Le intermittenze della morte

La sospensione temporale dell’inesistenza come linea non di confine tra il passato, il presente e il futuro, ma come fine, termine del tempo stesso, come dimensione nuova dell’esistenza: dall’incomprensibilità...

La sospensione temporale dell’inesistenza come linea non di confine tra il passato, il presente e il futuro, ma come fine, termine del tempo stesso, come dimensione nuova dell’esistenza: dall’incomprensibilità della morte, limite e crinale del percettibile e del sensibile di fronte alla comprensibilità – finalmente – del post, del dopo, dell’irraggiungibile.

Se non si morisse più e si potesse continuare a vivere, probabilmente, da esseri abitudinari quali siamo, ci avvezzeremmo al nuovo stile esistenziale. Va da sé che la mente nostra dovrebbe essere notevolmente mutata: le categorie entro cui si sviluppa oggi concepiscono il finito e hanno una vaghissima idea di “infinito“. Qualcosa che non termina mai, appunto, come una vita eterna.

Superare il concetto stesso di tempo, un senza-tempo in cui si sta. Senza nemmeno fare appello alla “continuità“: cosa mai deve continuare se tutto, noi compresi, siamo e non possiamo non essere sempre e per sempre. Purtroppo, nel tentativo distopico di proiettarci nella dimensione saramaghiana dell’assenza di morte, nel pensarci oltre le coordinate spazio-temporali, non possiamo che utilizzare questa mente umana che abbiamo, finita e circoscritta al nostro mondo.

Dunque, ricadiamo nell’errore (per così dire…, visto che qui la relatività la fa da padrona) di riferirci ai punti che stanno sulla linea dell’esistenza nostra, che ha un principio e che ha un termine. Se la morte d’un tratto cessasse di essere la grande regolatrice del ricambio animale e naturale della più complessa evoluzione materiale data dalla Terra stessa, si avrebbe una cesura così netta con ciò che siamo sempre stati abituati ad essere da lasciarci quanto meno altamente scioccati.

Un esperimento della Morte, come signora e padrona del flusso imperterrito della continuazione di una specie, la nostra, cosciente, autocosciente e, in una certa simile misura, anche profondamente incosciente nel senso più negativo e deleterio che il termine possa descrivere riguardo i fatti che ci accadono e che facciamo accadere. José Saramago, dopo aver sovvertito tutti gli schemi della punteggiatura, in questa e in altre sue opere, ne “Le intermittenze della morte” (Feltrinelli, 2013) accomuna questa sua stravaganza geniale ad una sorta di platonica sinossi che riporta ogni singola esistenza sotto l’egida della volontà non tanto della vita quanto della morte.

Spaesante, capace di metterti a disagio nell’attimo in cui inizi le prime righe, questo romanzo, che è un capolavoro di eccentricità del pensiero e di giocherellamento con le più intrinseche paure dell’ancestralismo (dis)umano, coinvolge oltre ogni pensabile misura e costringe quasi alla lettura tutta d’un fiato. Si salvano solo le maiuscole, mentre il discorso diretto è abolito. L’autore si affida alla capacità di chi si immedesima nella storia ed è, per amore della stessa, indotto a pensare non solo differentemente rispetto alla consuetudine, ma anche a leggere in modo completamente diverso.

Superate le prime difficoltà, chiunque entri nelle pagine delle intermittenze mortifere resterà affascinato dalla molteplicità dei generi che vi si riscontrano: dal fantasy al romanzo un po’ gotico, dalla riflessione esistenziale al piccolo giallo che vi si crea tutto intorno. Senza la morte, che cessa di operare il 31 dicembre di un anno non precisato in un paese altrettanto tale e quindi privo di un nome, la rivoluzione delle vite è, proprio nell’eternità che si regala loro, veramente a portata di mano. E non è detto che sia un bene come ci si potrebbe di primo acchito immaginare.

