Le (forse troppo) alte aspettative progressiste per l’era di Leone XIV

Difficile poter dire se la prima impressione è una regola data che, quindi, vale sempre e in qualunque circostanza, nei confronti di chiunque. Si dice che conti in quanto...

Difficile poter dire se la prima impressione è una regola data che, quindi, vale sempre e in qualunque circostanza, nei confronti di chiunque. Si dice che conti in quanto tale: come pura istintualità; quasi fosse un sesto senso che ci ispira molto più laicamente di quanto lo Spirito Santo abbia ispirato i cardinali elettori riuniti nella Cappella Sistina per eleggere il nuovo papa. Tuttavia, la prima impressione che Robert Francis Prevost, qui sibi nomen imposuit Leonem XIV, consegna al mondo e alla soggettivizzazione di tutte e tutti noi, è quella di un pontefice che sta a metà tra il rigore ortodosso ratzingeriano e le novità introdotte da Bergoglio.

Nell’affacciarsi alla loggia centrale della Basilica di San Pietro, Leone XIV indossa non solo la veste bianca che era stata l’unico abbigliamento scelto da Francesco – primo simbolo di discontinuità con il tradizionalismo conservatore di Benedetto XVI – ma anche il molto elaborato rocchetto e la mozzetta rossa sulle spalle. I più inveterati aprioristici critici osservano anche che ha una croce d’oro invece di quella più sobria e pastorale utilizzata dal suo predecessore. In realtà, quando andrà a fare visita alla sua vecchia casa nel Santo Uffizio, ne mostrerà una differente, simile a quella del “Buon pastore“.

Dettagli, indubbiamente. Ma la simbologia, in un evento come quello dell’elezione di un papa e del suo primo affacciarsi alla città e al mondo, ha una sua incontestabile valenza comunicativa: ci dice, in sostanza, che Leone XIV si inserisce nel solco di Francesco ma che lo fa e lo farà seguendo un percorso dottrinario differente che tenterà una mediazione tra conservatorismo inveterato e innovazione necessaria. Da un punto di vista prettamente laico (e, se è consentito, anche agnostico per quanto riguarda le questioni di fede/non fede) e anche politico, la scelta fatta dai cardinali appare come una sfida al trumpismo.

Una sfida doppia: perché Prevost è di nascita statunitense, di adozione peruviana e ha origini parentali francesi, spagnole e pure italiane. Lo si potrebbe definire un “papa globale“, un papa quindi che non è esclusivo riferimento di un paese e che, per le sue scelte di vita, l’agostinianesimo, l’essere missionario per lungo tempo in terre in cui la povertà e il disagio diffuso si toccano con mano e si vedono ogni giorno, la pluralità culturale e la conoscenza dell’amministrazione curiale, del mondo vescovile, è la sintesi più consona trovata dal cardinali elettori per sintetizzare dottrina e pratica, fede e ragione, questioni interne al Vaticano e politica estera dello stesso.

Qualunque papa fosse succeduto a Bergoglio non avrebbe potuto, anche se si fosse trattato del più conservatore tra i porporati, scostarsi nettamente, operare una cesura uguale e contraria a quella messa in essere tredici anni fa dopo la rinuncia di Ratzinger alla guida di una Chiesa impantanata negli scandali tanto economici quanto di natura più propriamente etica e morale. Non c’è alcun dubbio sul fatto che Francesco abbia rimesso la barca di Pietro su una rotta meno accidentata e abbia aperto la via a riforme che, tuttavia, non sono state messe a terra e, quindi, completate in una ristrutturazione complessiva dell’apparato tanto dottrinario quanto amministrativo della Santa Sede.

Papa Prevost dalla loggia centrale di San Pietro non sembra rivolgersi ai romani e al mondo con un breve discorso di saluto: sembra proprio fare una sorta di omelia che mette al centro la pace. Le sue parole in merito sono abbastanza chiare e ininterpretabili: l’augurio è per «una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante». Ed immadiatamente dopo omaggia Francesco e manda un chiaro messaggio. Su quel punto dirimente si muoverà, con tutta probabilità, esattamente nel solco tracciato dal papa venuto dalla fine del mondo. Gli esperti vaticanisti informano che anche sui migranti il suo ministero potrebbe essere in continuità con quello bergogliano.

Pare, invece, che differentemente da Francesco, Leone XIV sarà meno aperto sui temi dei diritti e della presenza entro il contesto laico ed ecclesiastico romano del mondo LGBTQIA+, così come sul rapporto con il contesto della femminilità, dell’essere donna nella chiesa del secondo quarto del primo secolo del nuovo millennio. Il nome che Prevost sceglie, poi, rimanda a Leone XIII: ed anche su questo punto si è già scritto di un riferimento esplicito all’opera sociale di un pontefice che redasse l’enciclica “Rerum novarum“, di quelle “cose nuove” che, sulla spinta della modernità incedente, dovevano essere affrontate anche da una Chiesa che aveva perso, da qualche decennio, il suo potere temporale.

