«Le ipocrisie delle separazioni in una società già cambiata»

50 anni fa la legge. Quanto fu difficile far capire al Pci l’importanza del divorzio per la società italiana

Quando 50 anni fa il divorzio fu introdotto anche in Italia (altrove, in Europa, c’era già quasi dappertutto) c’erano già molti italiani che lo praticavano, come accade alle leggi che arrivano in ritardo. Per certi versi in Italia si era persino un po’ più avanti, giacché, proprio per l’impossibilità di rendere legale un nuovo e diverso rapporto coniugale, questo veniva non solo praticato ma in qualche modo legittimato di fatto persino dalle istituzioni: le nuove coppie «illegali» venivano ufficialmente invitate a cene e celebrazioni. Qualcosa che – ricordo – destava sempre grande scalpore, non in Sicilia o Calabria, ma nelle avanzatissime democrazie nordiche dove una cosa così non sarebbe mai stata permessa.

Questo modo di “arrangiarsi” che si dice sia una caratteristica italiana funzionava anche molti decenni prima. Se mi si permette una divagazione personale, vi racconterò come l’ho vissuta sulla mia pelle, quando mia madre e mio padre, mi pare fosse il 1933, si separarono (per fortuna restarono amici tutta la vita) e la mamma qualche anno dopo volle risposarsi ed era proibito. Venne in aiuto l’apparato clericofascista: il Tribunale ecclesiastico della Sacra Rota poteva non dichiarare fallito un matrimonio, ma giudicarlo «mai avvenuto». Una soluzione ingegnosa che per anni mi lasciò assai perplessa perché mi domandavo come allora avevo fatto a nascere e a chiamarmi Castellina.

In poco più di 5 anni, il costosissimo avvocato Pacelli, fratello di papa Pio XI, vinse la sua battaglia (il che non consentì tuttavia il nuovo matrimonio, ma questo non c’entra col divorzio e lo scrivo solo perché i ragazzotti sappiano come si viveva allora). Nel frattempo erano arrivate le leggi razziali e la mamma, 50 per cento ebrea, non aveva diritto di sposare il suo promesso sposo ariano. E qui intervenne un altro aiutino: un gruppetto di avvocati fascisti era autorizzato a innescare un’altra lunghissima pratica che portava all’«arianizzazione».

Giulietta e Romeo, così furono chiamati i fidanzati, poterono andare all’altare nel 1942. Quindici giorni dopo il novello sposo venne richiamato alle armi, non al fronte, perché nel frattempo era diventato anziano, ma in un ufficio a Verona. Di dover restare separati non ne potevano più e così ci trasferimmo tutti a Verona, sembrava che la guerra sarebbe durata un altro secolo. Arrivata nella terza media della mia nuova scuola dove tutte si conoscevano da almeno due anni, venni interrogata da una delicata professoressa, che mi chiese come mai ero a Verona e io dovetti rispondere che era per via del marito della mamma. «Poverina», commentò lei, «il tuo papà è morto». Pallida per l’imbarazzo, in piedi nel banco mentre le mie nuove compagne mi guardavano scandalizzate, dovetti raccontare tutta la storia della Sacra Rota, del fratello del papa, e così via, vergognosa come se avessi dovuto confessare che mio padre era un assassino. Fu in quella occasione, nell’autunno-inverno ’42-’43, che prese le mosse il processo che mi ha portato a diventare comunista.

Perché è allora che decisi che ero diversa, non una ladra. Quando dopo la guerra mi è stato detto che quelli del Pci erano «diversi» ho sentito subito che ero comunista anche io. Allora a nessuno era venuto in mente che fosse un derogativo e ne sono sempre rimasta fiera. (Per finire la mia biografia posso aggiungere che quando arrivò la legge sul divorzio, anche io separata, decisi che ne facevo a meno. E però io e il mio allora marito, per colpa proprio de il manifesto, fummo costretti ad accedervi anche noi dopo la prima tornata elettorale del ‘72: senza divorzio nei tabelloni con i nomi dei candidati io, per legge, mi chiamavo oltreché Castellina anche Reichlin, un nome imbarazzante che dovetti affrettarmi ad eliminare, visti i pessimi rapporti fra noi e il Pci in quegli anni!)

