Madrina politica di Tupac, l’attivista Usa è diventata la grande icona del rap più militante. Tra le più ricercate dall’Fbi, aveva trovato asilo a Cuba dal 1984. «L’hip hop è un’arma»
Assata Shakur, militante del Black Panther Party e combattente del Black Liberation Army – è stata la fuggitiva più ricercata d’America fino al giorno della sua morte, lo scorso 25 settembre. Per l’Fbi era la «most wanted terrorist»; per la stampa mainstream l’«anima del Bla», il Black Liberation Army, appunto, l’Esercito di liberazione nero. Ma per l’America black era una rivoluzionaria.
Questa incolmabile distanza di visione esplode per la prima volta su vinile quando Chuck D dei Public Enemy sceglie l’atto più diretto di sfida, rappando il suo sostegno su un beat: «recorded and ordered – supporter of Chesimard».
Nel luglio 1987, infatti, il frontman dei Public Enemy la nomina esplicitamente in Rebel without a Pause, un brano che è un vero e proprio assalto sonoro. Un turbine a 110 bpm di pura aggressività: fiati stridenti, la batteria di Funky Drummer (James Brown), campionamenti tagliati sporchi e compressi, e gli scratch taglienti di Terminator X.
Tre anni prima
Assata Shakur era riemersa dalla clandestinità come rifugiata politica a Cuba solo tre anni prima; dopo quelle liriche il suo nome, criminalizzato dalle istituzioni, diventa un simbolo che attraversava i confini esplodendo dalle casse dei ghettoblaster e dei sound system, trasformandola per sempre in un’icona di resistenza e sfida aperta al sistema.
Cresciuta tra la North Carolina e il Queens, Assata Shakur, pseudonimo di JoAnne Chesimard (dal cognome del’ex marito, cognome che rifiutava considerandolo il suo «nome da schiava»), era nata JoAnne Deborah Byron nel 1947; prima di diventare una protagonista del movimento di liberazione nero, è una studentessa curiosa, che si divide tra lavori precari per pagarsi il college e lo studio appassionato della storia afroamericana. La fine degli anni Sessanta la coglie a Berkeley, nel pieno della controcultura e dei movimenti contro la guerra in Vietnam.
Tornata a New York, gravita attorno alle sezioni di Harlem del Black Panther Party, in un momento in cui il partito subisce la repressione del programma Cointelpro dell’Fbi: pedinamenti, infiltrazioni, arresti di massa. Nel 1970, di fronte alla stretta sempre più violenta contro le Pantere, sceglie la clandestinità e aderisce alla prima unità operativa del nascente Black Liberation Army, un’organizzazione militante clandestina nera con l’obiettivo di combattere l’oppressione e l’imperialismo tramite la lotta armata.
Il destino la trasforma in mito rivoluzionario nella notte del 2 maggio 1973. Da tre anni Assata vive underground, spostandosi tra case sicure, campi di addestramento e riunioni segrete, parte di quella rete clandestina che costituisce l’ossatura del Black Liberation Army. Quella notte, sulla New Jersey Turnpike, una pattuglia ferma l’auto su cui viaggia: pochi secondi e scoppia una sparatoria. Un agente, Werner Foerster, rimane a terra. Assata, ferita gravemente, viene catturata.
Mentre la versione ufficiale la condanna per aver aperto il fuoco, le analisi forensi sull’ubicazione delle ferite di Assata suggeriscono che sia stata colpita mentre ha le mani alzate in segno di resa, sollevando seri dubbi sulla dinamica stabilita dalla polizia. Nonostante queste prove a suo favore, una giuria di soli bianchi la condanna all’ergastolo, a riprova del fatto che l’obiettivo primario del sistema legale sia eliminare un simbolo della resistenza nera, più che stabilire la realtà degli eventi.
La stampa bianca la trasforma all’istante in un personaggio da copertina: «la Giovanna d’Arco nera», la «pantera assassina», immagini che mescolano razzismo e sensazionalismo. A questo contribuiranno anche libri come Target Blue di Robert Daley.