Se è vero che papa Pecci fu, su questo versante, un grande innovatore, è altrettanto vero che lo scopo primo dell’enciclica era dare un posto al cattolicesimo nell’approssimarsi di un Novecento che era investito da tensioni sociali di non poco conto e che, nel timore un po’ di tutte le correnti interne alla Chiesa, potevano essere quasi completamente intercettate dal nemico pubblico numero uno: l’ateistico marxismo, il movimento socialista e, più avanti, lo spauracchio del comunismo che, nella sua perversione statalista e burocratica, avrebbe trovato nello stalinismo una torsione autolesionista e decostruttrice dei veri princìpi liberatori che avevano ispirato fin dalle origini la nascita delle leghe dei giusti e dell’Internazionale.

Leone XIII, se è l’esempio a cui si ispira il suo successore numerico, è quello che è stato chiamato il “papa dei lavoratori“, ma è anche, quindi, un determinato avversario del socialismo e della critica sociale declinata nella lotta di classe e, nemmeno a dirlo, della possibilità di una liberazione dallo sfruttamento capitalistico mediante un processo di stravolgimento rivoluzionario. Prevost potrebbe avere esattamente questo ruolo di ambivalenza: da un lato il farsi riconoscere come pontefice vicino ai moderni mondi dello sfruttamento liberista e, dall’altro lato, cercare – esattamente come Pecci – un compromesso con un regime delle merci e dei profitti che determini una nuova fase di pace sociale.

Non è, del resto, mai stato compito della Chiesa sovvertire il capitalismo ma, sulla scorta della dottrina per l’appunto sociale, mitigarne gli eccessi ed avere una funzione così di gestione delle tensioni, di dialogo fra le parti. Nulla mette e metterà mai in discussione la legittimità padronale, il profitto come fenomeno conseguente ad una sorta di naturalità delle relazioni interclassiste che sarebbero, alla fine della fiera, la volontà di un dio che, pur nel rispetto del libero arbitrio, dispone e non fa muovere foglia che egli espressamente non voglia.

La scelta del conclave, quindi, se la si guarda in una dimensione tanto locale quanto globale, sembra davvero una scelta mediana sul piano degli equilibri curiali e mediatrici su quello dei rapporti extraromani della Chiesa. Un tentativo di tenere unita una comunità mondiale di fedeli, di interessi e di relazioni con gli altri poteri sparsi nel mondo, dando questo compito ad un uomo che non è né un conservatore tout court (anche se pare che abbia votato repubblicano negli Stati Uniti… lo dicono i registri degli iscritti alle primarie dell’Grand Old Party consultati dalla CNN) e nemmeno un progressista come poteva essere etichettato (a volte anche impropriamente) Jorge Mario Bergoglio.

Una valutazione ulteriore, come pura suggestione, può essere quella riguardante la durata del conclave stesso. L’Apostolica Sedes Vacans è durata soltanto 17 giorni e una ventina di ore. Dei papabili su cui bookmakers di ogni latitudine e longitudine avevano scommesso avidamente, nessuno è salito al soglio pontificio. Sarebbe molto interessante sapere se l'”effetto Trump” ha avuto – e probabilmente è stato così – un riflesso condizionante in seno all’assemblea dei prìncipi della Chiesa. Leone XIV parla di pace “disarmata“, quindi di un qualcosa che è completamente alieno alle politiche tanto dell’imperialismo occidentale quanto di quello orientale.

Parla, altresì, di pace che disarma (usa l’avverbio “disarmante“): un altro messaggio diretto a chi invece va nella direzione opposta, a cominciare da un’Europa la cui parola d’ordine è invece “riarmo” costi quel costi (due, tre, quattro, cinque punti del PIL di ogni paese membro dell’Unione). Il biglietto di presentazione di Prevost è, dunque, accettabile anche da un mondo laico, pacifico e pacifista che non guarda alla Chiesa di Roma come riferimento religioso. Invoca ponti e non muri, dialogo e non un confronto a distanza tra le differenti culture, le altre religioni e una multipolarità che è la vera questione dirimente in una guerra continua e multilaterale. Dunque, la prima impressione è di trovarsi innanzi ad un preservatore della dottrina aperto alle sfide del presente.

La scelta dei cardinali è caduta su un uomo che potrebbe piacere, per usare le categorie politiche sovente in uso anche quando si parla di affari interni al Vaticano, tanto a sinistra quanto a destra, tanto ai progressisti quanto ai conservatori. Non gli potremo rimproverare ciò che gli sentiremo dire su aborto, famiglia e diritti LGBTQIA+: il papa è e rimane il papa. Qui non ci troviamo nella comunità evangelica, nelle frange più aperte del Protestantesimo ad un approccio ragionato verso la realtà che muta e che ha bisogno di una costante innovazione tanto interpretativa sul piano dottrinale quanto meramente culturale e sociale. La Chiesa Cattolica è pur sempre una monarchia assoluta, un potere che deve garantirsi in quanto tale.

Nessuna illusione, quindi. Ma, se questo pontificato, come pare, andrà nella direzione tracciata da Francesco, non si tratta, almeno per ora, di una cattiva notizia. Noi rimaniamo marxisti e comunisti, ma non dispiace avere come compagno di strada, per lotte di grande importanza civile e sociale, anche il papa: una voce che, se davvero cristiana ed evangelica, non può non parlare a tutti delle sofferenze degli ultimi del pianeta. A quegli stessi ci rivolgiamo non promettendo paradisi e vite ultraterrene di cui non possiamo avere contezza, ma cercando una unità di intenti che si traduca in una lotta per progredire nella direzione della fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sugli animali, dell’uomo sulla Natura.

MARCO SFERINI

9 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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