Oh che bello, nessuno muore più e siamo tutti felici. Iniziano i problemi: senza morte non tiene nemmeno più nessun precetto religioso che si nutre dell’inesistenza per affermare che, dopo la nostra fine oggettivamente fisica e corporale, l’anima andrà trasmigrando in un luogo dove potrà un giorno rivivere, per l’appunto, eternamente. Se non al centro di tutto, quanto meno in uno dei centri che Saramago focalizza nelle sue pagine letterariamente eterodosse, c’è il tormento, il dilemma, il rimescolamento delle carte di una vita che pare avere una ragione, paradossalmente, nell’infinitesimamente piccolo.

Più ci riconduciamo alla nostra terrestreità, più siamo afferenti ad una specie di “senso delle cose“, sotto la cappa del cielo sopra di noi, quello diurno che limita la sensazione vertiginosa del notturno tappeto di stelle che brillano nell’oscura immensità dell’Universo. La morte fa parte di questa sensienza. Se non esistesse, se si vivesse e si vivesse e si vivesse così, senza una cronocrazia che impone la distinzione tra ciò che non eravamo, ciò che siamo e ciò che non saremo, il sovvertimento sarebbe globale.

Ma pur sempre entro i limiti del nostro microcosmo terrestre. Il divertimento fa parte dell’esistenza e Saramago un po’ (tanto) gioca, non tanto con i nostri sentimenti e le nostre gioie ed angosce, quanto con gli atteggiamenti fideistici cui ci prostriamo per avere un lenitivo dell’inquietudine che ci provoca il salto nel vuoto di un buio mortale da cui nessuno è mai venuto indietro. A parte Gesù Cristo, si dice. Senza morte, nemmeno per la resurrezione (oltretutto della carne!) c’è posto nella nuova vita.

Subentrano poi problemi prettamente organizzativi… Se nessuno più si dissolve o nel nulla eterno o va all’altro mondo, come si può continuare a vivere tutti quanti su questo pianeta? Che è un po’ quello che ci si chiede, molto terra terra e banalmente, quando si fa facile obiezione a chi, proprio religiosamente, afferma che “alla fine dei tempi” Dio farà risorgere tutte le anime e, secondo alcuni culti anche cristiani, si ritornerà tutti, ma davvero tutti tutti, a vivere qui dove siamo ora.

Sia permesso un pizzico di ironia: difficile fare il conto di quanta animalità umana e non umana sia passata sulla Terra dalla comparsa degli esseri senzienti fino ad oggi. Ma una cosa è certa, ci sarebbe davvero poco posto per muoversi e per vivere dignitosamente… Paradossi per paradossi, amenità per amenità, senza offesa per chi crede davvero ed è persuaso della bontà di queste invenzioni del tutto umane sul conto tanto di un Dio onnipotente ed eterno: molto più generosamente semplice giocare con l’idea della sospensione delle morti nel tempo presente, nella fine della cronistoria di noi stessi.

Se si prova a pensarsi eterni, senza fine, senza confine, senza niente altro se non l’esistere (e non è poco!), non viene un po’ una punta d’ansia dettata dal fatto che non c’è soluzione di continuità e che non è nemmeno quella vita “tutta una tirata” (come cantano i Nomadi) che poi, comunque, ha un punto di arrivo… Qui si tratta di non avere più intorno, sopra, sotto, di lato e ovunque la minaccia onnipresente della morte, della non esistenza che un giorno prenderà il posto di noi. Spaventa un po’, con le categorie mentali nostre, di umani mortali, già appunto solo il pensiero di vivere in eterno.

Ma siamo certi che il concetto stesso di eternità sia poi congeniale a qualcosa che non ha fine? L’eternità è pur sempre un rapporto con la non-eternità e, come è evidente, siamo sempre nel cortocircuito del presente-possibile in relazione al non-tempo, a qualcosa che non ha un riscontro nemmeno super-razionale o distopicamente metauniversalistico. Saramago affascina tanto e induce a riflessioni che vanno oltre il suo libro: uno degli ultimi, un vero spunto irriverente di intromissione nei meandri dell’inconfessabile inquietudine permanente in cui giaciamo dacché abbiamo il cosiddetto “lume della ragione“.