Tra il 1973 e il 1977 affronta sette processi per rapine, sequestri, omicidi: assolta in tutti i casi per assenza di prove, venne incriminata però per la morte dell’agente Foerster; la sentenza, l’ergastolo. Il suo messaggio audio To My People, inciso dall’ospedale dopo l’arresto e trasmesso clandestinamente, rimbalza come un’onda tra campus, collettivi e radio pirata, risuonando con l’eco inconfondibile di Malcolm X. Trasferita da un carcere federale all’altro, spesso in isolamento, sorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro, Assata diventa un faro per la galassia radicale.
Il 2 novembre 1979 il mito rivoluzionario si completa con un atto di guerriglia: un’unità del BLA (tra loro anche Silvia Baraldini), entra nel Clinton Correctional Facility for Women, prende in ostaggio due guardie e la libera, facendola scappare a bordo di un furgone. Assata vive underground per altri cinque anni, per poi apparire a Cuba nel 1984, dove Fidel Castro le concede asilo politico.
Dall’esilio, Assata Shakur diventa autrice e memoria vivente della lotta nera. È la madrina politica (godmother) di Tupac Shakur e fa parte della grande «famiglia» Shakur – un legame non di sangue, ma basato sull’impegno politico radicale – che unisce figure come Zayd e Lumumba, Afeni (madre di Tupac, ex Pantera Nera) e Mutulu Shakur. Proprio Mutulu, che diventerà il patrigno di Tupac, è uno dei militanti che partecipa all’evasione del 1979 che le restituisce la libertà.
Filo diretto
Quest’intreccio rafforza il filo diretto che lega Assata alla cultura hip hop: citata nei versi di 2Pac, Public Enemy, Common e decine di altri, la sua figura è il simbolo definitivo di lotta.
È qui che prende avvio la sua seconda vita: quella che dalle cronache giudiziarie passa alle liriche. Assata smette di essere marchiata come «terrorista» e diventa matrice storica della coscienza nera. Nel 1991 è Tupac a consacrarne ulteriormente il mito: nell’outro di Words of Wisdom, sull’album 2Pacalypse Now, la definisce senza mezzi termini: «Assata Shakur, America’s nightmare». L’anno successivo, Paris le dedica l’intero brano Assata’s Song, un intenso resoconto poetico della sua vita che ripercorre l’episodio della sparatoria, le ingiustizie subite in prigione e la sua incrollabile ricerca della libertà. Nello stesso anno, si concretizzano anche iniziative di sostegno sul campo: il Malcolm X Grassroots Movement, sfruttando la sua presenza a Cuba, idea il Black August Hip-Hop Project. Questo progetto porterà artisti come Dead Prez, Talib Kweli e Mos Def a L’Avana per esibirsi al Festival del rap cubano e partecipare a incontri politici e culturali, fungendo da ponte vivente tra la guerriglia degli anni ’70 e la nuova generazione di attivisti.
Dai vinili ai campus
Il suo nome attraversa generazioni, rimbalzando dai vinili ai microfoni, dalle lotte di strada ai campus universitari. Dead Prez, Talib Kweli, Saul Williams e Murs & 9th Wonder lo tengono vivo nelle loro opere; Digable Planets e X-Clan lo intrecciano nella loro estetica afrocentrica. Che sia sussurrato in un freestyle di Jay Electronica o evocato nei cori dei Rebel Diaz per i diritti degli immigrati, pronunciare il suo nome è diventato un atto di guerra: tracciare una linea, prendere posizione, sfidare il potere costituito.
In un’intervista del 2000, Assata Shakur parla delle potenzialità dell’hip hop: «L’hip hop può essere un’arma potentissima per ampliare la coscienza politica e sociale dei giovani. Ma, come ogni arma, se non sai come usarla, dove puntarla, o a cosa serve davvero, puoi finire per spararti nei piedi o ferire sorelle e fratelli». Ed è proprio qui che risiede l’eredità finale di Assata per l’hip hop: nel richiamo alla responsabilità per chi impugna il microfono, affinché la battaglia per la libertà che ha segnato la sua vita non venga dispersa, ma affinata e trasformata in una vera arma nelle mani della nuova generazione.
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foto: screenshot ed elaborazione propria