Ma veniamo al 1970. Dopo aver goduto di due soli anni libera dal faccia a faccia con Marco Pannella (nel 1960 si era trasferito a Parigi) – iniziato nell’anno accademico ’47-’48 quando, prime elezioni per il parlamentino universitario detto Interfacoltà, cominciai a scontrami con lui candidato dei «goliardi», io del Cudi (Comitato universitari democratici italiani, in realtà comunisti e socialisti), e terminato, attraverso vicende complesse nello stesso gruppo politico puntigliosamente chiamato «coordinamento tecnico» per far capire che politicamente avevamo solo poche cose che ci univano – ci ritrovammo come sempre a litigare per circa 15 anni su divorzio e aborto. Litigare e allearci, una vera schizofrenia. E all’inizio non c’era nemmeno Emma Bonino, troppo giovane, con la quale mi è sempre stato più facile andare d’accordo.

Sul divorzio, cui io ero ovviamente a favore, litigammo col fronte laico non comunista, perché noi Sezione femminile del Pci dove nel frattempo ero approdata, dovemmo combattere su due fronti: la direzione del partito che inizialmente non voleva andare a uno scontro su questo tema col mondo cattolico, perché il proprio elettorato a grande maggioranza ancora rurale era credente; i laici, perché noi volevamo che il divorzio fosse incluso in una legge di generale riforma del diritto di famiglia, che fu poi approvata, invece, solo 5 anni più tardi. Allora alle donne non veniva infatti concesso alcun diritto, nessun riconoscimento di un apporto economico al bilancio familiare per il lavoro di cura, tanto che ove il marito avesse deciso di divorziare avrebbe potuto privare la moglie persino dell’alloggio.

Lavorai per conto della sezione femminile a lungo assieme alla giovane giurista Diana Vincenzi, allora fidanzata con Giuliano Amato, che veniva a prenderla a sera dopo i nostri impegnati pomeriggi dedicati alla preparazione della proposta di legge sulla famiglia entro cui era inserito il divorzio. Con i Radicali d’accordo invece a evitare una legge sul divorzio simile a quelle degli altri paesi europei in cui spesso è inserita una casistica che lo definisce per «colpa» o «meno», così attribuendo allo Stato il potere di legiferare su questioni – valori etici – su cui una istituzione laica non deve poter entrare. E abbiamo vinto.

Con la direzione del Pci, invece un bel po’ di problemi per le sue reticenze iniziali (poi i suoi voti a favore furono essenziali all’approvazione della legge). Ricordo che solo Macaluso ci appoggiò quando fummo chiamate in direzione per un confronto proprio in nome delle donne siciliane, tante «vedove bianche», come venivano chiamate, perché abbandonate da un marito emigrato e poi sparito nelle Americhe con qualche nuova famiglia mentre loro rimanevano sole senza potersi risposare.

Quella reticenza fu un tratto che caratterizzò il partito per tutti gli anni ’60: il ritardo con cui capì che l’Italia era profondamente cambiata nonostante la persistente arretratezza, che era diventata più urbana che rurale, con milioni di giovani entrati nelle fabbriche. Era arrivato il neo capitalismo: e poi ci fu il ’68. Il confronto, anche aspro, che oppose l’amendolismo all’ingraismo proprio a partire da un’analisi del mutamento intervenuto portò poi come è noto alla nascita de il manifesto. Che dunque, in qualche modo, è segnata anche dalla vicenda del divorzio. (Se riuscite a trovarne su ebay ancora qualche copia comprate il volume Famiglia e società nell’analisi marxista che riporta gli atti di un famoso e bellissimo seminario che come sezione femminile promuovemmo nel 1963 assieme all’Istituto Gramsci; o anche un successivo volume che ne riprese molte parti pubblicate da il manifesto, Quaderno 1. Famiglia e società capitalistica, Alfani edizioni, in occasione della battaglia del referendum, ne vale la pena) .

È allora soprattutto che misurammo quanto era cambiata l’Italia, perché a votare era ciascun singolo cittadino e non i deputati: per la prima volta nella storia nelle piazze di ogni sperduto paesetto dove tenemmo i comizi, l’amore divenne politica. La manchette del Quaderno diceva: «Il referendum sul divorzio ha riproposto al movimento operaio una tematica, quella della famiglia, da decenni negletta, restituendola alla battaglia politica e al programma comunista».

LUCIANA CASTELLINA

da il manifesto.it

foto: screenshot

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