Le crepe nella maggioranza e la grande occasione dei referendum

Il governo Meloni non lo si batte certamente sperando che si acutizzino le problematiche interne sorte sul terzo mandato di Fugatti e Fedriga nelle rispettive regioni autonome. Ma, tuttavia,...

Il governo Meloni non lo si batte certamente sperando che si acutizzino le problematiche interne sorte sul terzo mandato di Fugatti e Fedriga nelle rispettive regioni autonome. Ma, tuttavia, qualche crepa nella maggioranza di governo inizia a manifestarsi dopo quasi tre anni di indefessa graniticità di una destra che, come spesso si sente dire, perché del resto è vero, si compatta abilmente ad ogni tornata elettorale. Quella del rinnovo dei mandati delle amministrazioni trentine e friulane è una questione un po’ più complessa ma anche molto semplice nella sua descrivibilità.

I due presidenti uscenti, ormai giunti alla fine dei loro secondi mandati, vorrebbero il terzo giro di valzer. Ma la legge è chiara in merito e, poi, le obiezioni sollevate contro De Luca sarebbero smentite platealmente da una scelta differente a seconda del colore politico di chi pretende di rimanere quasi vita natural durante al posto di Presidente della Regione. Così, si consuma lo scontro in Consiglio dei Ministri: Fratelli d’Italia e Forza Italia da un lato, la Lega dall’altro, A domanda risponde lo stesso Fugatti: non c’è per lui nessun problema di tenuta dell’esecutivo meloniano.

Ma la sostanza è questa: la Regione Trentino-Alto Adige ha fatto una legge ad hoc per alzare il limite dei mandati presidenziali da due a tre e, ora, il governo la impugna davanti alla Corte Costituzionale. Se non è una premessa per una crisi strutturale della maggioranza, non c’è dubbio sul fatto che sia un bello scossone tellurico per le destre di Palazzo Chigi. A memoria, è difficile ricordare una contrapposizione così netta e, per di più, su questioni non meramente tecniche ma prettamente politiche. Di gestione proprio del potere politico.

Finché si tratta di divergenze di opinioni su temi di rilevante importanza nazionale e internazionale, come ad esempio il riarmo, le spese militari, i soldi del PNRR da mettere a terra e concretizzare in opere che, almeno per il momento, faticano a vedere la loro espletazione in corso d’opera, la dialettica di governo sta nei termini anche del legittimo e persino auspicabile confronto-scontro politico: ovvio che, anche in quel caso, si tratta di gestire delle fette di potere ma, se non altro, la mediazione istituzionale è finalizzata ad obiettivi che, almeno in apparenza, riguardano qualcosa di esterno alla compagine di governo.

Qui, invece, il dilemma è tutto interno ai rapporti tanto locali quanto nazionali di una maggioranza che deve fare i conti con una pletora di interessi molto particolari alla cui base, sostanzialmente, stanno i consensi di interi territori che, almeno per la Lega, sono storicamente la sua fascia di riferimento sociale ed imprenditoriale: fatta di una rete di piccole e medie aziende che hanno indotti di ogni tipo e non di certo poco conto. Per cui il gioco va oltre la misura dell’istituzionalmente corretto, della correttezza formale dei riscontri tra i partiti che si vorrebbero indefessamente uniti e marcianti all’unisono verso l’obiettivo comune.

Anche il governo Meloni, vissuto massmediologicamente come qualcosa di molochiano, di intangibile, di imperturbabilmente indistruttibile, è un aggregato di più posizioni differenti; così di altrettanto diverse impostazioni sia ideal-ideologiche sia pragmaticamente declinabili nella non certo facilmente risolvibile quotidianità delle contraddizioni che emergono lungo tutto lo Stivale dove i salari sono sempre fermi o più bassi, dove lo sfruttamento è sempre più prepotentemente utilizzato come arma di ricatto antisociale e dove i diritti civili ed umani subiscono la medesima umiliazione.

Fugatti, poi, non usa mica mezzi termini: nell’apprezzare l’ovvio appoggio dei ministri leghisti e di Salvini in persona, rimarca come la decisione espressa dal voto del governo corrisponda ad «un atto politico contro l’autonomia del Trentino». Ecco che la faccenda si complica, perché le fratture qui si moltiplicano e non riguardano solamente la Lega nella sua accezione ormai tipicamente nazionale e ipernazionalista (quella che l’ex capitano si ostina a sostenere con l’elezione di un vicesegretario come Roberto Vannacci), ma quei regionalismi che sono, un po’ da sempre, il fulcro di uno sviluppo della politica (fintamente) sociale del leghismo d’antan.

Non è certamente la prima volta che prende corpo una dicotomia tra centro e periferia nella politica italiana e, tanto meno, se si tratta di singole forze politiche che, per di più, sono state attraversate da una serie di contraddizioni così vistosamente palesi da far impallidire qualunque faccia tosta, qualunque vergogna mostrata ed esibita con distinta ostentazione: dal secessionismo all’ipernazionalismo italiano il passo è breve se si ha come obiettivo la partecipazione alla gestione del potere comunque e quantunque.

Di differente rispetto al passato vi è, semmai, il contesto politico, sociale ed economico più genericamente inteso sul piano internazionale: se, da un lato, si registra ancora oggi – con i risultati portoghesi e con quelli prevedibili in Polonia – una affermazione sempre più vasta delle destre in Europa, è altrettanto vero che la crisi globale porta con sé il tema delle guerre regionali e continentali quali espressioni dell’instabilità multipolare del capitalismo liberista. Quindi, per essere molto esplicitamente sintetici, qualunque governo, compreso quello meloniano, ha tutto l’interesse ad aggrapparsi a sé stesso per reggere nella procella di tensioni che si registrano diffusamente ovunque.

