L’amore dopo i vent’anni, edito da Atlantide con la traduzione di Luca Vaccari (pp. 208, euro 19), è il romanzo d’esordio della scrittrice danese Linea Maja Ernst, classe 1988, in corso di traduzione in molti paesi. È una storia idilliaca: sette amici che si sono conosciuti ai tempi dell’università si incontrano per trascorrere insieme una settimana nella casa sul lago di una di loro. Hanno trent’anni suonati ormai, alcuni sono sposati come Gry con Adam e altri stanno per farlo: Ebsen e Karen, mentre Kvæde e Sylvia credono ancora nell’amore libero seppure Charlie, la compagna di Sylvia, vorrebbe al contrario contrarre matrimonio.
Hanno frequentato tutti «facoltà umanistiche» e lavorano come scrittori, giornaliste, responsabili di progetti culturali. Da notare che il tema della precarietà economica non esiste: per i trentenni protagonisti di questo romanzo comprare una casa, fare dei figli o cambiare città sono delle scelte dettate dal desiderio o dall’adeguarsi alle convenzioni sociali. Si tratta di un aspetto significativo che dà alla storia una allure giocosa.
Il romanzo è costruito sull’alternanza dei punti di vista dei vari protagonisti: conosciamo via via i pensieri di Gry, su come sia felice di essere una ricercatrice di botanica e una madre, ma più in generale una persona che gode occupandosi degli altri. Poi di Karen che riflettendo proprio su Gry si dice che: «la irrita che diverse donne, secondo lei degne di rispetto, s’identifichino dalla sera alla mattina come streghe, e con la massima serietà si interessino di astrologia, un mix confuso di autoaiuto spirituale e femminismo a buon mercato».
Kvæde, invece, che ama definirsi «ermafrodito» anche se sa che si tratta di un’espressione che non va più affatto di moda, di fronte ai sentimenti contrastanti che prova per Adam, si dice che ancora non riusciamo a liberarci dall’attrazione per gli uomini alfa e dalla tentazione che abbiamo di prostrarci davanti a loro: «osservo la mascolinità, ho una duplice reazione: oh sei il mio sogno! E: oh, sei la mia vecchia nemica».
L’unica però delle protagoniste di questo romanzo che a un certo punto decide di svelare agli altri amici e amiche che cosa desidera è Sylvia: lei vorrebbe sposarsi con tutti loro, poter vivere magari nello stesso condominio a Copenaghen e trascorrere insieme le serate sui divani, stravaccati, a parlare o a baciarsi, vorrebbe poter fare l’amore con Esben senza perdere Charlie e senza soppiantare Karen. Più in generale, Sylvia non riesce a capacitarsi di come il suo gruppo formato da persone anticonvenzionali si sia trasformato in un insieme di coppie monogame che aspirano a fare tanti bambini: «conducono una vita sostanzialmente conformista (…) I borghesucci creativi. La storia ha mai prodotto risultati più perversi?».
La condivisione del suo punto di vista, però, non sortisce gli effetti sperati. Nonostante la grande emancipazione di cui questo libro è imbevuto, è come se ci raccontasse anche che le vie del desiderio, quello che brucia e ci spinge a far l’amore nel bosco, non passano per la presa di coscienza, le posizioni politiche o tanto meno attraverso le parole. Ernst in questo testo sagace e godibile dimostra di padroneggiare le filosofie femministe, da de Beauvoir a Sarah Ahmed: «siamo stati messi in guardia: la ricerca spasmodica della felicità secondo le norme sociali colloca la famiglia tradizionale al centro della scena e tutti gli altri stili di vita ai margini (…) È stata solo lei a prendere il messaggio alla lettera?».
LAURA MARZI
foto: screenshot, particolare della copertina del libro