una “tripolarizzazione” del sistema, con il risultato dell’abbassamento del grado di rappresentatività dei due maggiori partiti, in questo caso proprio il M5S e il PD, al 36,96%.

Un dato ancora abbassatosi in occasione delle elezioni europee 2014, quelle del tanto vantato 41% del PD. Cosa vale, per davvero, quella percentuale sommata a quella del M5S secondo arrivato rispetto alla totalità dell’elettorato ?: il 34,44% (il 41% del PD si contrae in questo caso al 22,68%).

Nell’occasione delle ultime elezioni amministrative, giugno 2016, i due maggiori schieramenti hanno assommato (per quel che riguarda i comuni capoluogo) il 31,17% dell’intero elettorato (percentuale complessiva comprendente anche i voti assegnati alle liste civiche di sostegno ai sindaci candidati).

In sostanza si può affermare che i sindaci eletti, in media, rappresentano non più del 20% dell’intero elettorato di loro specifico riferimento: insomma non siamo lontani dal 25% dei voti validi previsti come soglia dalla legge Acerbo per assegnare il premio di maggioranza ( in allora, 1924,si attribuivano però il 65% dei seggi).

Un fenomeno evidente, quello della fragilità della rappresentanza e di conseguenza dell’intero sistema ormai a dimensione europea.

Insomma, per concludere l’interrogativo pare legittimo: come può essere possibile affidare un premio di maggioranza così grande a partiti così poco rappresentativi della realtà sociale?

Forse sarebbe il caso di introdurre una clausola di salvaguardia: nel caso in cui i primi due partiti non superano la soglia del 50% rispetto al totale degli aventi diritto non si assegna premio di maggioranza, né si svolge l’eventuale ballottaggio ma i seggi dell’unica residua Camera elettiva dovrebbero essere distribuiti con il sistema proporzionale.

L’ansia della governabilità e dell’esercizio indiscriminato del potere ha fatto smarrire il dato che maggiormente stava a cuore ai Padri Costituenti: quello della rappresentanza politica e sociale e di conseguenza del ruolo dei Partiti come soggetti aggregatori, capaci di sviluppare un’azione di pedagogia politica e sociale che rimane ancora del tutto decisiva.

La sola strada percorribile per contribuire(parzialmente, perché il discorso nel suo insieme appare molto complesso e investi temi come quelli del rapporto con l’etica politica, il progetto, il radicamento sociale, alla ricostituzione di soggetti politici adeguati (il vero tema in ballo è quella del sistema elettorale proporzionale, proprio come è stato oggettivamente proposto dalla Corte Costituzionale con la sentenza 1/2013 con la quale fu dichiarata incostituzionale la gran parte della legge del 2005.

FRANCO ASTENGO

redazionale

3 luglio 2016

foto tratta da Pixabay

categorie
Politica e società

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