Se si guarda, poi, allo stato economico e sociale interno, l’Italia vive oggi, alla vigilia dei referendum dell’8 e 9 giugno (che il governo sta tentando di boicottare con l’invito all’astensione dal voto) una sempre più verticale divisione tra ricchezza e povertà e, per quanto riguarda quest’ultima, una sua marcata identificazione, una fisiognomica interpretazione costante con il dimagrimento del potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Il governo Meloni una promessa l’ha mantenuta, tra le tante fatte nelle campagne elettorali pre-settembre 2022: quella di guerreggiare contro i più fragili e deboli di questa disgraziata società dei finti consumi utili.

L’ISTAT ci dice che sono proprio le politiche dell’esecutivo di destra-destra ad aver allargato la forbice del netto divario tra classi già immerse nel regime di povertà e classi sociali che lo diventeranno ben presto. C’è un indice di rilevamento a tale proposito, il coefficiente di Gini, utilizzato per stimare a livello internazionale la diseguaglianza riguardo la distribuzione del reddito, che è salito – per quanto riguarda l’Italia – al 30,40% nel 2024. Citando testualmente ciò che dice il rapporto dell’ente: «Le modifiche al sistema di tasse e benefici introdotte nel corso del 2024 diminuiscono in lieve misura l’equità della distribuzione dei redditi disponibili delle famiglie».

Pare chiaro, quindi, che l’esecutivo è entrato a gamba tesa in una già fragilissima rete di garanzie sociali sempre più ristrette e compresse a tutto vantaggio del privato, della logica commerciale di diritti che, invece, dovrebbero essere tutelati secondo i dettami costituzionali. L’abolizione del reddito di cittadinanza è stata, da questo punto di vista, una negativissima pietra miliare nel percorso di superamento di quel minimo di recupero di giustizia sociale che si era tenuemente intravisto nel considerare il sostegno economico alle fasce più modernamente proletarie e sottoproletarie come un valore e non un peso.

Il passaggio dal Conte II al tecnicismo draghiano (pure sostenuto anche dai Cinquestelle e, nemmeno a dirlo, dal PD) e, infine, al melonismo, ha sancito la rottura completa con un qualunque presupponibile ripristino di anche soltanto singoli interventi su parziali fasce di reddito e ha rimesso il lavoro al centro di una dipendenza dalla variabilità degli indici di mercato e di borsa, creando nuove predisposizioni ad un incremento della povertà come conseguenza inevitabile delle contingenze attuali. Niente di più falso.

Si trattava e si tratta tutt’oggi di scelte apertamente dettate da una volontà politica che tutela il privilegio, il profitto, i dividendi aziendali e la grande industria convertita allo sforzo bellico nordatlantico, istericamente fisso sul riarmo come unica prospettiva di evoluzione incivile (proprio perché militare) che necessita come minimo del 2% del PIL sottratto alle istanze sociali e, come massimo (ma al peggio mai c’è fine…), del 5% reclamato apertamente dalle alte gerarchie della NATO. Dunque, mentre la compagine di governo litiga su secondi e terzi mandati dei presidenti di regione, il livello di povertà cresce e la disaffezione verso la politica, le istituzioni e la democrazia anche.

Il teorema destrorso è, del resto, sempre stato questo: meno democrazia, più decisionismo unilaterale governativo, a scapito delle prassi parlamentari e, magari, persino della giustizia che è vissuta spesso e volentieri come una seccatura se si riconosce nella sua costituzionale indipendenza. La crisi di governo non è davanti a noi, ma su queste contraddizioni emerse nella maggioranza bisognerebbe lavorare per ampliarne il perimetro e mettere in difficoltà l’esecutivo proprio a riguardo dei temi che concernono il lavoro e la tenuta sociale del Paese.

I referendum dell’8 e del 9 giugno sono una meravigliosa occasione di recupero della sovranità non solo popolare, ma delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari tutti, dei disoccupati e di quelli che il melonismo disprezza con un tono di saccente superiorità etica: i “divanisti” a cui avrebbe tolto il reddito di cittadinanza, per indurre gli scansafatiche a lavorare. Sarebbe bello poter mettere al lavoro per 6 euro l’ora (ed è già una paga da leccarsi i baffi…) gli esponenti del governo. Fare fare loro un po’ di migliaia di chilometri su moto, scooter e biciclette per fargli comprendere il vero valore di un’ora di lavoro ipersfruttato.

Basta chiederlo non solo ai riders che ogni giorno portano i pasti a chi sta comodamente a casa, ma pure agli italiani ed ai migranti che raccolgono frutta e verdura nei campi e che lo faranno, ora che si avvicina la bella stagione, con un sole cocente sulla testa, rischiando di morire per colpi di calore al prezzo di 3, 4 euro all’ora e senza la minima garanzia sindacale, senza alcuna tutela, abbandonati come merce deteriorata se uno sviene e rimane, inutilmente, a terra… Diamo una spallata a questo governo, per mandarlo il più presto possibile a casa ed evitare all’Italia di avventurarsi ancora oltre nel tunnel nero e buio della compressione dei diritti, del superamento della democrazia, dell’autoritarismo a cattivo mercato.

MARCO SFERINI

20 maggio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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