Soltanto una delle lettere, inviate da chi si occupa della Morte nel paese senza nome. ritorna al mittente dopo che l'”esperimento” della sospensione di tutti i decessi è terminato (l’intermittenza… of course): riguarda un violoncellista che così è irraggiungibile a mezzo posta.  Così la Morte decide di fargli visita… Forse abbiamo tralasciato qualcosa, forse non abbiamo riflettuto a dovere sulle ciclicità, sull’eterno-ritorno della storia che è un insieme di tante storie, fatte probabilmente tanto per fare… O forse no…

Ma quanto sarebbe più confortate sapere che ogni tanto ci si riposa un po’ dalle fatiche dell’essere e dell’esserci, del vivere e del sopravvivere: si muore per alcuni anni e poi si rinasce. In altre forme, dimensioni, in altri corpi, con altre sembianze? Chi lo sa… La metempsicosi è un altro argomento su cui filosofeggiare con grande piacere ma rimaniamo comunque nella mortalità. La “singolare penombra” che Fink legge nel pensiero nietzschiano esprime il dubbio, o forse lo caldeggia…, che più di trovarsi davanti ad un elaborato concettuale si sia innanzi ad una profezia.

Quanto è seducente il mistero, quanto ci piace coltivarlo: Saramago vi fa i conti; e li fa anche con quella illogicità da déjà-vu che è l’eterno ritorno dell’uguale (o del simile): «… la vita è un’orchestra che suona sempre, intonata, stonata, un piroscafo titanic che affonda sempre e sempre torna in superficie…». Di cosa ci dovremmo sorprendere? Del fatto che tutto muore e nasce, nasce e muore di continuo? Parliamo piuttosto della trasformazione di noi stessi: nel corso della nostra esistenza.

Siamo davvero ciò che pensiamo di essere sempre: non siamo uguali a noi medesimi nemmeno per pochi secondi al giorno rispetto ad altrettanti pochi secondi. Mutiamo di continuo e la morte è una di queste mutazioni. Se la fine della nostra autocoscienza combaci col nulla, in termini metafisici, riferendoci quindi a qualcosa di meno materiale o di assolutamente immateriale, è, con quello dell’Universo, dell’Essere che è e non può non essere (forse…), il Grande Mistero.

La Morte quindi fa visita al violoncellista… ne ascolta la musica e ne resta inebriata. Giace con lui a letto: ha le fattezze di un bella donna sulla trentina… E poi… Non sveliamo il finale. Lasciamo che il mistero, almeno per qualche momento, riguardi un racconto che è una occasione per riflettere senza troppo prendersi sul serio almeno su temi che ci sovrastano e di cui sappiamo, a priori, di non avere la soluzione, la risposta. Saramago sfida la sua stessa bravura poliedrica nello scrivere: giornalista, poeta, letterato… C’è tutto in questo libro che è una critica all’attaccamento pervicace alla vita capace di condurre ad un cieco egoismo.

Si rimane sospesi tra la sicumera della bontà dell’eternità dell’esistere nell’esistente e la completa, assoluta malvagità del non essere più… Forse nessuna delle due interpretazioni della finitudine è giusta… Forse non c’è giustezza o sbaglio. Preservare un po’ di dignità per il dubbio, assaporando la vita finché c’è e rispettando persino la morte come dato di fatto, è il modo migliore per dare ad ogni sensazione, ad ogni emozione la sua giusta collocazione tanto nel tempo quanto in un saramaghiano ipotetico eterno. Se solo andata o andata e ritorno proprio non si può sapere…

LE INTERMITTENZE DELLA MORTE
JOSÉ SARAMAGO
FELTRINELLI, 2013
€ 12,00

MARCO SFERINI

28 maggio 2025

foto: particolare della copertina del libro


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